All that i say now is nothing to you
We will lie under different stars
I am where i am and you’re where you are, you’re where you are.(Trespassers William - Different Stars)
Sardegna. Giovane coppia tedesca in vacanza. Lui architetto, passivo, a tratti comprensivo. Lei umorale, fisica, instabile. Il loro legame vacilla pericolosamente.
Opera seconda per la regista teutonica Maren Ade, Alle Anderen (2009) presentato alla 59° berlinale, è, appunto, un classico esempio di cinema festivaliero che sottende un deficit mor(t)ale nei confronti dello spettatore poiché non si cura di esso, non si pone l’obiettivo di trascinarlo o trattenerlo nella storia, non ha velleità di partecipazione attiva: il coinvolgimento non è contemplato. Si profila perciò come un esercizio di stile inevitabilmente e oggettivamente glaciale, dove il pragmatismo impera su più livelli. La recensione di Nicola Falcinella (link) parla di immagini sciatte; a mio avviso l’estetismo dell’opera costituito da un approccio estremamente realistico non è così privo di cura come potrebbe apparire, anzi l’omogeneità della pellicola dà sostanza alla stessa, rischiando un bel po’ sul piano visivo ma riuscendo a mantenere una coerenza interna ragguardevole.
Sciatta, allora, potrebbe essere la mera storia che, detto francamente, non ha voglia di raccontarsi. La narrazione tergiversa all’interno di piccole scaramucce relazionali nelle quali si rintracciano micro-segnali: lui alla frase “ti amo” non risponde in maniera adeguata, lei lo trucca, lo deride, ed ugualmente lo desidera, lo bacia. Il rapporto, mai come in questo caso fatto di alti e bassi, ripreso nel suo esistere quotidiano ha un andamento piatto, poco soddisfacente per chi guarda. Le colpe si instradano sulla via della noia e su quella della non-originalità data la tesi di illustrare il sentimento moderno che fa dell’opulenza il suo fondamento e la sua fallacia: coppie che hanno molto (benessere, denaro, cultura), ma che allo stesso tempo hanno poco.
Tra gli incontri con altri due fidanzati – ovviamente antitetici rispetto a loro, la scena in camera della mamma si fa paradigma – e i continui sbalzi sessuali – né sesso né amore, piuttosto un limbo privo di carnalità e/o affetto –, si palesa il finale che scuote l’encefalogramma orizzontale giustificando (ma solo un pochino) la stasi generale, e ciò che si deduce è che la crisi fra queste due persone e uguale a quella di tutti gli altri dove ad uno schiaffo corrisponde una carezza e viceversa.
Visto che l’intento è stato quello di mostrare il lato b dell’amore e che quindi sottraendo il sentimento ne è uscito un film cerebralmente greve, è la premeditazione di Maren Ade che non si digerisce, quale il bisogno di un’opera così?
Vincitore del Gran premio della giuria a pari merito con Gigante (2009), e Miglior Attrice per Birgit Minichmayr, premio, penso, assolutamente meritato.
Opera seconda per la regista teutonica Maren Ade, Alle Anderen (2009) presentato alla 59° berlinale, è, appunto, un classico esempio di cinema festivaliero che sottende un deficit mor(t)ale nei confronti dello spettatore poiché non si cura di esso, non si pone l’obiettivo di trascinarlo o trattenerlo nella storia, non ha velleità di partecipazione attiva: il coinvolgimento non è contemplato. Si profila perciò come un esercizio di stile inevitabilmente e oggettivamente glaciale, dove il pragmatismo impera su più livelli. La recensione di Nicola Falcinella (link) parla di immagini sciatte; a mio avviso l’estetismo dell’opera costituito da un approccio estremamente realistico non è così privo di cura come potrebbe apparire, anzi l’omogeneità della pellicola dà sostanza alla stessa, rischiando un bel po’ sul piano visivo ma riuscendo a mantenere una coerenza interna ragguardevole.
Sciatta, allora, potrebbe essere la mera storia che, detto francamente, non ha voglia di raccontarsi. La narrazione tergiversa all’interno di piccole scaramucce relazionali nelle quali si rintracciano micro-segnali: lui alla frase “ti amo” non risponde in maniera adeguata, lei lo trucca, lo deride, ed ugualmente lo desidera, lo bacia. Il rapporto, mai come in questo caso fatto di alti e bassi, ripreso nel suo esistere quotidiano ha un andamento piatto, poco soddisfacente per chi guarda. Le colpe si instradano sulla via della noia e su quella della non-originalità data la tesi di illustrare il sentimento moderno che fa dell’opulenza il suo fondamento e la sua fallacia: coppie che hanno molto (benessere, denaro, cultura), ma che allo stesso tempo hanno poco.
Tra gli incontri con altri due fidanzati – ovviamente antitetici rispetto a loro, la scena in camera della mamma si fa paradigma – e i continui sbalzi sessuali – né sesso né amore, piuttosto un limbo privo di carnalità e/o affetto –, si palesa il finale che scuote l’encefalogramma orizzontale giustificando (ma solo un pochino) la stasi generale, e ciò che si deduce è che la crisi fra queste due persone e uguale a quella di tutti gli altri dove ad uno schiaffo corrisponde una carezza e viceversa.
Visto che l’intento è stato quello di mostrare il lato b dell’amore e che quindi sottraendo il sentimento ne è uscito un film cerebralmente greve, è la premeditazione di Maren Ade che non si digerisce, quale il bisogno di un’opera così?
Vincitore del Gran premio della giuria a pari merito con Gigante (2009), e Miglior Attrice per Birgit Minichmayr, premio, penso, assolutamente meritato.