domenica 29 gennaio 2023

Chuva É Cantoria Na Aldeia Dos Mortos

Dopo anni passati a riprendere il grigiore reale delle periferie portoghesi con Montanha (2015) apice del tracciato autoriale, nel 2018 João Salaviza stravolge il proprio cinema andando a sondare territori molto (ma davvero molto) più impalpabili rispetto al passato, tanto che, con sorpresa da parte di chi scrive, la fonte di ispirazione primaria parrebbe essere l’asso thailandese Apichatpong Weerasethakul. Infatti, guardando il prologo lacustre di Chuva É Cantoria Na Aldeia Dos Mortos (2018) è impossibile non pensare a Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti (2010), l’aderenza ambientale fa sicuramente il suo ma è quel tendere ad una dimensione altra, spirituale, primigenia che fa associare in un attimo il nuovo sguardo del lusitano alla sacralità del collega asiatico, e non solo, perché oltre ad un sovrapporsi stilistico e tematico, anche strutturalmente Salaviza segue  un modello weerasethakuliano, come fu per l’indimenticabile Tropical Malady (2004) anche questo film si costituisce in una bipartizione, ma rovesciata: non dalla civiltà alla foresta bensì il contrario con annesso biglietto di ritorno. È una virata netta e inaspettata per Salaviza, anche se, grattando via la patina superficiale, rimane un tratto comune nella sua arte, se lo si vuole ciò che fa per Chuva... non è poi troppo diverso da, chessò, Rafa (2012), alla fine, potando le licenze soprannaturali, è pur sempre una realtà che il regista va a catturare, e che siano i palazzoni di Lisbona o delle capanne di un villaggio brasiliano, alla radice permane la spinta di registrare la vita, il più possibile vicino ad un concetto di verità, oltre la mdp. Non sto nemmeno a ribadire l’ovvio, ossia che qui, data la cornice etnografica, si è maggiormente sedotti dal risultato finale, però penso sia condivisibile sostenere che pur cambiando di parecchio Salaviza ha comunque mantenuto certe coordinate salienti.

Co-diretto insieme alla compagna Renée Nader Messora (è lei ad aver stretto nel tempo i rapporti con la comunità indigena dei Krahô), l’opera procede in una nebbia mistica e nemorale, fatta nostra la componente illustrativa (lo so, brutto definirla così, peggio ancora chiamarla divulgativa) che dà l’occasione di entrare in una riserva tribale da restare a bocca aperta per noi occidentali (e che ha un valore aureo al di là dello status di film perché di nicchie umane del genere, poste su equilibri fragilissimi e minacciate da politiche scellerate, in un futuro ahinoi non troppo lontano rimarranno solo brandelli, per cui ben venga una testimonianza sul campo come Chuva...), è il tragitto personale di Ihjãc, ovviamente imbevuto del folklore locale, a diventare centro gravitazionale della storia. Per scandire il percorso quasi divino del ragazzo viene sottolineata la compresenza dei non-vivi nel mondo dei vivi, senza lasciarsi andare a manifeste apparizioni ectoplasmiche, il film lavora sulla filigrana delle immagini, sono loro che ci trasmettono un ventaglio di suggestioni capace di sopperire a qualunque didascalia, la forza estetica (che diventa estatica) di un arbusto che brucia nella notte nera trasporta in uno stato simil-onirico, e non sorprende quindi che prima del ritorno a casa di Ihjãc un indigeno-fantasma compaia per le strade deserte della città dotato di fiaccola ardente. Nel complesso l’idea di un qualcosa aleggiante e ultraterreno è una piacevole costante che si protrae per l’intera durata (scena mia preferita: il malessere del protagonista è il controcampo preciso su un’ara dal meraviglioso piumaggio), João e Renée mantengono una misura formale che dà dei discreti frutti: ritratto antropologico e senza filtri marcatamente finzionali di una tribù ancora immersa in un ritualismo magico, spolverata narrativa che riduce la portata documentaristica, intimo cammino di metabolizzazione (di un lutto e di un Io in trasformazione) venato da un’arcaica trascendenza.
Un film in tutto e per tutto festivaliero, ma comunque un buon film.     

mercoledì 25 gennaio 2023

Olhos de Ressaca

Il primo cortometraggio di Petra Costa. 

L’informazione, seppur stringata, dovrebbe far pizzicare il vostro sesto senso cinefilo perché se siete capitati da queste parti non vi sarà sfuggito l’apprezzamento del sottoscritto nei riguardi della regista brasiliana. La Costa è un’autrice che ha stoffa da vendere e che per sensibilità e raffinatezza è una voce del panorama contemporaneo da preservare con cura. Il preambolo ossequioso (ma sincero, lo spergiuro) mi serve per travasare l’ammirazione verso Petra anche in un piccolo oggetto giovanile come Olhos de Ressaca (2009), di base in questo corto non vi sono elementi capaci di farti dire dire wow, ma, esattamente per tale motivo, per il suo essere “minore”, per il fluire sottotraccia, per l’esprimersi con modalità risapute nell’area cinema, è praticamente un miracolo che comunque riesca a mantenere e a diffondere un’energia, una luce, un suono dolce. In realtà di miracoloso non c’è nulla, è solo merito della Costa che si conferma, sebbene alle prime armi, una fuoriclasse nell’aprire l’intimità all’alterità, cioè a noi, nell’alternare filmati d’archivio a riprese moderne dei propri nonni materni, in sostanza, per spirito personale e delicatezza di fondo, eccoci alle prove generali per il successivo (e a dir poco commovente) Elena (2012).

Tralasciando le possibili implicazioni socio-politiche che troveranno sfogo in Edge of Democracy - Democrazia al limite (2019), Olhos de Ressaca è una riflessione su faccenduole giusto un pelo esorbitanti come l’amore e la vita portata avanti da due narratori esterni, nient’altro che il nonno e la nonna della regista (di solito è sempre stata lei a incaricarsi del commento off), un fine collage di memorie che attraversa il tempo, dal primo incontro alla senilità condivisa passando per le grandi tappe di un’esistenza che nell’ordinarietà sa essere speciale proprio perché è l’esistere in sé ad esserlo, e le immagini che fanno? Seguono passo passo la narrazione, ma solo fino a quando non imboccano diramazioni ulteriori, si appiccicano alla pelle anziana, rubano un bacio, due, tre, rimbalzano da un vecchio frammento matrimoniale alla minuscola fotografia di una nuova nascita, le immagini fanno dunque così: in silenzio, deragliano, eppure non vi è incoerenza o il sentore che ci sia qualcosa di forzato o fuori posto, Petra Costa è un’archeologa dei sentimenti, per riportarli in superficie usa la settima arte, se alcuni suoi colleghi ne ricalcassero le orme il mondo sarebbe un luogo migliore. 

venerdì 20 gennaio 2023

Kuro

Perché il punto saliente di Kuro (2017), un punto tetro, sordido, ignoto, sta tutto nell’esplicita divergenza tra il flusso del racconto e quello delle immagini. Per chi frequenta una certa tipologia di cinema questa dissonanza non rappresenta una novità, la branca che si potrebbe definire epistolare della settima arte, da Marker ed epigoni a venire, si avvale di strumenti pressoché identici per rivelarsi (il concetto è: dico una cosa ma ne mostro un’altra), ciò, comunque, non toglie il fatto che il lavoro del duo giapponese alla regia possegga delle qualità che meritano di essere viste e analizzate. Joji Koyama, artista poliedrico che vanta nel curriculum anche un videoclip per Calvin Harris, e Tujiko Noriko, musicista nonché volto femminile di Kuro, esordiscono nel lungometraggio con chirurgica misura, non tanto della storia in sé che non può né vuole essere misurata, quanto nell’idea che sta alla base e che è portata avanti, dall’inizio alla fine, con ammirabile coerenza espositiva. È una situazione opaca che attrae proprio perché non è mai posizionata sotto una luce chiarificatrice, vediamo una donna, Romi, e vediamo Milou, un uomo occidentale in stato semi-catatonico, eppure udiamo dell’altro: attraverso una voce over che parla di sé in terza persona veniamo edotti di una faccenda che ha luogo in uno spazio ulteriore, che è sì il Giappone ma che si sfibra in una dimensione onirica, una sorta di triangolo amoroso che a mano mano si fa sempre meno reale, galleggia, oscilla, affonda e risorge in uno scorrere di strane memorie o di strane fantasie senza che vi sia la possibilità di confutare alcuna istanza d’appartenenza, il che, come sarà facile immaginare, dà origine ad un trambusto interiore in chi assiste, il che, parlando a titolo personale, è anche sinonimo di fascinazione, elemento-substrato che Kuro elargisce con grande carattere. 

Si vede, e non in senso figurato, che Koyama è impegnato nelle arti visive perché ogni fotogramma di questa perturbante poesia in continuo movimento ha una carica estetica da ricordare, e c’è anche una non così flebile ricorsività nelle immagini che aiuta a stabilizzarsi sulle frequenze del film, in tale ottica abbiamo una decisa insistenza sui fiori e sulle piante, i vegetali sembrano avere un discreto peso nell’economia dell’opera, un ragionamento, forse un po’ banale, suggerirebbe un parallelo con la paralisi di Milou, una supposizione che, meno male, non può avere riscontro, ad ogni modo un aggancio maggiormente centrato si trova tra lo stesso Milou ed il signor Kuro, è come se nella narrazione di Romi il secondo sia una traslazione del primo, il comun denominatore si situa nell’assistenza che la protagonista fornisce ad entrambi, certo è che i confini non sono affatto netti perché nella parte raccontata, quella per cui ci resta solo l’immaginazione, i tre coesistono in un medesimo ambiente, però, vista la natura antiletterale di Kuro, non sto qui a dire che Milou e Kuro siano uno, né che non siano nessuno, in qualche modo (magari esclusivamente nella mente di Romi) sono e il legame che attorciglia le tre anime sullo schermo è impossibile da sbrogliare pertanto il consiglio è di farvi impigliare nella tessitura elaborata dai registi. 
Lo stream of consciousness della protagonista che si prende anche delle gradite digressioni (Romy Schneider), è supportata da un livello di scrittura che è praticamente alta letteratura (almeno nella traduzione dei sottototili inglesi), ascoltare per credere la descrizione di un sogno-diluvio accompagnato da delle riprese satellitari.

Che le confessioni di Romi appartengano al passato, al futuro o a qualunque altro piano temporale o che siano un metodo di evasione per sfuggire alla durezza del quotidiano (e quindi da un compagno in condizioni di salute molto precarie), il precipitato che cola giù da Kuro è uno sgocciolio denso e nero, è Mistero, è Kafka, è Ligotti, è Moresco, è il portarsi in oscure zone di confine ricorrendo ad un dispositivo cinematografico che disloca, non solo le componenti interne che lo costituiscono, ma anche, inevitabilmente, la percezione dello spettatore impegnato a disambiguare qualcosa che, alla fine, non vale la pena sforzarsi di interpretare con raziocinio. 
Koyama & Noriko: i miei più sinceri complimenti per il vostro eccellente debutto. 

martedì 17 gennaio 2023

Port of Memory

Mettendo per la prima volta in vita mia gli occhi su un’opera cinematografica girata da un autore palestinese pensavo in maniera un po’ altezzosa che fosse solo politica e poco altro, in realtà pensavo male, e parecchio: Port of Memory (2010), nel suo essere tanto, sicuramente non è un film banale, che è già una buona cosa, il regista Kamal Aljafari, molto apprezzato a quanto si legge in giro e quindi indubitabilmente da approfondire, utilizza uno spunto narrativo che depista (la faccenda della casa non riconosciuta ai legittimi proprietari [1]), infatti da una premessa così ci si poteva aspettare di rapportarsi con una drammaturgia simile a quella di Asghar Farhadi, tanto per rimanere nel Vicino Oriente e dintorni. Niente di più sbagliato: l’episodio à la Kafka (l’avvocato sempre off-screen) è appunto tale: un episodio, l’anellino di una catena che Aljafari sgrana come se fosse un rosario, è la proiezione del procedere (circolare?) di una città, Jaffa, in perenne dopoguerra, e di chi la abita. Nel vedere queste particelle di esistenza l’apparente racconto iniziale si sgretola come i muri dei palazzi che il regista riprende con perizia, non c’è una storia, ce ne sono tante in cui accediamo di sfuggita, sono storie già iniziate, sono giusto brandelli, fiammiferi che si consumano nello scintillio di uno sguardo. L’operato di Aljafari è funzionale a Port of Memory per rompere le ganasce dell’impostazione (in una parentesi staccata dal resto un regista fa ripetere numerose volte una battuta all’attore, è un atto finzionalizzante che collide con la visione realista) e pizzicare quelle corde lì, quelle giuste, quelle del Cinema.  

E non è tutto qua, no perché oltre la concertazione di micro-esistenze esposte con un metodo che rimanda ad una autorialità europea, asciutta e rigorosa, Aljafari ibrida il flusso filmico in direzione trascendente, e lo fa avvalendosi di un tocco invisibile, una trasfusione di ulteriori istanze dentro la concretezza di Jaffa. Sono tre le scene che fanno tremare i confini: la prima è una panoramica sul deserto che accoglie le parole di un film su Gesù visto un fotogramma prima nel salotto della famiglia, la seconda è l’innesto di un “videoclip” che arriva a sovrapporsi con la passeggiata di Salim e la terza è l’irruzione nel montaggio di una pellicola d’azione con Chuck Norris ambientata proprio nelle strade della città. Perché vi sono delle detonazioni del genere? Io non lo so. Ma se guardo il film dalla prospettiva più abbordabile, ovvero dal suo nome, ecco che mi sembra di aver assistito al fiorire di una memoria. Con l’introduzione dei segmenti che appartengono a differenti lessici audiovisivi del passato, anche il presente assume una forma diversa, meno ancorato alla terra, tanto è che Salim, nella stupenda camminata conclusiva per una Jaffa desolata, a volte pare quasi diventare trasparente. 
Per me, un Signor Film.  
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[1] Forse, sottolineo forse, è solo qui che la dimensione politica emerge, e lo fa attraverso la metafora: una famiglia palestinese afferma di aver comprato l’abitazione dove vive ben quarant’anni prima, mentre un organo statale (… israeliano?) dice il contrario e li considera degli squatters.

lunedì 9 gennaio 2023

Bauta

È la stessa squadra di Ad Astra (2016) che sta dietro a Bauta (2018) perché la stessa è l’area di ricerca applicata al cinema. Quindi Paul Tunge e Egil Håskjold Larsen insieme alle musiche di Kim Hiothøy fanno un altro film contemplativo di matrice architettonica. La differenza sta negli oggetti di ripresa: non più delle chiese bensì delle costruzioni pubbliche ovviamente appartenenti sempre alla sfera norvegese (una stazione della metropolitana, una – forse – centrale elettrica, una – altrettanto forse – scuola abbandonata, ecc.). Il punto di contatto con gli edifici religiosi del corto precedente sta nel fatto che anche questi di edifici, così registrati dall’occhio fluttuante di Tunge, appaiono sgombri, vuoti, delle cattedrali nel deserto urbano. Pur non essendoci neanche una nota che vada oltre lo strato meditativo (in Ad Astra c’era: la bara bianca), il regista si afferma come un ottimo tessitore di atmosfere, opinione riscontrabile anche in un altro suo lavoro più strutturato (Demning, 2015), anzi, qui è lecito sostenere che l’Atmosfera, in fondo, è il film in sé perché senza gli accorgimenti tecnici di Tunge e soci rimarrebbe solo una banale carrellata di anonime costruzioni mimetizzate nel grigiore cittadino.

È indubbio che l’accompagnamento sonoro di Hiothøy sia l’elemento indispensabile nella composizione globale. Il repertorio si offre in un tappeto elettronico capace di far viaggiare le immagini su frequenze che non hanno niente a che vedere con la categoria documentaristica, infatti, grazie alla modulazione dei suoni e ad uno scalare di intensità fino a delle parossistiche distorsioni (maggiormente incisive, quasi “aggressive”, rispetto a quelle sentite in Ad Astra), si sconfina nel campo dell’inquietudine, come se il lento movimento della mdp fosse il preambolo per un’apparizione horrorifica o giù di lì. Dal canto suo Tunge, quando si impegna in progetti del genere, continua a ricordarmi i galleggiamenti aerei di Malick ma senza corredi filosofici, le traiettorie che compie sono morbide, avvolgono: conducono, ecco, la sensazione che prevale è un andare per i luoghi del corto in forma eterea, oculare ma non fisica. Non saprei se c’era l’intento di portare all’attenzione del pubblico uno scenario che, privo di particolare beltà estetica, passa inosservato, io mi accontento di fermarmi prima, al potere suggestionante che Bauta, in sordina, emette.

martedì 3 gennaio 2023

The Chechen Family

Uno dei pregi de La familia chechena (2015) diretto da Martín Solá è quello di farsi luogo di illustrazione senza esserlo del tutto, perché una visione, una autorialità, si marchiano impresse su questa finestra che dà su un altro mondo, austero come è il documentario in sé, ma con punte acutissime di pregevole intensità. Solá fa un lavoro eccellente poiché riesce a darci un ritratto perlomeno comprensibile della realtà cecena senza mai intervenire, registrando, partecipando, ascoltando frammenti di esistenze che ci sembrano lontantissime. Così, di un popolo in conflitto continuo, ci arriva la testimonianza di una donna anziana che stesa a letto racconta di una deportazione in Siberia del passato, così, anche, i periodi bui della guerra si srotolano a parole sull’epidermide umana, sui labirinti concentrici dei polpastrelli. Storie che passano, anche nei meravigliosi primi piani delle bambine dagli occhi di giada che giocano a nascondino, e storie che non sentiamo, quelle femminili, che però vediamo, al di là di un vetro. Sebbene nel ridotto spazio di un’ora, il film di Solá (che dovrebbe far parte di un dittico insieme a Hamdan, 2015) dimostra di essere un oggetto aperto, accessibile e capace di suggestionare grazie a soluzioni semplici ma efficaci, si veda il tour notturno in automobile di Groznyj, un modo apprezzabile per accomiatarsi, per dire un silenzioso addio.

È però inutile girarci in giro, il cuore di The Chechen Family pulsa nelle riprese effettuate durante il dhikr, una danza collettiva islamica dove i membri (le donne e gli uomini non possono stare assieme a quanto si vede), ballando sul posto e seguendo un ritmo forsennato, ripetono una litania che nel suo ossessivo ripetersi diventa ipnotica. Il cinema ha questa capacità immersiva di trasformare una normale proiezione in un’esperienza acquatica, da vivere in apnea, e anche qui accade ciò: non è che Solá riprende noncurante e dall’esterno delle persone che danzano, all’opposto si incunea nel compulsivo assembramento, si appiccica letteralmente ai volti sformati dalla fatica, alle camicie fradicie di sudore, capta respiri ad un passo dallo spasimo. Ci fa vedere, anzi ci fa sentire (e sentire è sempre qualcosa che va oltre il vedere), la forma estatica della preghiera, lo stato di trance a cui, credo a prescindere dalla religione di appartenenza, si giunge per mezzo di un iter definito, ed il risultato è il fiorire di un’energia travolgente tanto da travalicare, nel caso in esame, la barriera dello schermo, sicché non potremo dire di essere stati lì in Cecenia, nel bel mezzo di un tambureggiante rituale musulmano, ma quasi, perciò: grazie infinite Martín Solá, è stato assolutamente esaltante.