giovedì 29 marzo 2018

L'infinita fabbrica del Duomo

Racconto per immagini e immagini che contengono racconti senza tempo perché quando è il tempo ad allungarsi nei secoli esso pare infinito come giustamente ci ricorda il nodoso olmo dell’apertura o come ci illumina l’idea più bella e poetica che D’Anolfi e Parenti forniscono, quella dell’eterna metamorfosi delle conchiglie che si trasformano in marmo, L’infinita fabbrica del Duomo (2015) si concentra su questa onda processuale che non sembra avere un termine perché inizia con e nella natura (ci vogliono millenni affinché l’evoluzione marmorea si compia) e prosegue attraverso l’uomo che costruisce, lavora e abbellisce la materia in un lasso temporale iniziato nel 1387 e dotato di una prospettiva pressoché perenne. La parola “lavoro”, a mio modo di vedere, è un lemma decisivo per avvicinarsi alla comprensione del documentario perché il concetto di un perpetuo lavorio sorregge l’intera visione, e se ci pensiamo un attimo è anche un fatto curioso poiché in uno sguardo filosofico finanche lirico che la coppia registica propone, ciò che più rimane è la concretezza delle azioni e dei dati storici, sicché il soffermarsi sulla sterminata quantità di esseri umani che hanno partecipato e che tutt’ora stanno partecipando all’edificazione della cattedrale con attività di recupero e manutenzione, appaia la cifra umana della fatica che intercorre tra la vita e la morte alla tenacia ciclicità della natura, e il flusso che ne fuoriesce è una grandezza non misurabile, è il respiro di ere che si susseguono nell’arco smisurato della Storia.

C’è un filo che si sta ispessendo di volta in volta per Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, un link che dona loro, per quanto vale, lo status di autori e che collega Il castello (2011), l’eccellente Materia oscura (2013), L’infinita fabbrica del Duomo e probabilmente anche il successivo Spira Mirabilis (2016) che si preannuncia come un importante punto di arrivo, e tale coesione emerge dall’accomunante capacità di fare del cinema documentaristico uno spazio narrativo svincolato dai paletti della canonicità, e per rimanere al film sotto esame ci sono davvero miriadi di racconti all’interno, si tratta di storie “mute” scalfite nelle statue mutilate, archiviate negli antichi libroni contabili, modellate dalle recenti tecniche di restauro, accolte nella sacralità della routine giornaliera, tutte cellule di un unico organismo complesso che non potrà mai essere compreso, perché se come dicevano gli antichi Dio è una sfera infinita il cui centro è dappertutto e la circonferenza da nessuna parte, un cinema del genere può essere la finestra che si affaccia sull’immenso, saremo sempre dei pusillanimi, ma il panorama è notevole.

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