La megalomania è una prerogativa ineliminabile del e nel cinema di Leos Carax. In teoria, per gli amanti duri e puri della settima arte, tutto questo imperterrito sovrabbondare, dilagare, esondare, non rientrerebbe esattamente nella ristretta cerchia degli amori folli. I fatti però dicono che escludendo (forse) Holy Motors (2012), gli altri lungometraggi del francese si sono rivelati dei maestosi fallimenti, il che, in fondo, ci ha reso questo cineasta più “simpatico” di quanto lo sarebbe stato se i suoi film avessero avuto un successo planetario. Se ci guardiamo indietro scopriamo che Alex Christophe Dupont è un autore che flirta con il mainstream pur avendo la piena consapevolezza che non potrà mai nascere niente di concreto da un’eventuale unione, e Annette (2021) mi pare che incarni più che mai questa tendenza ad arrivare al grande pubblico per poi fermarsi con coscienza qualche metro prima dall’ipotetica platea, troppo ricolma quest’opera, troppo indocile e ribelle per poter piacere alle masse, e di certo, almeno il sottoscritto, non riesce a considerarlo un difetto. Mentre lo guardavo mi è sovvenuto un altro film recente: Climax (2018), e mi sono chiesto: perché due cavalli di razza come Carax e Noé che hanno le capacità per fare qualunque (ma qualunque!) cosa nello spazio-cinema, si sono, passatemi il termine, ingabbiati in contesti musical-danzerecci? Ok, Leos ha sempre avuto un occhio di riguardo verso la musica nei suoi lavori però perché edificare un’intera pellicola sui principi del musical? Lo ammetto con onestà: ho una profondissima idiosincrasia verso questo genere, non amo la spiccata teatralità che sbuca da ogni fotogramma, mi irritano le ostinate coreografie e mal digerisco l’ostentata recitazione, Annette non mi ha fatto cambiare idea, anzi, a tratti l’ho trovato insopportabile, lui e i suoi due protagonisti, ma altrettanto onestamente devo dire che il castello di carte non crolla perché, al pari di Climax, c’è dietro uno zampino autoriale di prima fascia, e a fronte di estese seccature c’è della bellezza, e non poca.
Oltre che megalomane Carax è anche un amabile egocentrico. Per anni ha mandato in trincea il suo alter ego, il Golem tascabile Denis Lavant, negli ultimi due film, invece, è lui in carne e ossa a dare il ciak nella diegesi, e qui, ad accompagnarlo nel tragitto, c’è anche sua figlia Nastya, tenete tale dettaglio a mente perché visto il dispiegarsi della storia la cosa fa pensare. Osservando Annette come titolo impersonale (ma è possibile farlo? Si può diseredare un manufatto dal suo creatore? Non credo) si profila davvero un oggetto improbabile, che c’entra uno come Carax con le paillettes e i lustrini di Brodway? Come può uno che ha raccontato di amori totalmente scentrati e quasi astratti (Gli amanti del Pont-Neuf, 1991) interessarsi a una coppia da tappeto rosso con peraltro riferimenti (un po’ tirati?) all’attualità del Me Too? In realtà io penso che l’ambaradan messo in piedi, dall’imponenza della messa in scena alle esagerazioni narrative, sia uno specchietto per le allodole. Voglio che sia così. Perché se al contrario prendiamo Annette dal suo centro, dall’ombelico, ecco che troviamo il famigerato cordone nient’affatto reciso, ecco che la rappresentazione parossistica di una famiglia sotto i riflettori del jet set diventa il riflesso distorto di una vicenda strettamente intima e personale. A questo punto non ho potuto fare a meno che pensare di nuovo ad un altro film che in apparenza non ci azzecca nulla: Peace to Us in Our Dreams (2015). C’è un filo potentissimo che li lega, e questo filo non può che essere Ekaterina Nikolaevna Golubeva. Nelle rispettive opere Bartas e Carax hanno impresso in video i propri ectoplasmi coniugali portando sullo schermo le figlie avute con l’attrice-musa Katja [1]. In quest’ottica, che è quella che prediligo, Annette assume ben altri colori che non sono più quelli sbrilluccicanti di un cineasta estroso, si scende, si va giù in gradazioni scure. Ci sono similitudini troppo evidenti per essere casuali, seppur mascherate dal teatrino ridondante, il rapporto tra Henry/Leos e Ann/Katya esce dall’imperante finzione: l’amore, la piccola Annette, il distacco, la morte, il fantasma. Alla fine, durante il confronto conclusivo in prigione, Adam Driver ha un taglio e un colore di capelli molto, molto simile a quelli di Carax.
E quindi il film c’è, e c’è nel suo tendere verso una dimensione inevitabilmente mortuaria [2]. Dall’impianto melodramatico leviamo il melò e ci teniamo un dramma camuffato negli sbalzi canterini di un Driver all’apice del fastidio e una Cotillard d’essenza femminea e angelica. Certo è che a scansionare con razionalità l’andamento filmico si rimane un pelo interdetti, la svolta più evidente, ovvero la scelta di far esibire Annette come un freak allo sbaraglio, è una sterzata che ho faticato ad accettare, lì per lì mi è sembrata solo una costrizione nata della necessità di fornire una continuità mamma-figlia, e anche ora, a visione ultimata, non riesco ad accogliere con entusiasmo l’accentramento di attenzione verso la bambina burattino in siffatti termini, che dovesse salire alla ribalta del racconto era scontato, le modalità con cui ciò avviene, modalità anche un po’ collodiane se vogliamo viaggiare di fantasia, non mi hanno appagato in pieno. E ci sono anche altri episodi che a mio avviso sbilanciano la proiezione, ma le traiettorie sghembe sono il pane quotidiano di Carax e del resto ci piace proprio per questo motivo. Il duetto finale rimarrà a lungo nella memoria.
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[1] Purtroppo ho appreso scrivendo questo commento che Ina Marija Bartaitė, la figlia avuta da Sharunas Bartas con Katja Golubeva, è rimasta vittima di un incidente stradale il 7 aprile 2021 a soli venticinque anni. Una nuova tragedia che insanguina ulteriormente la ferita di questa famiglia allargata franco-lituana. Il mio inutile pensiero va a loro.
[2] Sull’argomento consiglio la lettura della recensione di Holy Motors a firma di Alessandro Baratti (link).
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