L’evidente richiamo al
più famoso quadro di Gustave Courbet
che apre il film stabilisce le regole a cui sottostare, compresi noi
spettatori: la vulva appartenente al corpo statuario di una figura
angelica irradiata di luce in quello che per un naufrago clandestino
può apparire indubitabilmente come il Paradiso, non è
da considerare come esibizione dell’organo sessuale muliebre ma
come varco, porta geografico-culturale, fenditura che segna il
passaggio da una realtà fatta di intuibili privazioni ad una
che almeno sulla carta rivela la sua ammaliante accoglienza, e
infatti la sequenza appena successiva, protesi naturale del
bellissimo prologo, mostra un tragitto urbano rovesciato e
simmetrizzato che simula efficacemente l’idea di penetrazione da
parte di un corpo esterno, stigmatizzato nel titolo dell’opera come
L’invasore. Colui che
invade, Amadou, immigrato africano in una Bruxelles capitale di
perdizione, ha ben poco del grado belligerante che suggerirebbe la
sua carica perché come ogni clandestino che si rispetti la
nuova vita che lo attende nella nuova città europea è
brachilogicamente definibile così: una merda.
Nicolas
Provost (il regista; belga; al debutto dopo una lunga serie di lavori
sperimentali) pur gettando le basi per un’idea di cinema politico
si disimpegna in parte di tale fardello dal momento in cui l’amico
febbricitante di Amadou viene fatto “svanire” nel nulla; da qui
in avanti Provost dona alla propria opera un’aura speciale che
batte strade pronosticabili (senza un lavoro, senza un soldo, Amadou
deve trovare degli stratagemmi per campare) con risvolti però
inattesi. Si parte con il pedinamento del protagonista nei confronti
di una donna (Agnès/Stefania Rocca) vista confabulare con il
boss malavitoso, segue un avvicinamento da parte di Amadou che
porterà i due a copulare nel lussuoso loft di lei. Si
immaginerebbe che una tale insistenza da parte dell’uomo di
insinuarsi nella vita di una donna in affari abbia un secondo fine
visto il torbido legame col capoccia, invece no, la faccenda
dell’amico con ogni probabilità ucciso viene gestita da
Provost in maniera separata (la vendetta si consuma casualmente in un
peep show), quello di Amadou/Obama non è affatto un doppio
gioco, è svelamento dell’essenza umana di cercare
congiunzione nell’altro, bisogno di calore, morbidezza, confronto,
intesa. La mossa disorienta poiché inaspettata, anche se è
possibile vedere nella necessità di Amadou un desiderio
integrativo (e quindi, forse, la prospettiva politica non è
del tutto da depennare) corroborato da alcune battute che rivolge ad
uno degli abitanti della casa-rifugio e che fanno pressappoco così:
“non me ne frega un cazzo se loro mi stanno cercando, adesso ho una
donna di qui che mi ama”, riportando, tra l’altro, tutto
all’immagine inguinale dell’inizio.
Il
percorso di Provost, al netto di una punteggiatura videoartistica
eredità di quanto precede L’envahisseur (2011),
non è esente da piccoli incidenti tutti riconducibili al piano
sceneggiaturiale che lasciano delle perplessità non
completamente obnubilate dalla sospensione dell’incredulità,
ad esempio: l’introduzione di Agnès nella storia sa un po’
di forzatura perché non verrà chiarito quali sono i
rapporti col capo mafioso per cui l’episodio appare costruito a
tavolino; l’artificiosità si fa largo anche nella rapidità
con cui Agnès, sposata e in carriera, cede alle lusinghe di un
completo sconosciuto e di come quest’ultimo si sbarazzi del collega
(… amante?) semplicemente con una telefonata anonima, oppure dalla
facilità con cui sempre Amadou si intrufola nelle stanze del
cattivo o della “casualità” di incrociare per le strade
notturne di Bruxelles una delle persone che stava cercando, questi
sono fatti che ad una scansione razionale è facile rilevare,
poi però arriva il finale (ottimo come l’incpit) e la
tolleranza verso gli inciampi appena descritti prende il sopravvento.