giovedì 6 ottobre 2016

Le delusioni sono unite dalla ferrovia

Finalmente, dopo lunghi giorni fatti di trepidante attesa, il Detective lo chiamò: Signor Farfalli so tutto. Sapeva tutto. Dicadica Esimio. Allora: la sua ex moglie ha una relazione con un’Ombra. Veramente il divorzio non è ancora… un’Ombra… senta io, cioè, sì, ho bisogno di sapere di più. Fanno altri 300 €. Non li ho. Sfarfalli lei non ha mai niente! È un essere abietto che passa le giornate ad ispezionarsi l’ano con l’indice incappucciato nella carta igienica! Va bene… domani le farò il bonifico, però la prego: voglio nome, cognome, indirizzo, ogni cosa.
Ogni cosa.
Ombre.
Il passatempo preferito di Farfy era quello di aprire Google Maps e di paracadutare l’omino arancione che sta in basso a destra sullo schermo in un punto imprecisato del mondo, una volta, ad esempio, lanciato l’avatar dalle parti di Sapporo, gli capitò di trovarsi in una spiaggia ocra e ruotando l’immagine come se torcesse il collo vide un tizio in Montgomery blu che lasciava le proprie orme sulla sabbia. Dopo la telefonata con il Detective si affacciò alla finestra e impastò nel palato un blob di catarro che espulse nel vuoto sottostante, quel lungo filo giallo che terminava in un ovetto di densa saliva verdastra era l’omino di Google Maps, era l’avatar, era lui stesso proiettato sull’asfalto. Quella notte non chiuse occhio, eppure sognò di essere un gambero d’acqua dolce che viveva nella pozza oscura di una grotta millenaria, ogni tanto, quando il sole filtrava dalle fenditure in superficie e illuminava la parete del laghetto, poteva leggere queste antiche parole rupestri: E SE I GIORNI E LE NOTTI CHE TI LASCI DISTANTI TI RITORNANO ADDOSSO CON QUALCOSA DI NOSTRO.
Al mattino il gruppo di WhatsApp dei non-amici era già pieno di tette e culi, allora Farfallausen salì sul tetto della casa e tirò una forte bestemmia contro quell’Ombra che immaginava copulare selvaggiamente con l’ex moglie, sicché non gli rimase altra scelta che balzare nel cesto della sua mongolfiera e sollevarsi in volo come una lanterna cinese nel cielo adamantino. Mentre sorvolava un villaggio di centauri che al passaggio dell’arcobalenico aeromobile iniziavano a scalciare e a battersi il petto villoso con i pugni, il Detective chiamò: Fharhfallhen so tutto. Sapeva tutto. Dicadica Egregio. L’Ombra in questione… ha presente, no? Ecco, lavora alla stazione di Milano Centrale. Aaaah maledetto, ha pure il posto fisso il bastardo… voglio sapere dell’altro, voglio, voglio, voglio! Fanno altri 300. Occhei.
Si stava dirigendo al Lago Vomito perché comunque il Lago Vomito è un bel posto. Già in alta quota poteva avvertire quel tipico odore biliare che agguantava la gola e una volta ancorata la mongolfiera si incamminò sul lungolago, era una giornata meravigliosa e due piccoli fratelli siamesi attaccati per la testa costruivano dei fantastici castelli di muco, poco più in là la lenza di un anziano pescatore era tesa per via di un pesce fecaloide [1] che aveva abboccato all’amo. Farfallus de Farfallis pensò all’ex moglie come d’altronde faceva ogni istante della giornata e si convinse che anche Lei, in quel momento, stava pensando a lui, era logico, naturale, non c’era nessuna Ombra, sì c’era, ma non era importante, lui era importante, il più importante, non c’era spazio per altri, la verità era solo una: questa. Si gasò. Lanciò un urlo che spaventò i fratelli siamesi e che sconcentrò il pescatore, tolse i vestiti mostrando la patetica nudità del corpo umano antisportivo: la rincorsa fu goffa, il tuffo fece “blop” e sparì. Perché il Lago Vomito lo accolse come accoglie tutti gli scarti, e così scese a piombo nell’ammasso di bile e succhi gastrici, nelle pelli di pomodoro e di mais non digerite, nella pasta in bianco mangiucchiata e rimessa, negli ettolitri degli acidi alcolici rimestati dal fegato, nei rivoli ematici delle emorragie interne, nella melma biologica dell’umano, nel liquido di spurgo delle nevrosi, delle dipendenze, delle malattie, della rabbia, degli amori non più corrisposti. Farfallosos sprofondava piano, in estasi, e si fermò solo quando arrivò sul fondo dove secoli e secoli di conati ne avevano sedimentato il pavimento. Affianco a lui poteva scorgere la mezzaluna di un UFO incastrato sul fondale e dentro la cupoletta intravedeva la mummia di un alieno efebico. Proprio in quel momento drin drin Detective. Farfallovic! Ho una grossa novità. Grossa. Dicadica Illustrissimo. La sua ex moglie è incinta.
A quel punto, che non è un punto normale ma è un pozzo, una cosa nera, brutta e spaventosa, Farfallesky si sentì come quando gli umani prelevano un canarino da dentro una gabbietta: lo stringono nel pugno e quasi quasi sono tentati di stringere più forte per vedere fino a che punto il cuore dell’uccellino sarà in grado di resistere. Laggiù, nelle profondità vischiose del Lago Vomito, MacFarfall si arrese e iniziò ad aspirare. Che cosa? Tutto. Adesso voleva tutto dentro di sé perché per riempire certi vuoti non c’è altro modo che ingoiare il vomito planetario, e allora risucchiò l’inverosimile che è verosimile: era il peso limaccioso della sofferenza altrui che si depositava nel suo stomaco e che lo fece diventare una gigantesca palla di sostanze gastriche in ebollizione, e cominciò a sollevarsi da terra, e divenne una mongolfiera straripante di sbocco, un avatar rimpinzato di rigurgito, e vide l’UFO riattivarsi con intorno miriadi di pesci fecaloidi sbattere la codina escremenziale, e ritornò a casa sospinto dal vento lasciando dietro di sé refoli acidi e una pioggia di lacrime tristi, quelle che fanno nascere i fiori negli interstizi dei marciapiedi. Atterrato nuovamente sul tetto il globo-Farfalliño ebbro e dondolante si avvicinò al parapetto e ciò che doveva accadere, semplicemente, accadde. Con uno sforzo inumano ricacciò di nuovo quel tutto che aveva dentro nel campo di pneumatici abbandonati sotto il palazzo, e si creò un altro Lago Vomito perché le cose stanno così, e questi laghi sono nomadi in quanto si formano quando la gente sta male, e la gente sta male sempre, dappertutto.
Quella notte Von Farfall non dormì e non sognò niente perché non aveva più sogni, l’Ombra glieli aveva uccisi. Alle tre di notte inviò un SMS al Detective: domattina arriverò a Milano, mi porti dall’Ombra, farò una strage.
Partì all’alba, con il primo treno disponibile, insieme a lui tanti altri fantasmi con un peso sulle spalle e tanti chilometri da percorrere. Mentre il viaggio era un continuo tututump si assopì leggermente per ritrovarsi in una stanza scura illuminata da una lampada sopra un tavolino a cui era seduta la sua ex moglie. Lui le disse che era sempre molto bella e che non era affatto incinta, lei rispose che quello era solo un sogno e che nella realtà una piccola ombra di tre mesi stava crescendo nella sua pancia. Si ridestò per via di una brusca frenata del macchinista, per un attimo, sopra i binari, era fluttuata una donna enorme, sferica, ma giusto un attimo e poi era volata via oltre le colline.
Piacere io sono il Detective. Piacere io sono Far-Fal-lyn. Non si piacquero. Il Detective aveva una mano, un braccio finto e una profonda cicatrice dalla nuca fino a metà labbro, Farfalleïn, beh, era Farfallescu. Nel mare di persone vermicolari e lucertole in giacca e cravatta i due si diressero verso il bagno vicino al primo binario, sulla soglia il Detective sbarrò l’entrata con il braccio finto e tirò su quello buono sfregando il pollice con l’indice. 400 €. Ammazzerò quell’Ombra e riconquisterò mia moglie e voleremo con un aliante sopra le foreste e gli oceani. Sarà perfetto. Il Detective lo degnò appena di uno sguardo perché aveva solo un occhio vedente, poi fece strada tra i laidi cessi e accucciandosi per sbirciare sotto le porte fece un “ah” di autoapprovazione quando trovò quello che cercava. Era un bagno normale con le piastrelle impiastrate da numeri telefonici che poi erano gli stessi delle chat di gruppo di WhatsApp. Il Detective tirò la catena penzolante e una minuscola porta si aprì affianco alla coppa, poi prese un Montgomery blu sgualcito attaccato all’appendiabiti della porta e lo porse a Farfallanson. Se lo metta, addio. La ringrazio Detective, mi ricorderò di lei.
Il Signor Farfalli gattonò sul pavimento zuppo di urina ed entrò nella porticina che subito si richiuse alle sue spalle. All’inizio fu buio, dopo anche, in seguito non fu più né buio né luce, fu: Niente. E lui stesso non si percepiva nemmeno più come tale, non sapeva nulla, non pensava nulla, non c’erano ombre, era solo la Caduta Definitiva, lo spazio infinito che separa l’omino di Google Maps dalla partenza all’arrivo. Venne svegliato dal verso stridulo di un gabbiano appollaiato su uno scoglio, la spiaggia era deserta e lui iniziò a camminare, il telefono gli vibrò in tasca: APRI SMS: Detective: ma vede Signor F. lei adesso è davvero di fronte a tutto, è dove ognuno di noi giunge in un momento preciso della propria vita: sulla battigia di una spiaggia giapponese solo e smarrito.
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[1] I pesci fecaloidi appartengono alla famiglia dei pesci stronzei e i loro habitat naturali sono i laghi d’origine gastrointestinale. Il colore varia dal marrone scuro alla senape. Una volta ne ho visto uno.

mercoledì 5 ottobre 2016

Love Song

Fotogramma di una donna che sale delle scale su cui sono state poste delle candele accese. Cambio scena ed un uomo è disteso sul pavimento, affianco ha una sveglia che comincia ossessivamente a trillare, l’uomo si alza per gironzolare nervosamente nella stanza fatiscente, ad un certo punto scaglia una trave contro la finestra e con un coccio di vetro tenta di lavarsi i denti, poi si avvicina ad un lavandino fuori uso e con dell’acqua invisibile si deterge la faccia, infine mette su giacca e cravatta per inoltrarsi nei corridoi del palazzo mentre sullo schermo ritorna per alcuni istanti il viso della donna.

Quell’uomo è Sion Sono e Love Song (1984) è in assoluto il suo primo vagito nel mondo-cinema. Onestamente non riesco a trovare collegamenti significativi con il Sono che verrà, sì forse la figura femminile è un’antenata delle molteplici Mitsuko che popoleranno la filmografia del giapponese, ma è un laccio debolissimo nonché forzato da un’ostinata ricerca filologica da parte del sottoscritto. In realtà questo breve cortometraggio non ha nient’altro che non sia lo spirito amatoriale di un al tempo ventitreenne che inizia a cimentarsi nelle riprese con l’8mm, il che ci catapulta in avanti di ben ventinove anni sulle tracce dell’Hirata di Why Don’t You Play in Hell? (2013) e alla sua necessità di riprendere qualunque cosa gli girasse intorno. Pur non avendo punti intrinseci di memorabilità, Love Song resta una chicca per il suo essere miccia del dispositivo sononiano, la scintilla dove non c’era nulla (nemmeno Miike, il regista nipponico più vicino a Sono ha esordito negli anni ’90), il big bang che ha dato origine ad un universo in imperterrita espansione.