Senza parole.
È così che si rimane, dopo. E allora farò parlare i numeri per sciogliere quell’emozione che si forma tra le mie dita e la tastiera ogni volta che provo a parlare di qualcosa molto più grande di me, anche se comunque tutto ciò che verrà scritto dopo non raggiungerà MAI l’anima di quest’opera perché sta troppo in alto, o forse, troppo nel profondo.
450 minuti di durata, 4 anni di lavorazione, 12 capitoli suddivisi in due parti, una manciata di attori, un grande regista.
Sátántangó è film d’una bellezza indeterminabile. Qualcuno diceva che il cinema è la vita senza parti noiose, il cinema di Tarr, invece, contempla anche quelle, che però, ad un giusto peso, risultano la perfetta compensazione a sequenze di luminoso estro, genialità folgorante, inestimabile valore artistico. Durante le 7 ore abbondanti di proiezione si è testimoni di un componimento imponderabile: sfuggendo alla normale concezione che abbiamo della settima arte, Satantango si spinge negli anfratti segreti del Cinema e del suo raccontare, riprendendo anche la noia insieme ad un tutto che vasto come il cosmo non può essere capito da noi, troppo terreni e maleodoranti per qualche cosa che racchiude in sé vette di tale precisione per cui è lecito domandarsi se la mente dietro tutto ciò non abbia amicizie lassù, o laggiù.
E questo tutto inafferrabile ha la capacità di colmare un vuoto, uno dei tanti, che ci appartiene. L’arte ha probabilmente anche questo compito, quello di saziare la nostra fame rendendoci un pochino migliori di come eravamo prima senza conoscerla. La storia epocale di questo film racconta una e una sola faccia dell’uomo, quella della disperazione. Ma è uno sguardo così abissale, totale e sconfinato che le nostre facoltà faticano a farlo proprio, eppure per un’alchimia incomprensibile sentivo che il tutto di questo Tango era qualcosa di cui avevo bisogno per riempire i miei deserti personali.
Non è una pellicola dalle grandi deduzioni, non necessita di particolari sforzi semiotici. È lì quel tutto, davanti alla mdp di Tarr, in una fattoria ungherese inzaccherata dal fango in cui svolazzano mosche sibilline e ragni tessono arabeschi arcani. Ci sono uomini e donne in questa fattoria con il viso patito dagli elementi, alcuni non hanno dignità, altri rubano, tutti danzano ubriachi in un’osteria ai confini del mondo sbiadito in cui vivono.
L’unicum proposto da Tarr si dilata nel tempo fino a diventare infinito, e come se non bastasse nei primi sei capitoli continua a rincorrersi tramite un procedimento visivo che qualunque tentativo di descrizione ne sminuirebbe la sostanza. Ci sono alcune sequenze nella prima parte che sfidano l’occhio umano con la propria inenarrabile finezza. Sembra quasi che l’obiettivo della camera sia sospeso a mezz’aria e che compia movimenti impercettibili ma assolutamente calcolati e ragionati. L’intero film pare attraversato in ogni frangente da un rigore matematico, mentre a quel che si legge in giro molto è stato improvvisato sul momento. C’è del caos incapsulato in una perfetta biglia di mercurio. Non riuscirete mai a prendere questo film, sarà lui a farlo.
Gli innumerevoli piani sequenza che costituiscono Satantango si potrebbero incensare da qui all’eternità, ma lascio ad altri più competenti del sottoscritto tali glorificazioni. Piuttosto lascerei alle immagini il potere della descrizione che nessun vocabolo riuscirebbe a raggiungere.
- scena nel bar con Irimiás e Petrina (clicca)
- scena del ballo (clicca), questo è il momento topico del film, peccato la qualità video sia bassa.
- scena nella casa abbandonata (clicca)
Ma è poco estrapolato dal suo tutto, anzi sono quasi pentito di averle messe queste clip perché sarebbe come far vedere solo piccoli pezzetti della Gioconda. Tuttavia se avrò stimolato alla visione di Satantango anche solo una persona che leggerà il post, potrò ritenermi soddisfatto. Per aver riempito un vuoto, per aver rischiarato un mondo. Anche se in questi casi germoglia sempre una strana forma di gelosia per cui sembra che una cosa così bella se condivisa con altri perda di fascino, ma è solo l’arzigogolato animo umano a giocare brutti scherzi, non si può essere così avari nel negare l’incommensurabile piacere dell’Arte agli altri, sarebbe un delitto se dopo aver visto Satantango non avessi scritto queste righe. Nel mio piccolo ho immesso nell’immenso ricircolo culturale di internet una gemma preziosa che spero venga carpita da un numero più alto possibile di persone, perché la storia del cinema contemporaneo passa da qui.
E comunque, visto che la distanza tra la tastiera e le mie dita resta incolmabile nonostante tutte queste misere parole, ne prenderò altre in prestito:
Anche nei tempi più oscuri abbiamo il diritto di attenderci una qualche illuminazione. Ed è molto probabile che essa ci giungerà non tanto da teorie o da concetti, quanto dalla luce incerta, vacillante e spesso fioca che alcuni uomini e donne, nel corso della loro vita e del loro lavoro, avranno acceso in ogni genere di circostanze, diffondendola sull’arco di tempo che fu loro concesso di trascorrere sulla terra.
(Hannah Arendt L’umanità in tempi bui, 1968)
È così che si rimane, dopo. E allora farò parlare i numeri per sciogliere quell’emozione che si forma tra le mie dita e la tastiera ogni volta che provo a parlare di qualcosa molto più grande di me, anche se comunque tutto ciò che verrà scritto dopo non raggiungerà MAI l’anima di quest’opera perché sta troppo in alto, o forse, troppo nel profondo.
450 minuti di durata, 4 anni di lavorazione, 12 capitoli suddivisi in due parti, una manciata di attori, un grande regista.
Sátántangó è film d’una bellezza indeterminabile. Qualcuno diceva che il cinema è la vita senza parti noiose, il cinema di Tarr, invece, contempla anche quelle, che però, ad un giusto peso, risultano la perfetta compensazione a sequenze di luminoso estro, genialità folgorante, inestimabile valore artistico. Durante le 7 ore abbondanti di proiezione si è testimoni di un componimento imponderabile: sfuggendo alla normale concezione che abbiamo della settima arte, Satantango si spinge negli anfratti segreti del Cinema e del suo raccontare, riprendendo anche la noia insieme ad un tutto che vasto come il cosmo non può essere capito da noi, troppo terreni e maleodoranti per qualche cosa che racchiude in sé vette di tale precisione per cui è lecito domandarsi se la mente dietro tutto ciò non abbia amicizie lassù, o laggiù.
E questo tutto inafferrabile ha la capacità di colmare un vuoto, uno dei tanti, che ci appartiene. L’arte ha probabilmente anche questo compito, quello di saziare la nostra fame rendendoci un pochino migliori di come eravamo prima senza conoscerla. La storia epocale di questo film racconta una e una sola faccia dell’uomo, quella della disperazione. Ma è uno sguardo così abissale, totale e sconfinato che le nostre facoltà faticano a farlo proprio, eppure per un’alchimia incomprensibile sentivo che il tutto di questo Tango era qualcosa di cui avevo bisogno per riempire i miei deserti personali.
Non è una pellicola dalle grandi deduzioni, non necessita di particolari sforzi semiotici. È lì quel tutto, davanti alla mdp di Tarr, in una fattoria ungherese inzaccherata dal fango in cui svolazzano mosche sibilline e ragni tessono arabeschi arcani. Ci sono uomini e donne in questa fattoria con il viso patito dagli elementi, alcuni non hanno dignità, altri rubano, tutti danzano ubriachi in un’osteria ai confini del mondo sbiadito in cui vivono.
L’unicum proposto da Tarr si dilata nel tempo fino a diventare infinito, e come se non bastasse nei primi sei capitoli continua a rincorrersi tramite un procedimento visivo che qualunque tentativo di descrizione ne sminuirebbe la sostanza. Ci sono alcune sequenze nella prima parte che sfidano l’occhio umano con la propria inenarrabile finezza. Sembra quasi che l’obiettivo della camera sia sospeso a mezz’aria e che compia movimenti impercettibili ma assolutamente calcolati e ragionati. L’intero film pare attraversato in ogni frangente da un rigore matematico, mentre a quel che si legge in giro molto è stato improvvisato sul momento. C’è del caos incapsulato in una perfetta biglia di mercurio. Non riuscirete mai a prendere questo film, sarà lui a farlo.
Gli innumerevoli piani sequenza che costituiscono Satantango si potrebbero incensare da qui all’eternità, ma lascio ad altri più competenti del sottoscritto tali glorificazioni. Piuttosto lascerei alle immagini il potere della descrizione che nessun vocabolo riuscirebbe a raggiungere.
- scena nel bar con Irimiás e Petrina (clicca)
- scena del ballo (clicca), questo è il momento topico del film, peccato la qualità video sia bassa.
- scena nella casa abbandonata (clicca)
Ma è poco estrapolato dal suo tutto, anzi sono quasi pentito di averle messe queste clip perché sarebbe come far vedere solo piccoli pezzetti della Gioconda. Tuttavia se avrò stimolato alla visione di Satantango anche solo una persona che leggerà il post, potrò ritenermi soddisfatto. Per aver riempito un vuoto, per aver rischiarato un mondo. Anche se in questi casi germoglia sempre una strana forma di gelosia per cui sembra che una cosa così bella se condivisa con altri perda di fascino, ma è solo l’arzigogolato animo umano a giocare brutti scherzi, non si può essere così avari nel negare l’incommensurabile piacere dell’Arte agli altri, sarebbe un delitto se dopo aver visto Satantango non avessi scritto queste righe. Nel mio piccolo ho immesso nell’immenso ricircolo culturale di internet una gemma preziosa che spero venga carpita da un numero più alto possibile di persone, perché la storia del cinema contemporaneo passa da qui.
E comunque, visto che la distanza tra la tastiera e le mie dita resta incolmabile nonostante tutte queste misere parole, ne prenderò altre in prestito:
Anche nei tempi più oscuri abbiamo il diritto di attenderci una qualche illuminazione. Ed è molto probabile che essa ci giungerà non tanto da teorie o da concetti, quanto dalla luce incerta, vacillante e spesso fioca che alcuni uomini e donne, nel corso della loro vita e del loro lavoro, avranno acceso in ogni genere di circostanze, diffondendola sull’arco di tempo che fu loro concesso di trascorrere sulla terra.
(Hannah Arendt L’umanità in tempi bui, 1968)