lunedì 29 novembre 2021

Damned Summer

Verão Danado (2017) è un film comprensibile, lo è, prima di ogni cosa, nell’innesco creativo/ispirativo che l’ha generato: non si fa alcuna fatica, infatti, a mettersi nei panni di Pedro Cabeleira, regista portoghese che al momento di girare questo suo lungometraggio di debutto era poco più che ventenne, per capire che il protagonista, Chico, è lui, così come è potenzialmente qualunque altro dei ragazzi che entrano ed escono dal film. Sì, è un’opera generazionale ma lo è con grande consapevolezza perché Cabeleira sa bene cosa fa e dove vuole andare, ovvero nella rappresentazione il più aderente possibile alla concretezza di una gioventù elettrica e sempre in botta, un tumulto continuo fatto di bpm e luci stroboscopiche, di droghe e amori fatui che durano una notte e poi se ne partono per Londra, lontano da una Lisbona che, per paradosso poiché Cabeleira mira al reale, si trasfigura in un lungo sogno lisergico. È roba autobiografica, è il rimettere eventi e situazioni vissute sulla propria pelle in un contesto cinematografico, è un’espressione singola e molteplice che accomuna un po’ tutti gli studenti fuori sede del mondo. E quindi Verão Danado è parimenti comprensibile anche nell’offrirsi allo spettatore, non ci vuole molto ad afferrare la struttura disordinata che lo permea, apprezzabile corrispondenza di un’esistenza sregolata che vive di rave in rave, a tal proposito le prolungate sequenze all’interno dei club (casalinghi o meno) hanno un forte potere immersivo, sono scene efficaci che si distinguono e che fanno distinguere la pellicola da molte altre che hanno tentato approcci simili.

Solo che, in fondo, una così netta comprensibilità non è che abbia incendiato l’animo di chi scrive. E dire che Cabeleira aveva iniziato con un mediometraggio che si occupava di altro (Estranhamento, 2013), mentre della materia di Damned Summer se ne sono occupati altri prima di lui, e non pochi. Senza scordare gli alibi di un giovanissimo dietro la mdp, dico che il ritratto di una fascia d’età persa in un qualche limbo e proposta in un contenitore realistico è un manifestarsi già registrato dai nostri occhi, e non bisogna andare troppo lontano perché rimanendo in Portogallo João Salaviza (e qui è presente un “suo” attore, Rodrigo Perdigão) ha sondato il tema in lungo e in largo, e sono convinto che ci saranno innumerevoli autori, lusitani e non, che si sono impegnati in tale direzione (ricordo un film polacco di poco conto dal titolo All These Sleepless Nights [2016] che ha parecchio in comune con Verão Danado). Anche il quid pluris del film, quell’abbandonarsi ai ritmi martellanti della techno e la psichedelia che da lì scaturisce grazie ad un oculato utilizzo delle luci, è sì, come dicevo sopra, notevole, però non raggiunge il top, non sbaraglia letteralmente le percezioni perché comunque Noé è arrivato anni prima ed è tutt’ora inarrivato. C’è quella sensazione di déjà vu che, parlando in modo soggettivo, impedisce un pieno appagamento fruitivo, fermo sempre restando che chi ha, o ha avuto, solo due decadi e poco oltre sulle spalle è generalmente un campione di onanismo e non certo uno che di mestiere vorrebbe fare il regista, il quale, bazzicando tra Locarno e Torino, dimostra già di essere a buon punto, gli auguriamo per il futuro di alzare il tiro della traiettoria.

martedì 23 novembre 2021

Baton

Baton (2016) sarebbe potuto tranquillamente rimanere nell’oceano dell’anonimato se non avesse annoverato alla voce “sceneggiatura” quel Efthymis Filippou già penna fondamentale di Lanthimos e di buona parte della new wave greca. C’è però un fatto curioso perché in sostanza, qui, non vi è alcuna sceneggiatura, per cui da un lato abbiamo un Filippou che non ingabbia il film in una struttura metaforica, mentre dall’altro non si hanno tracce effettive di una scrittura. Il corto, diretto da un ragazzo spagnolo di nome Albert Moya, vive di e in un surrealismo finemente laccato che può ricordare o un videoclip (il direttore della fotografia si chiama Evan Prosofsky e nel suo curriculum vanta collaborazioni nei video musicali di artisti come Grimes, Arcade Fire e Paul McCartney) o lo spot di un qualche fashion brand di lusso (e non è un caso che gli abiti siano stati curati da Dries van Noten, noto stilista belga). Chiude il cerchio di questa reunion multi-artististica la presenza attoriale di un musicista canadese, Sean Nicholas Savage, che pare essere piuttosto apprezzato in giro. 

Che cosa rimane al di là di un’estetica oltranzista è presto detto: nulla. Moya colloca la forma su un piedistallo e noi, senza possibilità di controbattere, ce ne stiamo zitti zitti a guardare. Certo, lo spettacolo (che a tratti sembra realmente tale nella diegesi visto che alcune sequenze si svolgono all’interno di un bellissimo teatro) possiede qualche milligrammo di fascino perché per impostazione scenica, palette di colori e briciole visionarie (il tappeto di bucce di banana) Baton ha sufficiente forza per farsi vedere fino alla fine (capirai... non sono neanche dodici minuti), il fatto è che arrivati alla suddetta fine l’impressione è di aver assistito a qualcosa di davvero effimero, senza spessore, narciso, e come tutto ciò che si specchia, che è vanitoso, anche fatto di un vuoto che le strambe parole messe in bocca a Savage (scritte da Filippou?) non riescono a colmare.    

sabato 20 novembre 2021

Die Kinder der Toten

Die Kinder der Toten (2019), uno degli oggetti più strambi (ma anche più vivi) che vi possano capitare tra le mani oggidì, è un film tratto dal libro omonimo recante la firma del Premio Nobel Elfriede Jelinek (colei che ispirò Haneke per La pianista, 2001), ma la cosa buffa, e che mette già in guardia dall’inizio sul tipo di progetto, riguarda il fatto che la coppia registica, gli americani Kelly Copper e Pavol Liska, il romanzo in questione non lo hanno mai letto. Sotto l’ala protettiva di un sempre demoniaco Ulrich Seidl qui nelle vesti di produttore, il duo costruisce un apparato formale che ricalca i protocolli del muto, sicché non vi sono conversazioni parlate bensì dialoghi scritti sulle schermate nere che fanno da intermittenze all’interno del girato, di contro viene effettuata una massiccia sonorizzazione che in alcuni casi esacerba l’audio (penso a quando in scena c’è del cibo), mentre il comparto visivo è costituito solo da immagini in super 8, quelle dall’aspetto amatoriale, “brutte”, rovinate, un flusso sporco che però, nella sua repulsione, sa essere efficace. Ma che ci racconta di bello codesta pellicola? Diciamo che innanzitutto si ha la possibilità di vedere un tipico paesaggio alpino come non l’abbiamo mai visto, tra birra, salsicce e jodel striscia qualcosa di molto sordido, azzardo ripugnante, solo che, almeno fino all’incidente, non vi è mai nulla di particolarmente esplicito, eppure vuoi per l’impiego di attori non professionisti dalla fisionomia perfettamente seidliana, vuoi per un torbidume che affiora (i vecchietti che limonano duro), non si assiste con tranquillità alla proiezione, traspira del sulfureo, essuda del siero nero, sembra, impressione squisitamente soggettiva, di guardare un Benny Hill Show ambientato su una sponda dello Stige. Nonostante appaia arruffone, sconnesso e pasticciato in Die Kinder der Toten il sottoscritto ha sentito un ribollio avvertito anche altrove, magari in esemplari maggiormente raffinati (vedi – per sparare alto – Post Tenebras Lux [2012] o Fausto [2018]) che comunque condividono un magnetico richiamo all’oscurità, del resto, come dice la pagina IMDb, non è un dettaglio se per le riprese sono stati impiegati 666 rulli così come 666 sono le pagine che compongono il volume della Jelinek...

In un certo senso l’opera sotto esame è l’esasperazione trasportata nell’eccesso di un documentario realista quale è The Border Fence (2018). È vero che il tema dei migranti per Copper e Liska non è dominante sebbene inserito attraverso un gioco di parole (Stiria / Siria), però a mio avviso il discorso sa essere cavo ed ampio e si inserisce nella direzione di quel cinema austriaco che negli anni ha indagato il marcio appiccicato alle fondamenta del Paese. Di base è una faccenda di nazionalismi mai sopiti e dall’agghiacciante retaggio che dentro la narrazione si riflette sottotraccia nel rapporto tra genitori e figli, tra passato e presente, infatti il centro, ok, parecchio traballante ma pur sempre centro è, si colloca nello scontro tra una torva e anziana madre con l’attempata figlia che nel suo bislacco percorso tra la vita e la morte condurrà tutto (anche il film stesso) ad un’autodistruzione senza ritorno. Appunto, la morte: altro topic che arriva dritto dritto, è una puzza, fortissima, mascherata dal grottesco che, quando si scosta, offre quel che c’è sotto i celeberrimi sepolcri imbiancati, il lutto, la tragedia, sono esibizioni con il relativo pubblico, alcol, suicidi incrociati, omicidi efferati, grandi abbuffate, al depliant di mostruosità umane non manca praticamente niente. E poi, per aggiungere un ulteriore carico, si sconfina in un metacinema dalle tinte horrorifiche, e non si tratta di una noiosa digressione teoretica ma di una scoppiettante apocalisse terrena che generandosi da una sala cinematografica (grande l’idea di un “cinema del rimpianto”) si riversa nel contesto filmico con potenza carnevalesca e chiassosa, una specie di giudizio universale di anderssoniana memoria ma decisamente più pimpante. Il laccio tra settima arte, dimensione funebre e realtà politica è un cappio che stringe al collo, e siccome tale nodo scorsoio proviene da un film così grezzo e sbilenco l’apprezzamento raddoppia, o addirittura triplica.

giovedì 18 novembre 2021

El viaje del cometa

La “cometa” del titolo non si rifà ad un corpo celeste bensì al girovagare di un camper super accessoriato guidato da una coppia di mezz’età mossa da un nobilissimo intento pedagogico: viaggiare in lungo e in largo per il Messico proponendo lezioni di astronomia gratuite ai bambini delle cittadine che incontrano lungo il cammino, quindi se il Cometa... non è una cometa, metaforicamente è un po’ come se lo fosse perché il suo passaggio porta comunque una luce che ha sembianze divulgative e umanitarie. Così El viaje del cometa (2009) è il resoconto di questo progetto, una specie di diario visivo con tanto di mappa sovrimpressa tenuto da Ivonne Fuentes, una professionista della settima arte che, oltre ad essere la figlia di Enoc Fuentes, l’ex professore a capo del Cometa, si occupa principalmente di direzione artistica (c’è una sua collaborazione in La sangre iluminada [2007] di Iván Ávila Dueñas, a sua volta produttore del film in oggetto), la regia non deve essere il suo campo di lavoro preferito perché dal 2009 ad oggi non risultano altri titoli a sua firma, ciò non toglie il fatto che El viaje del cometa sia un’opera a cui si guarda con rispetto perché, prima di qualunque ragionamento tecnico possibile, ci mostra una sacca di umanità rara, una bellezza umile di cui c’è sempre bisogno e che risponde ad una domanda che fa grossomodo così: “ma io, sì proprio io, cosa posso fare per gli altri?”, ce lo dice Enoc e la sua compagna che cosa si può fare, innanzitutto partire, andare, lasciarsi dietro qualcosa per guardare avanti e poi far alzare la testa dei bimbi verso il cielo, verso il sogno, perché come dice l’anziana donna in zapoteco all’inizio “la vita è fatta di sogni. L’unica cosa che una persona deve fare è inseguirli fino a che non diventano veri”, a leggerla suona come una massima banalotta, ma nel contesto filmico se ne ha una percezione diversa, lo giuro.

Il fatto che ci sia un legame sentimentale tra chi la pellicola l’ha diretta e chi è il protagonista della stessa devo ammettere che si sente, il signor Enoc oscilla tra la figura del prof. buono ed il padre che ora diventando nonno è ancora più amorevole di prima, ma soprattutto, dal ritratto che se ne dà, il vero amore è indirizzato alla sua passione che decide di condividere con chi magari nella vita non avrebbe mai avuto l’opportunità di posare l’occhio sul mirino di un telescopio. Non è un processo di esaltazione o di autocelebrazione famigliare, il tono generale è leggero, scorre ad un ritmo naturale dove l’approccio documentaristico esalta le meraviglie paesaggistiche messicane e parimenti si interessa del reale che c’è intorno, ruba dialoghi, istanti futili, ascolta le lezioni di scienza da bravo discente. Ma la regista non si ferma ad una forma scolastica, sono davvero numerose alcune sue intensificazioni che alterano il girato, abbiamo parentesi in un bianco e nero granuloso, inserimenti di fotografie e frame accelerati, insomma si tenta di vivacizzare il tutto e questa voglia di sperimentare ha culmine in un monologo proferito da Enoc dove si affacciano addirittura dei particolari animati, qui l’insegnante si mette a nudo e con un montaggio che pone in sequenza l’album dei ricordi della famiglia, si diffonde una riflessione che non esito a definire toccante, un momento alto che passa dalla propria storia personale al senso di un’esistenza che trova pienezza nel viaggio e negli insegnamenti che se ne possono trarre. Molto, molto bello, per le parole dette, certo, ma anche per la confezione proposta che tali parole le nobilita. Se qualcuno ci vedrà della morale non richiesta amen, a chi scrive non è pesata nemmeno l’ultima lezione, quella di non arrendersi neanche di fronte alla burocrazia che impedisce al Cometa di salire sul traghetto.

domenica 14 novembre 2021

Astrometal

Cambia lo scenario, cambia in parte l’approccio alla materia cinema rispetto a II (2014), ma per Efthimis Kosemund Sanidis la cripticità rimane un credo a cui attenersi per modellare la propria opera, difatti anche di Astrometal (2017), detta papale papale, si comprende poco, quel poco è dato dagli elementi più in vista, ovvero che il film è contenuto nello spazio temporale di una notte dove due ragazzi e una ragazza si recano in una discoteca per passare la serata. Questo è quanto vediamo che però non è abbastanza, perché il regista, anche alla luce del corto precedente, è uno che invita ad andare oltre la patina delle immagini e al tentativo di dare loro una consequenzialità logica, pur non avendo un metodo contemplativo integralista (soprattutto Astrometal) la sua visione delle cose si mette più a disposizione del nostro sentire che del nostro osservare, qui abbiamo un oggetto che punta ad un’atmosfera e non ad un racconto, che si prefigge di evocare certi stati d’animo, certe sottili inquietudini, che flirta con una dimensione onirica (la catalessi del finale, loro dormono in macchina e la città si risveglia), mai netta né totalmente da escludere.

Per giungere a tali suggestioni EKS si avvale di strumenti piuttosto efficaci che gettano il corto nell’inconsueto, prova ne è la scelta di svuotare il club di persone (perché, guardando bottiglie e bicchieri, qualcuno, prima, lì c’è stato) per riempirlo con un disturbante frastuono cacofonico, come se le casse del locale fossero state sfondate, è una trovata weird che si erge un po’ a simbolo del film, sebbene comunque aleggino altri squarci enigmatici, si noti il momento migliore, ossia l’incursione lynchiana nella stanza buia compiuta dal ragazzo rasato che, stalkerato da Sanidis, si volta inaspettatamente verso la camera, verso di noi, oppure la scena appena susseguente dentro ad uno spogliatoio che pare slegata dal resto, forse è avvenuta prima, o forse dopo. Sul rapporto che c’è tra i tre non viene esplicitato nulla, si intrasente però un’ambigua energia intorno al “terzo incomodo”, ed è una sensazione che diventa senso, uno dei tanti possibili o impossibili, d’altronde la direzione da fornire a questo senso spetta a chi guarda.

martedì 9 novembre 2021

Streghe fraterne

Antoine Volodine
2021
66thand2nd; 272 p. 

DOPO LA FINE DI OGNI VIAGGIO, RIPRENDI IL CAMMINO!
DOPO LA FINE DEL CAMMINO, RIPRENDI IL CAMMINO!
METTI I TUOI RESTI AL RIPARO!
TORNA ALLA GRAN NIDIANTE!

Post-esoticamente parlando, dove eravamo rimasti? Al 2019, con l’uscita di Black Village, dopodiché, presumo per motivi legati alla pandemia, nel 2020 66thand2nd non ha pubblicato nessun libro di Antoine Volodine, abbiamo dovuto attendere aprile 2021 affinché sui nostri scaffali ricomparisse un testo recante la firma dello scrittore francese. Attesa ripagata? Sì, e molto. Streghe fraterne (in originale ha ben altra musicalità: Frères sorcières, uscito in Francia nel ’19 e ciò significa che questo è il Volodine, ad oggi, più recente che possiamo leggere in italiano) mi è piaciuto parecchio per almeno due ragioni: stile e struttura, che detta così sembra una cosa da poco trattandosi di un professionista riconosciuto e apprezzato, però se pensiamo alla penna che sta dietro a tutto il progetto, e non mi metterò a ripetere il solito ritornello riguardante la ludica permeabilità del post-esotismo, sfogliare un’ulteriore nonché gradita conferma fa bene al proprio io-lettore. Il libro è suddiviso in tre sezioni, nella prima troviamo un Volodine arzillo, non irresistibile, non straripante, arzillo: viene imbastita una storia che mescola, al solito, resistenza e sopraffazione, servendosi di un valido stratagemma: un’intervista, o meglio, un interrogatorio, il risultato è convincente e delinea la divergenza caratteriale tra chi pone le domande in maniera secca, concisa, neutra, e chi risponde, Éliane Schubert, un’attrice girovaga prolissa e certamente non parca nelle descrizioni coinvolta in una brutta faccenda di banditi sanguinari. Il punto centrale si situa proprio in questa variazione del racconto, nella modalità con cui veniamo edotti delle vicissitudini di Éliane e della sua combriccola che si incastrano in un universo volodiniano (non ad un livello quintessenziale perché ciò lo si ritroverà nell’ultima parte, ma comunque riconoscibile per i canoni dell’autore). Sulla natura di quello che a tratti pare quasi l’accusa in un procedimento giudiziario, a mano a mano che i fatti prendono una precisa direzione il velo di mistero si dissolve e non è così difficile prevedere del perché si è giunti a quel momento inquisitorio, non spoilererò nulla ma, davvero, si intuisce abbastanza agevolmente dove si andrà a parare, a tal proposito c’è un vecchio film di Hirokazu Kore’eda dal titolo After Life (1998) che si basa un po’ sul medesimo principio. Il mio è solo un avvertimento per chi vuole essere sempre sorpreso in ogni ambito artistico, nulla si toglie all’efficacia e alla qualità di questo primo blocco.

Passando al secondo step ecco che registriamo un nuovo genere nelle bizzarre categorie di Volodine, la cantopera, un entr’acte composto da brevi finanche enigmatiche frasi, tutte numerate e tutte, ovviamente, prive di un senso comprensibile. A ben vedere ci era già toccato fronteggiare un espediente simile, mi riferisco agli elenchi puntati dello stupendo Sogni di Mevlidò (66thand2nd, 2019), ma lì le “liste” erano più innervate nella testualità, qui lo sono meno, sappiamo solo che nella realtà letteraria vengono identificate come vociferazioni, sorta di mantra dai poteri oscuri proferibile solo da una ristretta cerchia di persone. Nel complesso tali slogan non hanno chissà quale forza rivelatrice né si distinguono per il loro peso narrativo, però contribuiscono all’unicità di un libro e di uno scrittore che a mio parere ha il grande merito di aver trovato una formula personale estremamente accattivante e che al contempo mantiene inalterata la voglia di rinverdire tale formula scovando piccoli tic, finezze e sciccherie sempre degne della nostra pigra attenzione.

Ma veniamo al terzo atto, un vertiginoso esercizio stilistico che toglie il fiato, un’unica frase priva di punti lunga ben centotré pagine in cui, care amiche e cari amici, si gode di brutto perché questo è puro Volodine, fino all’essenza, al midollo, fino alla più piccola particella visibile e/o invisibile. Leggendo questo stralcio a dir poco impetuoso si ha la sensazione che ci passino davanti agli occhi tutti i paesaggi, umani e non, che Antoine ha creato nella sua carriera, è una rassegna totalmente folle che segue le gesta di quella che è una specie di entità, uno spirito che potrebbe essere malevolo come no, e che, almeno inizialmente, appare parente dell’indimenticato Solovei nell’altrettanto indimenticabile Terminus radioso del 2016 (si cita anche una centrale nucleare, una confutazione più che un indizio), uno spettro eterno che trasmigra di corpo in corpo vivendo avventure che più post-esotiche di così non possono essere. Inoltre il pensiero va un po’ anche all’elefantessa errante di Undici sogni neri (Edizioni Clichy, 2013) perché c’è, implementata, quest’immagine ricorsiva di un Bardo perenne e disastrato, di un limbo fatto di anime impegnate in una stramba lotta di classe o di implicazioni sentimentali che si trascinano da millenni, e tutto vive e muore all’interno di una scrittura sovrannaturale dotata di un sistema zeppo di elementi ricorsivi (giacché) ed espressioni piacevolmente ridondanti (“Io, Jean Ostalnòi...). Di collegamenti diretti con Teatro o morte non mi sembra di averne ravvisati, si tratta di due storie che sarebbero potute essere pubblicate anche separatamente, ma il punto nodale di tutta la faccenda si situa esattamente qua, nell’apparente scarto che sussiste tra i due scritti poiché è solo ad uno sguardo superficiale che essi potrebbero risultare scollati, nei fatti il disegno globale di Volodine ha ormai raggiunto un tale tasso di auto-inclusività che qualunque cosa egli scriva è in grado di connettersi naturalmente con ciò che l’ha preceduta o con ciò che seguirà, senza forzature, senza stonature, senza ripetersi pur ripetendosi. Streghe fraterne è allora l’ennesimo tassello di un mosaico in perpetua costruzione, forse, all’incirca, sappiamo già quale sarà la tessera successiva, ma, quando accadrà, di sicuro non potremo fare a meno di recarci in libreria per comprare il nuovo tomo di turno edito da 66thand2nd.

sabato 6 novembre 2021

Pendular

Non è che qui si vuole scivolare sul confronto come unico metro di giudizio, però, visto che Júlia Murat, ad oggi, di lungometraggi ne ha girati solo due, e uno, tra l’altro, davvero notevole, viene facile compararli anche perché l’altro, cioè questo Pendular (2017), di notevole per quanto mi riguarda ha ben poco. Il fatto è che Found Memories (2011) aveva tutt’altro respiro, sia nel cosa che toccava certe profondità esistenziali, sia nel come attraverso intuizioni stilistiche che pur non risultando innovative facevano il loro dovere, qui, al contrario, non vi è granché che possa essere ricordato né sul fronte tematico né su quello tecnico. La situazione che si presenta è la seguente: una coppia formata da un lui scultore e da una lei ballerina decidono di vivere e lavorare all’interno di una specie di fabbrica in disuso, fin da subito non pare un mistero che l’ambiente intorno a loro sia più uno spazio mentale tanto caro al cinema moderno che uno spazio fisico, comunque, constatato ciò, abbiamo un’altra imboccatura non propriamente richiesta: è immediata la divisione che, chiaramente, non è soltanto dettata dalla riga rossa sul pavimento ma bensì da qualcosa di maggiormente invisibile. Quindi i due innamorati e il loro rapporto a sua volta raffrontato alla produzione artistica, Pendular si occupa di sondare una tale interdipendenza, per il sottoscritto non riesce ad essere convincente in nessuno dei due campi.

Sulla prospettiva sentimentale la resa (dis)amorosa non ha guizzi, ci sono miriadi di ritratti simili nell’autorialità odierna, un po’ di non detto, un po’ di sviamento dalla banalità, un po’ di erotismo senza filtri, il duo della Murat è sostanzialmente così: poca roba. Vieppiù che come da copione arriva sempre puntualissimo un elemento che sconvolge l’equilibrio instauratosi, in Pendular si tratta della maternità, desiderata da lui ma non da lei. Dal momento in cui l’uomo esprime il suo sogno paterno non corrisposto il legame inizia a perdere colpi, si allontanano, discutono, una certa tensione cala nel capannone, e in una scena nuovamente troppo istantanea si invertono perfino i ruoli a letto con lui che diventa passivo. Però, che monotonia! Manca proprio un ritmo, e non mi riferisco a un qualcosa legato alla velocità, un ritmo, magari sensoriale, ci può anche essere in un film contemplativo, Pendular è una linea piatta  che nell’illustrarci gli alti e bassi dei due fidanzati non trasmette il minimo pathos, puoi girare per sottrazione quanto vuoi ma se parti sottraendo da uno zero ti rimarrà ben poco in mano alla fine. Non pervenuto il correlato discorso artistico, o, se pervenuto, per nulla fertile, dovremmo starcene del fatto che una crisi personale comporta anche una crisi creativa? Sbadiglio. Niente da fare nemmeno la faccenda del cavo di ferro che sembra piazzata lì giusto per intorbidire le acque. 

Il picco drammatico (lei abortisce se ho ben inteso) è una telefonata, il fatto che dopo la spaccatura o simil tale i due si vedano in un bar fuori dal deposito fatiscente è un’ulteriore ovvietà che sottolinea quanto la loro relazione “vivesse” in quel preciso luogo. Le professioni che fanno non hanno un’influenza effettiva nella storia, ho percepito che avrebbero potuto svolgere qualsiasi altra mansione che il succo sarebbe rimasto lo stesso. 
Indubbiamente, e lo dico con un filo di amarezza, un’opera seconda non all’altezza della prima.

martedì 2 novembre 2021

Annette

La megalomania è una prerogativa ineliminabile del e nel cinema di Leos Carax. In teoria, per gli amanti duri e puri della settima arte, tutto questo imperterrito sovrabbondare, dilagare, esondare, non rientrerebbe esattamente nella ristretta cerchia degli amori folli. I fatti però dicono che  escludendo (forse) Holy Motors (2012), gli altri lungometraggi del francese si sono rivelati dei maestosi fallimenti, il che, in fondo, ci ha reso questo cineasta più “simpatico” di quanto lo sarebbe stato se i suoi film avessero avuto un successo planetario. Se ci guardiamo indietro scopriamo che Alex Christophe Dupont è un autore che flirta con il mainstream pur avendo la piena consapevolezza che non potrà mai nascere niente di concreto da un’eventuale unione, e Annette (2021) mi pare che incarni più che mai questa tendenza ad arrivare al grande pubblico per poi fermarsi con coscienza qualche metro prima dall’ipotetica platea, troppo ricolma quest’opera, troppo indocile e ribelle per poter piacere alle masse, e di certo, almeno il sottoscritto, non riesce a considerarlo un difetto. Mentre lo guardavo mi è sovvenuto un altro film recente: Climax (2018), e mi sono chiesto: perché due cavalli di razza come Carax e Noé che hanno le capacità per fare qualunque (ma qualunque!) cosa nello spazio-cinema, si sono, passatemi il termine, ingabbiati in contesti musical-danzerecci? Ok, Leos ha sempre avuto un occhio di riguardo verso la musica nei suoi lavori però perché edificare un’intera pellicola sui principi del musical? Lo ammetto con onestà: ho una profondissima idiosincrasia verso questo genere, non amo la spiccata teatralità che sbuca da ogni fotogramma, mi irritano le ostinate coreografie e mal digerisco l’ostentata recitazione,  Annette non mi ha fatto cambiare idea, anzi, a tratti l’ho trovato insopportabile, lui e i suoi due protagonisti, ma altrettanto onestamente devo dire che il castello di carte non crolla perché, al pari di Climax, c’è dietro uno zampino autoriale di prima fascia, e a fronte di estese seccature c’è della bellezza, e non poca.

Oltre che megalomane Carax è anche un amabile egocentrico. Per anni ha mandato in trincea il suo alter ego, il Golem tascabile Denis Lavant, negli ultimi due film, invece, è lui in carne e ossa a dare il ciak nella diegesi, e qui, ad accompagnarlo nel tragitto, c’è anche sua figlia Nastya, tenete tale dettaglio a mente perché visto il dispiegarsi della storia la cosa fa pensare. Osservando Annette come titolo impersonale (ma è possibile farlo? Si può diseredare un manufatto dal suo creatore? Non credo) si profila davvero un oggetto improbabile, che c’entra uno come Carax con le paillettes e i lustrini di Brodway? Come può uno che ha raccontato di amori totalmente scentrati e quasi astratti (Gli amanti del Pont-Neuf, 1991) interessarsi a una coppia da tappeto rosso con peraltro riferimenti (un po’ tirati?) all’attualità del Me Too? In realtà io penso che l’ambaradan messo in piedi, dall’imponenza della messa in scena alle esagerazioni narrative, sia uno specchietto per le allodole. Voglio che sia così. Perché se al contrario prendiamo Annette dal suo centro, dall’ombelico, ecco che troviamo il famigerato cordone nient’affatto reciso, ecco che la rappresentazione parossistica di una famiglia sotto i riflettori del jet set diventa il riflesso distorto di una vicenda strettamente intima e personale. A questo punto non ho potuto fare a meno che pensare di nuovo ad un altro film che in apparenza non ci azzecca nulla: Peace to Us in Our Dreams (2015). C’è un filo potentissimo che li lega, e questo filo non può che essere Ekaterina Nikolaevna Golubeva. Nelle rispettive opere Bartas e Carax hanno impresso in video i propri ectoplasmi coniugali portando sullo schermo le figlie avute con l’attrice-musa Katja [1]. In quest’ottica, che è quella che prediligo, Annette assume ben altri colori che non sono più quelli sbrilluccicanti di un cineasta estroso, si scende, si va giù in gradazioni scure. Ci sono similitudini troppo evidenti per essere casuali, seppur mascherate dal teatrino ridondante, il rapporto tra Henry/Leos e Ann/Katya esce dall’imperante finzione: l’amore, la piccola Annette, il distacco, la morte, il fantasma. Alla fine, durante il confronto conclusivo in prigione, Adam Driver ha un taglio e un colore di capelli molto, molto simile a quelli di Carax.

E quindi il film c’è, e c’è nel suo tendere verso una dimensione inevitabilmente mortuaria [2]. Dall’impianto melodramatico leviamo il melò e ci teniamo un dramma camuffato  negli sbalzi canterini di un Driver all’apice del fastidio e una Cotillard d’essenza femminea e angelica. Certo è che a scansionare con razionalità l’andamento filmico si rimane un pelo interdetti, la svolta più evidente, ovvero la scelta di far esibire Annette come un freak allo sbaraglio, è una sterzata che ho faticato ad accettare, lì per lì mi è sembrata solo una costrizione nata della necessità di fornire una continuità mamma-figlia, e anche ora, a visione ultimata, non riesco ad accogliere con entusiasmo l’accentramento di attenzione verso la bambina burattino in siffatti termini, che dovesse salire alla ribalta del racconto era scontato, le modalità con cui ciò avviene, modalità anche un po’ collodiane se vogliamo viaggiare di fantasia, non mi hanno appagato in pieno. E ci sono anche altri episodi che a mio avviso sbilanciano la proiezione, ma le traiettorie sghembe sono il pane quotidiano di Carax e del resto ci piace proprio per questo motivo. Il duetto finale rimarrà a lungo nella memoria.   
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[1] Purtroppo ho appreso scrivendo questo commento che Ina Marija Bartaitė, la figlia avuta da Sharunas Bartas con Katja Golubeva, è rimasta vittima di un incidente stradale il 7 aprile 2021 a soli venticinque anni. Una nuova tragedia che insanguina ulteriormente la ferita di questa famiglia allargata franco-lituana. Il mio inutile pensiero va a loro.   

[2] Sull’argomento consiglio la lettura della recensione di Holy Motors a firma di Alessandro Baratti (link).