sabato 31 marzo 2018

The Skywalk Is Gone

Anche se sono passati anni dalla visione, è chiaro (nonché confutabile in Rete) della sostanza protesica che costituisce Tian qiao bu jian le (2002), il quale si presenta come un piccolo vagone attaccato alla locomotiva Che ora è laggiù? (2001), film da dove ovviamente provengono anche i protagonisti di questo cortometraggio, persone assimilabili alle decine di esseri umani che hanno popolato, e che popoleranno, il cinema di Tsai Ming-liang da lì in avanti, e tutti con un punto in comune: essere profondamente diversi per essere in fondo tutti uguali (anche a noi). Quindi la ragazza fa ritorno dalla Francia e nel consesso di ectoplasmi orchestrato da Tsai oltre che il tempo, anche la materia può... smaterializzarsi. The Skywalk Is Gone fa leva su questo concetto fino a prendersene quasi gioco, se nella finzione vediamo una spericolata signorina attraversare la carreggiata affermando al vigile che un tempo c’era un cavalcavia, nella realtà quel cavalcavia, visto anche nel film del 2001, è stato abbattuto per davvero lasciando al suo posto il brulicante nulla metropolitano. Spettri urbani, apparenze umane (ad un certo punto sbuca anche un monaco in mezzo alla folla, involontario predecessore di Walker [2012] & c.?), e, non poteva mancare, quaderno di solitudini scritto con il tipico inchiostro di Ming-liang, lei che forse cerca ancora lui, o che forse cerca qualcuno e basta in una Taipei che la sdoppia come negli specchi del luna park (i dettagli sulle superfici riflettenti, segnale di stile del taiwanese), lui che caga in un cesso pubblico con altre idee in testa. Sfiorarsi in un sottopassaggio, ipotetico luogo d’amore irrealizzabile.

Indubbiamente aggancio con Che ora è laggiù?, ma anche preambolo per un’altra grande opera di Tsai: Il gusto dell’anguria (2005), infatti ecco che per la prima volta nell’universo del regista da sempre ricco di acqua, l’acqua non c’è più, viene razionata: la vita si centellina goccia a goccia. Dopodiché vediamo il caro Hsiao presentarsi ad un provino hard, nient’altro che l’antefatto di ciò che sarà da lì a tre anni dopo. Allora The Skywalk Is Gone non è tanto il prolungamento di un lavoro più grande quanto un importante raccordo tra due delle molte tappe di uno dei massimi autori contemporanei, inoltre, anche se nel tempo limitato di un cortometraggio, è possibile ammirare molti punti fermi della poetica più coerente a se stessa che possiate vedere nella storia del cinema recente. Il finale con vista sul cielo azzurro, per motivi fondamentalmente inspiegabili a parole, ti eleva.

giovedì 29 marzo 2018

L'infinita fabbrica del Duomo

Racconto per immagini e immagini che contengono racconti senza tempo perché quando è il tempo ad allungarsi nei secoli esso pare infinito come giustamente ci ricorda il nodoso olmo dell’apertura o come ci illumina l’idea più bella e poetica che D’Anolfi e Parenti forniscono, quella dell’eterna metamorfosi delle conchiglie che si trasformano in marmo, L’infinita fabbrica del Duomo (2015) si concentra su questa onda processuale che non sembra avere un termine perché inizia con e nella natura (ci vogliono millenni affinché l’evoluzione marmorea si compia) e prosegue attraverso l’uomo che costruisce, lavora e abbellisce la materia in un lasso temporale iniziato nel 1387 e dotato di una prospettiva pressoché perenne. La parola “lavoro”, a mio modo di vedere, è un lemma decisivo per avvicinarsi alla comprensione del documentario perché il concetto di un perpetuo lavorio sorregge l’intera visione, e se ci pensiamo un attimo è anche un fatto curioso poiché in uno sguardo filosofico finanche lirico che la coppia registica propone, ciò che più rimane è la concretezza delle azioni e dei dati storici, sicché il soffermarsi sulla sterminata quantità di esseri umani che hanno partecipato e che tutt’ora stanno partecipando all’edificazione della cattedrale con attività di recupero e manutenzione, appaia la cifra umana della fatica che intercorre tra la vita e la morte alla tenacia ciclicità della natura, e il flusso che ne fuoriesce è una grandezza non misurabile, è il respiro di ere che si susseguono nell’arco smisurato della Storia.

C’è un filo che si sta ispessendo di volta in volta per Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, un link che dona loro, per quanto vale, lo status di autori e che collega Il castello (2011), l’eccellente Materia oscura (2013), L’infinita fabbrica del Duomo e probabilmente anche il successivo Spira Mirabilis (2016) che si preannuncia come un importante punto di arrivo, e tale coesione emerge dall’accomunante capacità di fare del cinema documentaristico uno spazio narrativo svincolato dai paletti della canonicità, e per rimanere al film sotto esame ci sono davvero miriadi di racconti all’interno, si tratta di storie “mute” scalfite nelle statue mutilate, archiviate negli antichi libroni contabili, modellate dalle recenti tecniche di restauro, accolte nella sacralità della routine giornaliera, tutte cellule di un unico organismo complesso che non potrà mai essere compreso, perché se come dicevano gli antichi Dio è una sfera infinita il cui centro è dappertutto e la circonferenza da nessuna parte, un cinema del genere può essere la finestra che si affaccia sull’immenso, saremo sempre dei pusillanimi, ma il panorama è notevole.

lunedì 26 marzo 2018

Per amor vostro

Per amor vostro (2015) è un upgrade di Giro di lune tra terra e mare (1997) potato di quelle ricostruzioni pseudo-storiche che appesantivano non poco la narrazione. Gaudino si concentra dunque sugli aspetti nel e del “presente” accedendovi grazie a quella chiave muliebre che risponde al nome di Anna, qui il movimento del regista si fa discesa, una perforazione dotata di un impianto sociale/di denuncia in cui orbitano tutta una sequenza di elementi che comunque, alla resa dei conti, divengono semplici note a piè di pagina del ritratto martirico disegnato (nel vero senso del termine) e adagiato sulle capacità recitative di Valeria Golino. Anna è il centro di una circonferenza che abbraccia quelli che sembrano essere dei punti fermi nel cinema di questo regista, e quindi ecco nuovamente legami consanguinei recisi e rinsaldati, la delinquenza e la malavita sottoforma di strozzinaggio al quale si collega il macrotema della disoccupazione, e soprattutto la galassia-Napoli, un teatro a cielo aperto portato in scena con una vitalità discretamente palpabile.

Pur non essendo più una tipologia di cinema capace di illuminare gli occhi del sottoscritto, a Per amor vostro va riconosciuta la capacità di dribblare le trappole della retorica nello sguardo che getta su Napoli (altrimenti ci saremmo trovati un altro sbiadito epigono di garroniana memoria), e ciò accade perché il film ha un carattere piuttosto delineato che sposa la causa del surreale arrivando a generare un certo stupore nello spettatore. Il quadro globale che si crea con il soggetto principale Anna e la connessa esplorazione della sua vita è terremotato da scosse oniriche che il consueto cinema del giovedì solitamente non contempla. Gaudino dissemina lungo il percorso visivo un ordito a tratti incomprensibile ma che stimola disparate suggestioni e che fa toccare all’opera territori che in fase di pre-visione, per quanto mi riguarda, non erano pronosticabili, stralci di inquietudini (i funerei passeggeri del bus) e di pura visionarietà (l’incubo sulla spiaggia del finale ricorda moltissimo le stoccate di Zulawski).

Presentato a Venezia ’15, nonché secondo lungo di finzione nell’arco di quasi un ventennio, il film se collocato nel contesto narrativo italiano d’oggidì appare decisamente più vivo della maggior parte dei prodotti che infestano il grande schermo, allargando lo sguardo oltre il nostro recinto ci sono però visioni annesse a veri e propri studi sul cinema che appagano maggiormente, non credo si tratti di esterofilia perché comunque alla veracità fuori dalle righe dell’autore partenopeo si guarda con rispetto, piuttosto è la constatazione che in Italia è più difficile raggiungere degli standard qualitativi sopra la media, cosa che invece accade in altre nazioni, si veda il Portogallo o la Francia.

sabato 24 marzo 2018

Tuga

Quando ne Il cavallo di Torino (2011) la luce tremolante della lampada ad olio del finale inizia ad affievolirsi sempre di più fino a morire nel quadro nero della Fine, il cinema constata l’addio di un suo esponente che nei trent’anni precedenti ne ha scritto la storia, e noi spettatori, orfani inconsolabili, viviamo da quel momento la consapevolezza che non ci sarà mai nient’altro che porterà in calce la sigla B.T. [1]. Ma appena ritiratosi Tarr decise di intraprendere un’altra strada mettendo a disposizione la sua esperienza per i giovani virgulti autoriali di tutto il mondo, così nel 2012 fondò a Sarajevo un’accademia denominata film.factory che si costituiva, dopo una selezione alla quale andava aggiunta una retta che pare fosse di 19.000 $, in un percorso triennale dove gli studenti, oltre alle normali lezioni in aula, potevano entrare in contatto con registi ed esperti del settore durante workshop organizzati dalla scuola, in quegli anni passò dalla film.factory gente come Pedro Costa, Carlos Reygadas, Enrico Ghezzi, Guy Maddin e James Benning. Insomma, laggiù non deve essere mancato un certo fermento culturale che indubbiamente avrà aiutato i discenti nel loro compito, e sì perché durante i primi due anni di corso l’obiettivo era quello di girare quattro cortometraggi per dedicare l’ultimo anno al lungometraggio di debutto. Poi, sul finire del 2016, Tarr ha annunciato il suo abbandono dall’accademia e credo che molte cose siano cambiate, ma non siamo qui per parlare di questo...

Bensì di Tuga (2014) diretto dal messicano Sergio Flores Thorija, e sebbene non abbia trovato conferme si tratta plausibilmente di un corto che fece da credito nel corso universitario svolto sotto l’egida di Tarr, qui nelle vesti di produttore. Va subito detto che ci rapportiamo con un lavoro scolastico su cui è arduo estrapolare un’esegesi che non sia il banale svolgimento dei fatti sullo schermo: abbiamo un dottorino ispanico che giunge in un paese sperduto da qualche parte nei balcani accolto da una sua coetanea che gli farà da infermiera, la popolazione si riduce a vecchie intente a tagliare la legna, a pecore e a bambini silenziosi, in più il cellulare non prende. Il dettaglio del telefonino senza campo potrebbe essere l’unico appiglio capace di fornire un briciolo di profondità, il dottore sembrerebbe infatti legato a qualcosa che ha lasciato indietro (tale aspetto è sottolineato nella sinossi ufficiale) e che pare lo tormenti alquanto. Non avendo uno sviluppo degno di nota Tuga si adagia sui binari della linearità ammantandosi di un torpore che non può che recare insoddisfazione, la risoluzione di una accettazione della propria condizione personale/professionale da parte del dottore lascia indifferenti, ed anche sul piano estetico, se togliamo un campo lunghissimo col ragazzo che sparisce verso una collina (citazione di A torinói ?) e delle tempistiche più dilatate rispetto all’ordinario, siamo nella medietà assoluta. Per Sergio Flores Thorija mi sento di asserire che, stando al 2014, ci siano ancora tanti libri da sfogliare e tanti film da vedere prima che possa considerarsi un Autore.
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[1] Vabbè, Muhamed (2017) non lo contiamo dài.

mercoledì 21 marzo 2018

Un perro llamado Dolor

Un’opera come Un perro llamado Dolor (2001) mi coglie oltremodo impreparato perché io di pittura e dei suoi interpreti ne so praticamente zero, e non solo fatico a comprendere l’importanza dei supposti artisti e l’influenza all’interno delle cornici storiche, ma, aspetto ancor più grave, ignoro buona parte dei quadri da loro firmati. È un discorso che estendo all’intero universo pittorico, dai graffiti rupestri all’arte contemporanea, per cui, davvero, di fronte allo sforzo di Luis Eduardo Aute dovrei tacere perché il cantautore e all’occorrenza disegnatore spagnolo (ma nato a Manila!) struttura la sua creatura attraverso sette ritratti, sette bozzetti, di Grandi con la g maiuscola come Goya, Picasso, Dalì e Frida Kahlo che poi interseca in un procedimento completamente irrazionale con personaggi del calibro di Napoleone, Stalin, Groucho Marx e Buñuel. In più ricrea ed esacerba per mezzo di una lievitante surrealtà il rapporto tra creatore e creato in modo che, ad esempio, La maja desnuda possa prendere vita per andare incontro alla morte, ed ogni autore è calato all’interno di situazioni similari (situazioni per nulla chiare se non si conoscono gli assunti e perciò davvero difficili da comprendere) che annullano il divario con la tela, le dimensioni si confondono, l’unico appiglio di continuità sembra essere l’onnipresente cane che, sotto svariate spoglie, si ripresenta in ognuno dei sette segmenti come una sentinella che vigila sull’imprevedibilità del processo creativo.

L’impressione globale è quella che vede Un perro llamado Dolor come un film-mausoleo dove Aute ha raccolto i propri feticci, le stelle polari seguite nel corso della carriera, gli idoli venerati, e ciò è riscontrabile dall’intervista che lasciò in occasione di una visita italiana a Sanremo (link). Quindi oggetto personale, voluto fortemente, e su cui il regista ha sputato anima e grafite avendo lavorato per cinque anni su ogni singolo centimetro visibile. Tra la possibile ignoranza verso l’argomento e un correlato apprezzamento si staglia lo scoglio più difficile da sormontare perché Un perro, diciamocelo, è un film in cui si diffonde una noia letale fin dai primi minuti; non uso mai il termine “noia” perché lo trovo di una soggettività pazzesca e dunque insulso per parametrare un giudizio di gradimento, ma qui mi sento realmente impossibilitato ad esprimermi in maniera diversa: mi sono annoiato, tanto. Uno dei motivi, o forse IL motivo principale riguarda la tecnica di trasmissione adottata da Aute, già la scelta di seguire i dettami del cinema muto non è che vesta di brio il tutto, in aggiunta poi la componente stilistica risulta paurosamente demodé, vecchia e pachidermica, dove le dissolvenze che dovrebbero fornire dinamicità sono moviole, ganasce che immobilizzano e caricano di tedio la visione. Se si vuole fare un confronto, le modalità di Aute assomigliano a quelle di Aleksandr Petrov, ma posti l’uno vicino all’altro il russo sembra viaggiare a velocità doppia, figuratevi un po’!

Comunque grazie all’infaticabile sottotitolista bowman e al suo lavoro di emersione.

lunedì 19 marzo 2018

I ricordi del fiume

Il commento che segue deriva da una versione de I ricordi del fiume (2015) rintracciata in Rete (l’unica, ad oggi) che consta di nemmeno sessanta minuti. Strano. Nei siti ufficiali la durata è indicata oltre l’ora e mezza se non addirittura due ore e venti. Non è strano: si tratta di un rippaggio da Rai Storia che per la messa in onda del film ne ha evidentemente decurtato delle parti, inoltre il passaggio catodico ha spinto qualche genio del male a doppiare in italiano gli abitanti del Platz, risultato? Pessimo. Se poi aggiungiamo che la qualità video lascia a desiderare e che l’audio risulta un po’ fuori sincrono, fossi nei fratelli De Serio non darei troppa importanza ad uno che praticamente ha visto un’opera che diverge sotto vari aspetti dall’originale, però che volete farci, Internet dà voce a tutti...

È pensabile che I ricordi del fiume sia il risultato di un percorso tematico iniziato molti anni fa, basta farsi un giro sul sito ufficiale dei De Serio (link) e leggere le sinossi dei loro cortometraggi precedenti (tipo Il giorno del santo [2002] o Zakaria [2005]) per capire come il mondo degli altri che vivono nel nostro mondo (e a quanto mi risulta dovrebbe trattarsi dello stesso mondo, ma non ditelo a Salvini) è un argomento tenuto in particolare considerazione, d’altronde se ricordiamo Sette opere di misericordia (2011) al centro della scena c’erano due pianeti diversieuguali in vicina rotazione impegnati a sopravvivere, in qualche modo. Per il documentario presentato a Venezia ’15 il discorso continua a mantenere una notevole coerenza, epurati i risvolti di finzione, il terreno di incontro con chi assiste è la ricerca di una dimensione reale agognata da una nutrita truppa di registi nostrani, e al suo interno Gianluca e Massimiliano censiscono tante piccole singolarità di una comune inevitabilmente marginale, non troppo lontana dalla città ma lontana abbastanza dagli occhi di chi la abita, regola valida per tutte le cloache sparpagliate per lEuropa. La penetrazione nella baraccopoli imposta il canale di trasmissione sulla verità, sono vere le persone, sono veri i luoghi in cui vivono e sono vere le storie che raccontano, in totale sobrietà ascoltiamo un triste canto di reietti di cui captiamo, sotto, l’immaginabile, e quindi povertà (la cucina di una casa nuova è la console di un’astronave), paure (perfino le ninnananne sono disperate) e timidi sogni (il bambino che da grande vorrà fare il poliziotto incassa i complimenti del ladro ravveduto).

Il cuore della vicenda, ossia lo sgombero del campo nomadi, si insinua ogni tanto tra un frammento umano e l’altro, istantanee fugaci (un tizio in barca chiede lumi a qualcuno sulla sponda) e discussioni animate di cui non capiamo granché pur capendo tutto introducono l’effettiva demolizione delle case, l’arrivo della polizia, dei caterpillar, è qui in sostanza che i due mondi di cui sopra si congiungono, anzi no, è qui che collidono drammaticamente. Un punto a favore dei registi è di mantenere una posizione piuttosto neutrale, su una questione come quella degli immigrati dove vomitare sentenze è ormai lo sport nazionale, lo sguardo dei De Serio lascia una discreta libertà cognitiva allo spettatore, gli interrogativi fiorenti su cosa sia “giusto” e cosa non lo sia indicano uno spessore oserei dire etico da non snobbare, la politica nel e del cinema non ha nulla a che vedere con le prassi logorroiche della retorica, è un fatto di Immagini, Silenzi, Sussurri, Penombre, Volti barbuti, Preghiere, di un bambino che nel tempo del film (un’ora? Due? Tre... anni?) gironzola nello stesso posto ma drasticamente cambiato tra l’inizio e la fine. Se interessati, per ulteriori delucidazioni rivolgersi a Sylvain George.

sabato 17 marzo 2018

Pebbles at Your Door

La danese Vibeke Bryld, qui al suo terzo cortometraggio dopo una lunga gavetta televisiva, tiene a raccontarci la storia di una donna nata nella Corea del Nord (con un nome ben poco locale: Harmonia…) che, dopo essersi divisa dalla madre e dalla sorellina fuggite in Sudcorea per faide famigliari interne e dopo essersi costruita una vita propria, inizia lentamente a comprendere di quanto il paradiso (definito con la parola Han) che la circonda non sia in realtà tale e che a causa della sua posizione privilegiata (è la moglie di un militare) le era stato impossibile venire a conoscenza delle povertà intorno a Pyongyang. Questo è dunque l’assunto di Pebbles at Your Door (2015) dal quale non si scappa, il lavoro della Bryld, di cui non sono riuscito a trovare conferme sull’effettiva veridicità della storia narrata ma è presumibile che ci sia molta aderenza alla realtà dei fatti (“non posso mostrarvi il mio volto…”), si costruisce sul parlato della donna che attraverso il proprio ricordo struttura un arco temporale di trenta-quarant’anni. Tuttavia, vuoi per la costrizione del contenitore “corto”, vuoi per un velo di ovvietà adagiato sulla vicenda (ok il dramma concepibile, il distacco, la mano occludente della dittatura, ma di altro che abbiamo? Nulla che non sia facilmente pronosticabile), per l’opera sotto esame presentata alla Berlinale si galleggia a stento nel mare del ricordabile.

Più interessante è la realizzazione grafica che potrà guadagnarsi una meritevole attenzione. Con un procedimento che assomiglia lontanamente a quello adottato da Panh ne L’immagine mancante (2013), la regista incapsula dosi di nostalgia/malinconia attraverso un patchwork di immagini d’archivio, fotografie, cartoline e sagome bidimensionali, il tutto ammantato da una specie di caos soffuso dove le cose non vengono mai volutamente messe in primo piano. L’album ingiallito che scorre davanti a noi possiede, almeno un pizzico, il retrogusto agrodolce del passato che nello specifico si accompagna ad un lento risveglio coscienziale da parte della donna. Peccato che, molto banalmente, il racconto non regga il confronto con il suo apprezzabile contenitore estetico e l’orizzonte dell’irrilevanza è l’isola in cui approdano a braccetto.

Sull’argomento potreste vedere anche The Coast Guard (2002) e Deface (2007).

martedì 13 marzo 2018

Shinjuku Swan II

Nell’ormai famoso sestetto del 2015 Shinjuku Swan risultava essere, in una gara a chi faceva davvero peggio, il film più brutto del lotto in quanto al suo interno iniziava a maturare un’evidente spersonalizzazione registica, a tratti non vi era più alcuna peculiarità che potesse legittimare la paternità di Sono. Al tempo sottolineavo di come la constatazione ultima e rattristante fosse che per buona parte della proiezione non sembrava nemmeno di avere più a che fare con un’opera firmata dal giapponese. È automatico che da premesse del genere non poteva proprio uscire un prodotto dignitoso, anzi se col primo capitolo quel processo di disidentificazione iniziava a svilupparsi e a prevalere sul girato, con Shinjuku suwan II (2017) si arriva allo stadio conclusivo: non c’è la benché minima traccia del Sono che fu (nella versione rinvenuta dal sottoscritto è mancante anche la tipica scritta d’apertura “A Sono Sion film”, e forse non è una coincidenza...), ergo: il film è letteralmente invedibile. A causa dell’estenuante lunghezza (sfioriamo ingiustificatamente le due ore e un quarto) che ha annientato il desiderio di mettermi alla ricerca di qualunque informazione extra, mi limito a supporre che la seconda trasposizione del manga ideato da Ken Wakui sia stata pensata essenzialmente per soddisfare l’interesse dei fan nipponici piuttosto che quello degli occidentali. Ma al di là del target di mercato, se proviamo ad analizzare la struttura narrativa di Shinjuku Swan II subito ci si rende conto della pochezza del tutto: ancora e per l’ennesima volta siamo qui a riportare la disputa criminale tra bande di pseudo-delinquenti caricaturate in un eccesso che, spiace dirlo Sion, non funziona proprio, anzi: irrita, ma nel profondo, tipo che sono insopportabili sia i buoni che i cattivi, ammesso che vogliate trovarvi una differenza dato che sembrano tutti dei grandi imbecilli.

Lo snodarsi degli eventi non ha appeal, è farraginoso, noioso e schematico, la pletora di inutili personaggini che compaiono sullo schermo fa sempre riferimento ad un boss superiore in una piramide di potere fumettosa e ridicola. Non ho vergogna ad ammettere che parecchi passaggi mi sono sfuggiti, un po’ perché al momento della visione (primi di dicembre del 2017) gli unici sottotitoli inglesi disponibili erano di pessima fattura, e un po’ tanto perché la dozzinalità dell’intreccio risulta essere distraente oltremisura, se poi rispetto al predecessore vengono anche diminuite le baruffe tra le gang limitandosi ad inscenare qualche scazzottata per nulla memorabile (appena appena salvabile quella in cui cadono i cartelloni pubblicitari), il risultato è lo srotolamento di intrighi soporiferi su come riuscire a reclutare più ragazze della cricca opposta unito alle varie ed eventuali che gravitano nell’ambiente malavitoso. Inutile ribadire che non vi è nessun approfondimento né un tentativo di dare spessore (comunque, almeno in teoria, si racconta di prostituzione qui), è solo carta velina adagiata sul modello iper-abusato (anche da Sono stesso) degli yakuza-movie, un insulto per chi ha a cuore le sorti di quella cosa magnifica che si chiama cinema. Ad ogni modo sono piuttosto sicuro di aver definitivamente compreso Sono, quando verso il 2011 aveva fatto irruzione in Europa (il Festival di Torino gli dedicò anche un’esaustiva retrospettiva) ci eravamo meravigliati di quanto vitali fossero i suoi lavori, questo perché, semplicemente, avevamo visto i migliori, poi spulciando la filmografia sono venuti a galla esemplari a dir poco biasimevoli (due titoli a caso: Kikyû kurabu, sonogo [2006] e Be Sure to Share [2009]), e ora che è diventato produttivamente inarrestabile emerge con forza la tendenza di assoggettarsi ad una commercialità che non può che essere lontana dai miei desiderata, tuttavia non ritengo che Sono abbia completamente prosciugato la vena artistica, The Whispering Star (2015) e Antiporno (2016) suggeriscono il contrario, bisogna piuttosto accettare la prolifica politica intrapresa ed essere consci del fatto che fra tante brutture qualcosa di dignitoso a volte spunta.

sabato 10 marzo 2018

Sta' fermo, muori e resuscita

Non ci sono certezze in Zamri, umri, voskresni! (nemmeno la sua data di uscita, su IMDb è il 1990 per altri siti il 1989), un’opera giurassica eppure di giusto trent’anni fa che fu presentata a Cannes dove vinse la Caméra d’Or, il riconoscimento assegnato ai migliori debutti (ma sempre IMDb ci fa notare che prima di questo film ce ne sarebbero altri due girati nel ’77 e nell’’81), e firmata da Vitalij Kanevskij, un regista russo piuttosto sconosciuto (ma un po’ di luce è stata fatta in un Festival torinese di qualche anno fa che gli dedicò una retrospettiva) la cui carriera ruota principalmente attorno a due opere strettamente collegate, Sta’ fermo, muori e resuscita e Una vita indipendente (1992). Per la pellicola sotto esame la storia si muove in una zona della Siberia infangata e innevata, divisa, quindi, tra la sporcizia degli adulti (ubriaconi, storpi, prigionieri giapponesi, soldati, operai delle miniere) e il candore di un’amicizia tra Galia (lei diventerà un’attrice vera recitando, ad esempio, nel mitico Of Freaks and Men [1998] e in Amour [2012]) e Valerka (lui invece diventerà un delinquente finendo dietro le sbarre, così come testimonia un documentario del 2010 che rappresenta, ad oggi, l’ultimo titolo di Kanevskij). Il rapporto tra i due bimbi, che in realtà, vivendo in un contesto del genere, sono due Piccoli Uomini, è l’unica luce della vicenda, e, quindi, a ripensarci, una certezza c’è, anche se traumaticamente cancellata nel finale.

Zamri, umri, voskresni! rientra in una categoria di film sovietici su cui è complicato esprimere un giudizio oggettivo perché è proprio davanti agli occhi di come molto di quanto esposto sia raffazzonato se non improvvisato e che la non grande esperienza di Kanevskij si ripercuote in una professionalità che non è esattamente su livelli altissimi, eppure da qui dentro si propaga un fascino potente, una veracità che investe e stordisce, la presa di coscienza che ciò a cui assistiamo proviene da un mondo estremo da cui è impossibile distogliere lo sguardo. Perché? Perché la cinematografia russa del passato (ma anche quella più recente: Aristakisian!) sa creare dei ponti magnetici con lo spettatore? Le motivazioni si possono ricondurre ad un’attrazione che, almeno per chi scrive, è fatale: la seduzione del degrado, materiale e umano, il disfacimento civile, i deboli ma tenaci segnali di chi lotta e resiste, tutti ingredienti che puntualmente possiamo ritrovare in Sta’ fermo, muori e resuscita, la cui struttura, ad essere onesti, è davvero molto episodica e non contempla uno sviluppo arioso della narrazione, si procede a rimbalzi tra una marachella di Valerka e l’altra in un singhiozzio dalla portata inarrestabilmente disumanizzante, ma non è un processo né un meccanismo di cause ed effetto, le cose accadono in una porzione geografica dimenticata da qualunque dio e non ci si può fare niente, capita allora che un bimbetto venga assoldato da una banda di criminali con modalità sbrigative e infondate su cui però non mi sento di apporre alcun dubbio, e capita, soprattutto, che si possa venire uccisi senza un perché, e qui Kanevskij è intelligente nel lasciare il dramma fuori campo.

L’estemporaneità esistenziale, la fragilità della vita che laggiù non è legata a niente (forse nemmeno ai rapporti consanguinei), il tirare a campare tra ettolitri di vodka e i vapori del carbone, surclassano l’assenza di una scrittura oculata, gli sbilanciamenti e le accelerate del racconto sono mitigate da scomode oasi che non si scorderanno agilmente, primi piani perforanti come quello del matto che impasta la farina nel fango o quello di Valerka sul cui viso si riflettono i baluginii di un qualcosa che brucia e che nell’annesso controcampo ci mostra tutto l’orrore possibile, fino alla catarsi della mamma di Galia, una detonazione di follia e dolore che è la grondaia di tutto il dolore e di tutta la follia di un intero popolo.

mercoledì 7 marzo 2018

Boro in the Box

Grande atmosfera in questo titolo dell’estroso Bertrand Mandico (Living Still Life, 2012) impegnato a fornirci una biografia allucinata del celebre regista Walerian Borowczyk, del quale, e spero di non essere accusato di lesa maestà, non ho un ricordo particolarmente positivo, almeno per quanto riuscii a vedere (I racconti immorali di Borowczyk [1974] e La bestia [1975]), impressioni confermate da quanto scrissi al tempo dove al di là di un mio approccio ingenuo alla materia cinema mi pare emerga chiaramente il fatto che certe provocazioni e certe dinamitazioni col passare degli anni e con i cambiamenti sociali e artistici hanno ridotto di molto la loro portata eversiva. Ad ogni modo non sarà il mancato amore verso l’autore di origini polacche a deprezzarmi il lavoro di Mandico, anzi come accennato nella prima riga vanno fatti i complimenti al francese per il quadro che ha saputo mettere in piedi, un vero e proprio crogiuolo di suggestioni filmiche in cui ci si riesce a vedere quello che più aggrada, io ad esempio ci ho visto in lontananza la mano di Maddin e una cifra weird à la Švankmajer (questo Boro inscatolato non assomiglia al tenero Little Otik [2000]?), il tutto senza però scivolare in una sterile derivazione perché Boro in the Box (2011) si carica di una originalità che prescinde dalle possibili ispirazioni, e di ciò a Mandico è doveroso rendere onore.

Costituito da un abbecedario che quasi ironicamente istituisce uno schizzato compendio della vita di Borowczyk, il film tenta, credo riuscendoci, di rappresentare, ovviamente in modo non letterale, l’origine delle ossessioni erotiche di Boro. C’è della sporcizia (la madre che copula con un cavallo, antipasto de La bestia), della velata perversione (la giovane mamma “gioca” a morire, il padre una bestia tutt’uno con la natura: il concepimento è allora uno stupro), ma anche della solitudine esacerbata da quel recinto ad personam che separa il protagonista dall’alterità. Non credo sia un caso che l’unico punto di sfogo rintracciabile nella gabbia/scatola sia un foro circolare perfetto per accogliere il mirino della cinepresa, tanto che la compenetrazione tra i due corpi (anche la mdp è giustamente corpo per Mandico, la vediamo organica, pelosa… mostruosa?) dà vita ad unico essere: che è il Regista, che è Borowczyk. Di tutto il resto che risulta incomprensibile non importa poi molto, quando è un cinema così singolare a richiedere la nostra attenzione è da sconsiderati voltargli le spalle.

lunedì 5 marzo 2018

La noche

Non ci sono titoli di testa per La noche (2016), non ci sono nomi, interpreti, registi, case di produzione, c’è solo una cosa: il film che inizia nel niente di una casa a Buenos Aires, un uomo vaga al suo interno, lo stesso uomo vagherà anche fuori in una notte che è più una stagione esistenziale che l’antitesi del giorno, il buio e l’umida penombra sono infatti il clima generale in cui versa la pellicola e non è difficile pensare che tale oscurità si trovi anche nell’anima di tutta un’umanità devastata dalla cocaina e dal sesso, ma non è un’opera in cui si possono leggere chissà quali metafore, il pregevole lavoro di Edgardo Castro (qui alienato protagonista e al debutto dietro la mdp) è una finestra su un reale che diventa quasi iper, è l’esacerbazione di un dato cinema contemporaneo (ad esempio quello di Cristi Puiu) che tenta l’impresa impossibile di valicare i limiti della rappresentazione per indirizzarsi nel nucleo gelido e nauseante di una verità che riesce a darsi in modo autentico, che trasuda un mondo a cui si crede che sia così poiché così viene colto e somministrato. La visione non è propriamente agevole in quanto Castro vuole destabilizzare proprio l’atto del “vedere”, difficile che ciò si trasformi in “vivere” per lo spettatore, ma rimane la concretezza di un’esemplare cinematografico con un’altissima coerenza formale ed espositiva che, lasciatemi esagerare, nel suo continuo reiterarsi, girare in tondo ed inabissarsi diventa un mantra nero con una personale trascendenza.

E sì perché un plot classico con un inizio, uno sviluppo e una conclusione non esiste, il film è palindromo e lo si potrebbe guardare cominciando dalla fine o da metà che poco cambierebbe, ovviamente chi non porta pazienza verso metodi smaccatamente autoriali è bene che ritorni all’Acr, gli altri avranno la possibilità di accedere a traiettorie dirette come un razzo in un nichilismo che Noé gradirebbe assai e che comprende il continuo traviamento di qualunque etica, ciò intontisce e genera una latente assuefazione: sarebbe potuto andare avanti ancora per ore La noche nel presentare innumerevoli studi pruriginosi sempre più torbidi e malsani, e avrebbe potuto, inoltre, essere ancora più esplicito (vediamo molti rapporti orali ma praticamente nessun rapporto sessuale completo) senza risultare compiaciuto perché la via di trasmissione, come detto nel paragrafo sopra, riduce al minimo le pecche della finzione e allora se finisce per risultare naturale anche un campionario di fellatio e pippate i complimenti vanno fatti sul serio. Non è semplice vedere La noche e non lo è nemmeno scriverne, vorrei dire, ad esempio, che alla fine in questo profondo mare di disaffezione dove anche l’intimità è comprata (“vuoi dormire con me? Ti pago…”) si profila addirittura il tremolante ologramma di un sentimento che non si sa bene cosa sia (amicizia, amore?) e che Castro lascia astutamente al di là del vetro utilizzando per la prima volta un piano frontale, ma temo di non essere particolarmente convincente, d’altronde non lo si può essere visto che una recensione, anche la più bella e perfetta (ammesso che possa esistere), non è altro che la sterile propaggine del film stesso, per cui La noche va Visto, e di tutto il resto non vi è importanza alcuna.

sabato 3 marzo 2018

Continental, a Film Without Guns

Presentato al Festival di Venezia ’07, Continental, un film sans fusil (2007) è un debutto firmato dal canadese Stéphane Lafleur che si instrada nella folta categoria del film corale, e direi che per stile, tematiche e tendenza ad instillare asprezze nella normale esistenza delle persone siamo nei territori di Todd Solondz, infatti anche per Lafleur la vita che il cinema può raccontarci è quella di miseri cristi alle prese con magagne atterrenti, abbiamo una moglie improvvisamente abbandonata, un assicuratore lontano dalla famiglia che pare abbia delle divergenze con la consorte, un rigattiere che non ha il denaro per pagarsi un’operazione ai denti e una receptionist paranoica, in più questo manipolo di personaggi deve fronteggiare quella dura pietra che corrisponde al nucleo dell’opera: la solitudine. Curioso il fatto che il filone della coralità nella settima arte abbia spessissimo affrontato la condizione dell’uomo emarginato in un contesto sociale comunque abbastanza abbiente, il sentirsi isole, ed esserlo nel concreto, pur vivendo in una realtà sempre più iperconnessa è un paradosso del contemporaneo che dovrebbe essere studiato approfonditamente dalla sociologia, ammesso che non lo sia già. Il fatto che tutti i personaggi del film siano soli non è altro che la conseguenza dell’incipit dove l’uomo (vero che è il marito, ma vero anche che è sineddoche, il suo abbandono lascia orfani le altre pedine della scacchiera), senza che venga spiegato il motivo, si inoltra nel buio impenetrabile di un bosco.

Lafleur da questo momento in poi inizia a tessere la sua tela tramica che, come da tradizione, permette ai vari esseri umani sulla scena di incontrarsi, di sfiorarsi, di illudersi per un attimo che quel malessere si possa in qualche modo lenire, ma, come nuovamente da tradizione, è difficile che ci possa essere un ribaltamento esistenziale, la rivincita non è un termine contemplato nel vocabolario dei soggetti sotto esame e Lafleur segue attento questi precetti disegnando un quadro complessivo dotato di una credibilità e di una logicità apprezzabili (si storce il naso solo una volta, quando il rigattiere riceve troppo facilmente dei soldi per il presunto avvistamento del fuggitivo). Camminando sul crinale che divide la commedia dal dramma, il regista non disdegna sguardi verso il panorama del grottesco, forse non riesce ad essere davvero “cattivo” al pari di altri colleghi (il già citato Solondz o in Europa Seidl e Östlund per menzionare i primi balzati alla mente), ma un paio di situazioni strappano dei sorrisi amari, risultato diretto di un’umanità che affannandosi a cercare un rimedio alla propria condizione non fa altro che inciampare nel ridicolo agli occhi dello spettatore, il quale riceve da Lafleur un trattamento rispettoso, senza accenti né intensificazioni di sorta (d’altronde lo ricorda il titolo: non vi è azione in Continental) l’effluvio della malinconia si diffonde sottile.

Chi cerca dell’originalità non potrà trovarla nell’opera prima di Lafleur, che, fra l’altro, si rivelerà regista di un certo spessore portando i suoi due lungometraggi susseguenti rispettivamente a Berlino e a Cannes, eppure non scanserei la possibilità di sfogliare ancora una volta, e poco importa se sia l’ennesima quando il risultato è godibile, il grande libro delle afflizioni minime della nostra razza.

giovedì 1 marzo 2018

Sete Rimane Sete

Dei consueti canoni narrativi non se ne può più già da molto tempo, allora ben vengano tentativi di aggirare la materia-racconto inquadrandola da angolazioni che non restituendone la banale immediatezza, la facile frontalità o la veloce lettura, sanno rimandare al nucleo concettuale perseguito. Delle avvisaglie ci erano state fornite con Inassenza (2012) dove Domenico De Orsi (ma è più corretto riferirsi al collettivo capitolino Purple Neon Lights) aveva provato a destrutturare una storia tutto sommato semplice con specifici accorgimenti tecnici, in Sete Rimane Sete (2016) il proposito si radicalizza visto che di una storia non rimangono che brandelli confidati ad un dispositivo telefonico, ma, proprio per il suo essere così scentrato rispetto ad un nitido focus (che in questo caso sarebbe eminentemente sentimentale), ne riesce comunque ad offrire dei riflessi non meno luminosi. È il monologo di una donna che fluttua tra le correnti del ricordo il quale, come da tradizione amorosa, riesce ad essere presente anche se si consuma nel passato perché del resto per una persona innamorata e non corrisposta il tempo si concentra in un doloroso e sempiterno adesso, così, giocando un po’ come la grafica dei crediti in video che unifica nomi e cognomi, se noi al contrario scomponiamo il titolo ecco che si palesa un manifesto: se te rimane se te, per il cuore ferito non vi è certezza nell’altro, la congiunzione permane ipotetica poiché naviga nella libertà tanto avversa.

Il punto nodale del cortometraggio non è però la componente letteraria ma la sua interdipendenza con l’area estetica, a fronte dell’apparente inconciliabilità tra le parole e le riprese accade ciò che chi scrive auspica sempre durante una visione, ovvero che la costruzione di un senso sia a carico dell’umano osservatore e non dell’oggetto osservato, e qui la cornice naturale (è il mare della Sardegna) aiuta a rendere il respiro del legame in crisi piuttosto ampio e forse anche profondo, d’altronde non lo scopre di certo il sottoscritto che il cinema è arte per immagini e che all’interno di esse vivono e muoiono mondi di sconfinato splendore. Difatti Sete Rimane Sete, a prescindere dal rispettabile accostamento, perde terreno nella specificità del testo e in alcune battute che stridono con lo spirito dell’opera, si senta “il tuo odore era come l’ossigeno per me”, “ti ho dentro di me non riesco a levarti da qui” o “per addormentarmi abbraccio il tuo cuscino, sento il tuo odore” (ripetizione), sono espressioni inflazionate che, richiamando altri contesti (televisivi, pop, ecc.), mal si coniugano con lo slancio visivo abbinato. Niente male, invece, il parallelo conclusivo del frigo perché poco altro al mondo trasmette solitudine e malinconia quanto un frigorifero vuoto. Brava davvero poi, almeno per quel che mi ha permesso di percepire, la voce narrante.

Grazie a Nicola Pertino.