lunedì 30 dicembre 2019

The Little Drummer Girl

Perché?
Sarà ragionevolmente questa la domanda che avrà ghermito lo spettatore cinefilo una volta giunto all’episodio conclusivo di The Little Drummer Girl (2018), perché Park Chan-wook ha accettato di dirigere un progetto del genere? Al di là delle questioni monetarie o di implementazione della propria fama, è possibile ipotizzare che al regista sudcoreano abbia fatto gola la possibilità di girare un film scorrazzando in lungo e in largo per l’Europa (che tanto in America c’era già passato: Stoker, 2013): dall’Inghilterra alla Grecia passando per la Germania con tappa nel Medio Oriente, la serie prodotta dalla BBC non si fa mancar nulla, sebbene essa stessa produca, involontariamente, una forte mancanza verso l’esterno, verso chi guarda: manca di appeal questa storia che più classicheggiante non può essere, cioè: è una storia di spionaggio e questo è ciò che viene propinato, quindi, tornando a Park e accettata la sua scelta di mettersi al timone della nave, si rimane un po’ delusi di quanto il risultato finale sia un prodotto normalizzato da delle grammatiche che non definirei televisive (ormai il confine è stato divelto, la tv seriale compete – e spesso vince – col cinema da botteghino), bensì occidentali, ma in un senso tradizionale, consuete, almeno al nostro occhio. Se pensiamo ad altri due autori come Lynch e Refn che di recente grazie alla forma episodica hanno potuto dare sfogo a maratone in cui è venuto fuori tutto il loro estro, qui con La tamburina accade il contrario, c’è spersonalizzazione, assoggettamento a bolsi ingranaggi narrativi e qualche ovvietà.

In alcuni recensioni ho letto di inequivocabili segnali che rimanderebbero alla paternità di Park, mah, sinceramente fatico a ravvisare continuità o ripresa di elementi personali appartenenti al regista, ad essere larghi qualche dettaglio o sfumatura ci può anche assere ma sono cose di poco conto che di certo non rinvigoriscono una poetica o un’idea trasmigrata (all’incirca) di film in film. Per carità, non si vuole considerare Park uno sperimentatore né un regista seminale, sul discorso delle aspettative quanto ci si augurava era solo un’opera ben confezionata smossa da un’aria frizzantina (vedi Mademoiselle, 2016), ma l’aria invece è piuttosto ferma, e lo è nonostante in superficie si presenti oltremodo movimentata. Del resto stiamo trattando una spy-story e quindi le contorsioni tramiche sono il pane quotidiano dalla prima alla sesta puntata. Il fatto è che più le faccende si contorcono e più la loro resa si fa costruita e innaturale. Io il libro non l’ho letto così come non ho mai letto nemmeno una riga scritta da le Carré, però “leggendone” la trasposizione sullo schermo si evince solo e soltanto un asservimento al canone del genere di riferimento, che è prettamente letterario e costituito da un intreccio che si ostina a voler essere logico pur seminando artificiosità a manetta. Dài, è una storia che non regge, improbabile come può essere James Bond ma, ovviamente, senza avere la medesima struttura extrafilmica alla spalle. Forse adottando un’ottica spionistica le maglie critiche dovrebbero allargarsi, tuttavia della suddetta ottica non mi importa niente, al sottoscritto importa che il manufatto audiovisivo abbia natura altra e priva di una leggibilità univoca, nel senso: Charlie viene assoldata dal Mossad per introdursi sotto mentite spoglie in una cellula terroristica palestinese, che c’è di più?

Ah già, la riflessione sull’attorialità. In sostanza c’è un meta-pensiero che attraversa la serie e che è impersonificato dalla figura di Charlie/Florence Pugh. Soprassiedo sulle modalità di reclutamento della ragazza, forzatissime e inverosimili al pari del percorso di introduzione nel clan arabo pensato per lei, e registro la scelta di porre la recitazione, e quindi la finzione, come strumento di indagine nella storia narrata, e quindi nella e della realtà (-del-film). Il processo di immedesimazione dell’attrice/spia fa sì che la sua discesa nella cosca terroristica si appai al mestiere che fa nella vita vera, è un’attrice, per cui sa fingere, o meglio, sa far credere a chi la guarda che lei può essere Giovanna d’Arco o una ribelle londinese dalla parte dei palestinesi. È un assunto che non si scrolla di dosso la frigida teoria che lo sottende, il concetto di una finzione che piano piano si fa realtà non si innesta mai con piena autenticità nell’impianto del racconto, non ce la fa nemmeno usando le palette dei sentimenti con il ricircolo amoroso che fluisce in un triangolo (o quadrilatero?) un po’ immaginario e un po’ no (sarebbe stato molto più incisivo se alla fine Charlie si fosse davvero fatta invadere dalla finzione [scappando via con Khalil] tradendo la realtà [Gadi e la cricca ebraica]). E allora? Anzi: e Park? Che faceva mentre riprendeva questo teatrino pieno di pupazzetti impelagati in vicende dimenticabili? Boh, se lo vedo glielo chiedo.

A sproposito di attori, si è mai detto quanto in una serie tv si ha la possibilità di apprezzare (o il contrario) le qualità di un interprete visto il numero di ore a disposizione? Sicuramente si sarà detto e stradetto, e mi viene da ribadirlo dopo aver visto un Michael Shannon in superforma che, nemmeno troppo velatamente nella prospettiva meta, è il Park Chan-wook diegetico che dirige le pedine sulla scacchiera. Attenzione anche a Florence Pugh, il futuro potrebbe appartenerle.

venerdì 27 dicembre 2019

O nosso Homem

Nessuna lampada riuscirebbe a fare luce in quel buio.

È sempre piacevole, ma di un piacere che diffonde nel palato un sapore di sconfitta, penetrare nel mondo di Pedro Costa poiché, come i suoi grandi capolavori ci hanno insegnato, l’intersecazione si fa reciproca e può accadere che in fin dei conti è il suo mondo che sta guardando te, e non il contrario. Preso separatamente O nosso Homem (2010) dirà poco a chi non conosce il maestro portoghese, sì, un taglio “particolare”, un assorbimento del reale notevole, dei dialoghi strampalati, insomma, che altro? L’altro, cioè tutto, è: un’opera che dal ’94 in poi (anno di Casa de Lava) ha continuato a perpetuarsi in ogni sua manifestazione e che focalizzandosi sull’ultimità dell’umano ci ha spedito delle memorabili cartoline dalla penombra, questo è il cinema di Costa che ovviamente contiene ulteriori, pregevoli, componenti a cui si rimanda nei vari commenti che chi scrive ha tentato di riservargli su queste pagine, ma di sicuro un dato che va rimarcato e che si riaffaccia anche nel corto sotto esame è quello di un’attenzione alla geografia, dell’idea che un luogo possa rappresentare le persone e viceversa, e poiché il quartiere di Fontainhas non esiste più allora, in un qualche modo, non esistono nemmeno più i suoi abitanti.

Tutto ciò si realizzerà nel bellissimo lungometraggio successivo Cavallo Denaro (2014), qui siamo ancora in un momento di transizione tra la fine di un’epoca (Colossal Youth, 2006) e l’inizio di un’altra, non solo più oscura e disperata ma anche affrancata dai paletti del realismo, tale proiezione in una dimensione più alta (o più bassa, chissà… ) si deve ad un Costa che dopo la spossante autopsia di In Vanda’s Room (2000) è pian piano salpato verso traiettorie che mischiando i piani spaziali hanno avuto concretizzazione nel sopraccitato film del ’14. O nosso Homem sta quindi a metà tra due mondi e tra due modi espositivi vicini a diventare un tutt’uno, abbiamo perciò nel dialogo tra madre e figlio il desiderio di avere una casa, un tetto, una Patria, eppure subito dopo il discorso scivola nel folkloristico, in una leggenda cupa e tenebrosa, oppure ecco che ritorna il caro Ventura insieme ad un amico, e riecco i problemi economici di quest’ultimo, la perdita del lavoro, della moglie, di se stesso (“sono entrato in una casa abbandonata per riposare e dei ragazzi hanno iniziato a picchiarmi”), di nuovo la loro miseria (mangiano i resti di una zuppa in una mensa scolastica), ma soprattutto, anche, l’apertura verso l’impossibile che si fa possibile nello scambio di battute conclusivo dove si allude alla presunta morte del socio di Ventura, il che ci dà la conferma di come il cinema di Costa stesse già cominciando a mostrarci il lato nascosto della realtà, un lato pullulante di poveri fantasmi.

mercoledì 25 dicembre 2019

Lucía

Tipica, nella sua deliziosa atipicità, opera prima proveniente dal Sudamerica, precisamente dal Cile, che ci ricorda tanti altri film passati su questi atri schermi, non faccio i nomi, è tutto qui, da qualche parte, e anche Lucía (2010) è qui nel taschino dei ricordi perché è un oggetto che ha le carte in regola per farsi apprezzare in quanto esprime se stesso con una dignità e un contegno che toccano certi tasti posti non proprio in superficie. Che poi la storia è di quelle semplici semplici, abbiamo una figlia e un padre che vivono insieme e che economicamente non se la passano bene, lei lavora in una specie di sartoria, lui è forse pensionato o più probabilmente disoccupato. Niles Atallah ci fa accedere nel loro mondo attraverso piani fissi che disegnano l’umiltà dell’esistenza che conducono, a tratti monotona, a tratti piatta. La casa, attraverso la visuale del regista, si fa guscio che accoglie la donna a fine giornata e, al contempo, catacomba disordinata immersa in penombre dal sapore agrodolce, di una Fine che non c’è ancora ma che incombe. Lucía non ci dice nulla in modo diretto di Lucía, né di suo papà, piuttosto: intuiamo grazie a sfumature, dettagli, elaborazioni mentali post-visione. Parrebbe che nella quotidianità delle giornate la donna abbia la speranza di un futuro diverso, che può essere una casa nuova (per strada abbondano gli annunci immobiliari) o un nuovo paio di occhiali, di contro l’uomo è arenato nel presente, se non nel passato, e difatti gli occhiali nuovi non li usa, preferisce quelli vecchi che utilizza per guardare cose vecchie come la medesima telenovela di ogni santo giorno.

Atallah non si accontenta però del ritrattino intimo (che già sarebbe soddisfacente), è uno che, nonostante fosse agli esordi, dimostrava già una discreta intemperanza e quindi piazza degli intermezzi in stop-motion all’interno del girato. In queste scene è presente sempre e soltanto Lucía e, a conti fatti, non hanno un peso effettivo nella trama, ma, del resto, chi se ne fotte della trama, per cui viva, ora e sempre, delle aperture del genere che amplificano il fascio del sensibile e che forniscono elementi chiari sullo status autoriale di Atallah il quale nel susseguente (e formidabile) Rey (2017) aumenterà gli strappi sull’irrazionale arrivando a picchi d’intensità non trascurabili. Comunque, non è solo una questione di scelte anticonvenzionali, c’è intelligenza anche nella sintassi proposta, nell’associare per esempio due scene che nella loro inconciliabilità fanno male. Nella prima, lunga e tutta ripresa con camera a mano, padre & figlia si recano a casa di un dottore conoscente vestiti da babbi natale per portare doni alla famiglia del medico, capiamo che la sceneggiata voluta per i nipotini si ripete da anni e capiamo anche che la realtà dei due protagonisti collide con quella benestante in cui si ritrovano a distribuire regali a chiunque, perfino alla cameriera, e la collisione, potente e inesorabile, avviene nella sequenza successiva dove i due consumano la cena di Natale nella cucina sgangherata della propria casa.

Dopodiché, nel suo essere piccolo e ultimo, c’è il cinema: un’inquadratura tsaiana descrive senza parole uno scorcio di solitudine che ha del commovente, nell’immobilità del padre di cui scorgiamo i piedi distesi sul letto, e di Lucía che dietro la porta semi aperta ascolta le registrazioni di quando era bambina, il Santo Natale si imbeve di tristezza. E non finisce qua: poco dopo ancora il passo uno giunge a distorcere la “realtà”, Atallah immette il sonoro esterno (un frinire di grilli) nell’interno domestico, è spaesamento, è la fine che arriva su una dissolvenza in nero, ma prima c’è un’ultima cosa da vedere, due occhi lucidi prossimi al pianto.

lunedì 23 dicembre 2019

Surire

Da Twentynine Palms (2003) a Jauja (2014) passando per chissà quant’altri film che bellamente ignoro, il cinema si è sovente trovato a suo agio in zone desertiche, forse perché è in luoghi del genere che il binario dell’uomo, sempre così solo!, e quello dello spazio, sempre così vasto!, arrivano a sfiorarsi in scintille che spesso hanno illuminato. Con Surire (2015) si aggiunge un altro titolo alla categoria “umanità nel deserto”, anche se, va detto, ci troviamo in un’area più documentaristica rispetto alle due pellicole sopramenzionate, il lavoro compiuto dal duo semisconosciuto (almeno dal sottoscritto) Iván Osnovikoff e Bettina Perut si colloca geograficamente sul Salar de Surire, un deserto di sale bianco ubicato nel Cile settentrionale al confine con la Bolivia, mentre cinematograficamente stende sullo schermo una triplice concatenata veduta: il ritratto autoctono di alcuni villici che parlano una lingua dimenticata e abitano in capanne alla fine del mondo, lo stallo naturale di un paesaggio coperto dal silenzio (è un dettaglio che colpisce: il silenzio esteso ed imperforabile), gli unici segni di un’attività “moderna” come quei camion-micro machines che ogni tanto scompaiono ed appaiano nel biancore del panorama. I primi due aspetti sono comunque quelli che più caratterizzano l’opera, l’accenno alle estrazioni di sale e al via vai dei tir è giusto un contorno che si apprende soltanto da un punto di vista esclusivamente visivo.

Quindi focalizzazione sugli esseri umani in un habitat di struggente bellezza ma non troppo funzionale in quanto a vivibilità, e allora vediamo (anzi: leggiamo) le rughe di questi vecchietti come gli anelli degli alberi e possiamo immaginare, grazie al cinema, della traiettoria che la loro esistenza ha preso fin dall’inizio, non una vita facile si noterebbe, sebbene in fondo ci si può chiedere: chi è l’uomo occidentale e quali titoli possiede per giudicare la vita altrui? Surire si chiude non credo a caso sull’immagine di alcuni turisti che non paiono minimamente connessi con l’ambiente, alcuni sfrecciano in bicicletta altri si preparano a fare un tuffo in un laghetto, però la loro vita sarà così facile…
Al di là di sterili elucubrazioni esistenzial-relativistiche, parlando di facilità non si può non citare quanto alla fine sia stato agevole per Osnovikoff e Perut girare Surire, e non mi riferisco alle trafile burocratiche o a quelle economico-tecnico-logistiche che indubbiamente avranno impegnato tutto il team produttivo, quanto al fatto che lungometraggi così si autosostentano da soli, hanno soltanto bisogno di quella consona professionalità che fornisca loro una degna cornice e poi per il resto esistono tranquillamente da sé, il loro tasso di fascinazione che esprime un esotismo magnetico è lì dalla notte dei tempi e lì rimarrà, con o senza dei piedi vicini alla calcificazione che calpestano il suolo riarso. Voglio dire, in sostanza, che nel pieno rispetto dell’attività registica qui ci sono molte istantanee suggestive la cui grazia è al massimo registrata dal cinema e riproposta di riflesso allo spettatore, il che è accettabile, soprattutto se fatto con una certa attitudine contemplativa, però… eh, posso continuare a sparlare ad oltranza ma il fatto è che Surire sembra una versione un po’ meno laccata del cinema di Brosens & Woodworth, molto stile, non abbastanza cuore.

venerdì 20 dicembre 2019

The King's Body

Un po’ gioco, un po’ esperimento, un po’ indagine sociale, un po’ lezione di storia, se sostenevo che il coetaneo Manhã de Santo António (2012) era l’oggetto più particolare dell’intera filmografia rodriguesiana era perché non avevo tenuto conto di O Corpo de Afonso (2012), un titolo che definire originale è una sminuente banalità, sebbene vera, che si struttura come casting ad un gruppetto di uomini spagnoli, perlopiù culturisti (uno dei pochi a non esserlo avrà poi un piccolo ruolo in The Ornithologist, 2016), che potrebbero rappresentare fisicamente, e a loro completa insaputa (da quel che si evince sono stati chiamati lì senza ricevere particolari informazioni specifiche), il primo re del Portogallo, Alfonso Henriques detto il Conquistatore, un sovrano il cui aspetto, ad oggi, pare incerto e mitizzato, così recita la sinossi del film, nei secoli successivi. Il motivo per cui Rodrigues abbia voluto compiere questo strambo cortometraggio sfugge all’italiano scrivente, come sfugge, ad esempio, la scelta di provinare soltanto persone provenienti dalla Spagna. Ma ci saranno delle ragioni, presumo. Non sfugge, invece, un senso di forte antitesi che ipotizzo fosse in cima alla lista degli obiettivi del regista per cui grazie al bizzarro connubio uomo + sfondo green screen si genera un netto stridore visivo al quale si lega una faglia concettuale ancora più profonda: coloro i quali dovrebbero rappresentare una quasi leggenda sono degli individui volgarotti che faticano a leggere i brani a loro affidati.

Che João Pedro Rodrigues sia da sempre affascinato dal corpo maschile è un dato precedentemente assodato, qui, dove le possenti membra degli aspiranti Re si prendono il palcoscenico, poteva esserci il rischio di ridurre il settore-significati ad una ostentazione infondata di pettorali depilati, in realtà siamo parecchio lontani da un’esposizione fine a se stessa e d’altronde non c’era di che insospettirsi, il portoghese è un cavallo di razza e anche da un’ impasse teorica ne esce a testa alta per merito di un’ironia sottile che crea complicità con lo spettatore: i candidati non sanno il vero motivo del perché si trovano davanti ad una videocamera, mentre noi sì e ciò li rende ai nostri occhi goffi e, mi permettano, un filo stolidi in quanto si raccontano per quello che effettivamente sono, esseri umani in cerca di una continua e superficiale esteriorità, ma pur sempre uomini, lato che Rodrigues afferra e che risulta la possibile chiave di O Corpo de Afonso, chiaro che non c’è spazio per una ricerca introspettiva, ma le brevi testimonianze dei bellimbusti arrivano a far riflettere: a tratti ci percepiamo intellettualmente superiori, ma questo pallone gonfiato avrà mai letto un libro?, mentre a tratti troviamo dei punti di contatto che ci riportano ad un medesimo livello, e queste parentesi esistenziali sono quanto si ricorderà dell’opera, sicuramente più di Re Alfonso che legittimamente continuerà ad appartenere alla Storia.

mercoledì 18 dicembre 2019

Homo Sapiens

Per quanto mi riguarda il nome di Nikolaus Geyrhalter era, fino a qualche ora fa, quello di un perfetto sconosciuto, ma andando a leggere il suo denso curriculum in rapporto ad un’età relativamente “giovane” (è nato a Vienna nel ’72) facciamo conoscenza con un documentarista che sembra avere girato dei titoli sulla carta abbastanza interessanti, e non stupisce allora che questo film, presentato a Berlino ’16 dopo quasi un lustro di lavorazione, sia un oggetto anomalo e dalle sfiziose premesse. Homo Sapiens (2016) è un’opera che inanella per tutta la sua durata immagini in giro per il globo di luoghi eretti dall’uomo e ormai abbandonati, e pur non avendo coordinate in quanto non vi è alcuna descrizione sulle location, si intuisce che il depliant è planetario poiché Geyrhalter rimbalza da zone ex-sovietiche (l’apertura e la chiusura è fornita dal gigantesco monumento di Buzludzha in Bulgaria) ad altre orientali (sicuramente Giappone) e ad altre ancora che non hanno una precisa collocazione geografica, il che contribuisce a creare uno stato filmico di “sempre e ovunque” che abbatte i confini fisici per ritrarre uno spazio a se stante, un memoriale dell’abbandono, un’elegia dello sfascio, perché nelle rovine di un McDonald’s, di un parco giochi, di un ospedale, di una chiesa o di una prigione, nella loro solitudine abitata da fantasmi, si intrasente il ricordo di ciò che fu, ed è qui che Geyrhalter pone il suo centro concettuale, Homo Sapiens è un film sull’essere umano senza esseri umani, è un occhio che arriva dieci, venti, cento anni dopo la scomparsa delle persone e che in un certo qual modo trasla il film dal genere documentario a quello post-atomico.

Assodata l’assenza dell’uomo sapiente (definizione alquanto opinabile), il regista spinge parecchio sull’idea di una natura come unica possibile sopravvissuta nei secoli a venire, ciò si desume grazie ad un preciso lavoro nel campo sonoro implementato da un editing che intensifica e sovrappone certe manifestazioni naturali, pertanto la concezione di una corruttibilità dell’artificio umano è certificata dalla lenta ma implacabile invasione della Natura sottoforma di muschio, acqua, vento, erbacce, sole ed uccellini (gli unici animali del creato con cui avremo a che fare) che zelanti penetrano nelle macerie del cemento armato per farle proprie, per deumanizzare, inconsapevolmente, il manufatto. Se vogliamo tale movimento purificante può portarci molto lontano, nelle zone della teoria cinematografica dove la necessità di un processo definzionalizzante è un’urgenza a cui non ci si può sottrarre ed il richiamo a forme originarie nelle quali trovare comunque degli spunti estetico-narrativi dovrebbe essere l’obiettivo di chiunque si considera un autore. Ad ogni modo non credo che Geyrhalter abbia messo in preventivo un discorso così ampio, per cui è opportuno asserire che: oggettivamente trovo parecchio stuzzicante l’idea di mettere una mdp nel mondo e lasciare che la realtà diventi cinema, non ci sarebbe niente di più facile e al contempo di più difficile, tuttavia Homo Sapiens non si posiziona esclusivamente su queste frequenze, facendo fede al proprio diktat di riprendere posti in decadimento si autolimita proponendo un tour sicuramente suggestivo e affascinante ma anche un po’ statico, l’impressione è che non ci sia un’espansione così ampia al di là di quanto si vede, stabilita l’antitesi tra titolo e argomentazione è faticoso rintracciare un oltre. Resta il fatto che questo Geyrhalter, avendo più tempo e più voglia, sarebbe da approfondire.

lunedì 16 dicembre 2019

La favorita

La favorita (2018) era il film che ci voleva, per Lanthimos si intende, e per il suo cinema che, secondo le acutissime e brillatissime analisi del sottoscritto, si era ormai infilato in un tunnel di autoimposizioni formali e semantiche, la formula era: arrivo al significato per mezzo di paradossi metaforici, sempre. Per tali ragioni parlando sia di The Lobster (2015) che de Il sacrificio del cervo sacro (2017) auspicavo nel percorso del regista greco un cambio di direzione o almeno una piccola svolta che scuotesse un poco la sua carriera. Ebbene, la svolta in effetti c’è stata, non è un cambiamento radicale ma The Favourite è un film che rinnega il passato pur mantenendo, comunque, un filo consanguineo con le opere precedenti. In questo senso le parole di Marco Catenacci (link) mi trovano perfettamente d’accordo: “nei crudeli giochi di potere al femminile che animano il nuovo film di Lanthimos infatti, la dimensione allegorica del racconto è certamente presente, ma non finisce mai per sottrarre energia a quel sincero e divertito gusto per la narrazione che finora era rimasto piuttosto estraneo al cineasta greco”. Quindi continuità ma anche distacco. Detto ciò, non riesco affatto ad esaltarmi per un prodotto del genere, il fatto che si batta su quel gusto per la narrazione appena citato mi fa venire un po’ i brividi, e non di piacere.

Perché se andiamo ad analizzare, ma anche solo a soffermarci giusto qualche minuto sullo script della pellicola, non possiamo negare che la storia si fondi su delle peculiarità tipiche da sceneggiato televisivo in costume. La vicenda parabolica della serva rampante che grazie a cinismo e intelligenza riesce a balzare dal fango (be’, qua la metafora non c’è proprio, Emma Stone si presenta alla corte dopo essere finita in una pozzanghera) all’élite della borghesia si dipana attraverso un susseguirsi di astuzie e trabocchetti da romanzo d’appendice. Nulla di male se non fosse che tali schemi narrativi sono vecchi, ma vecchi davvero, e non possono che amplificare il diametro della nostra bocca durante i reiterati sbadigli. Che poi no, durante La favorita non si sbadiglia perché Lanthimos non è di sicuro uno sprovveduto e sa vivacizzare il film a modo suo nei seguenti termini: sebbene sia evidente l’appoggiarsi ad uno scheletro vetusto si fa fatica a considerare quest’opera di genere storico, ok l’ambientazione d’antan e quanto ne consegue, però a quella veridicità filologica e a quel rigore che ci si aspetterebbe di trovare si sostituisce una vena dislocante punteggiata da scelte che trasportano il film nel contemporaneo (si vedano le danze anacronistiche o lo stesso linguaggio usato nei dialoghi, non credo un esempio d’autentico favellare settecentesco).

Ognuna di queste scelte in contrasto con l’epoca inscenata si riconducono ad un’ironia che Lanthimos, come sappiamo, sa maneggiare con professionalità. Non è il sarcasmo corrosivo a cui ci ha abituato ma è comunque il deterrente che permette all’autore ellenico di salvarsi da critiche altrimenti a maggiore tasso di spietatezza. Si potrà dire, non a caso, che: ah ma nella Favorita persiste un’aria da commedia acida che trasmette esattamente la modernità a cui il regista tende. E vabbè, diciamolo pure ma non riesco a stracciarmi le vesti per qualche trovata non convenzionale correlata al quadro storico di riferimento. Men che meno sono rimasto particolarmente impressionato dal nocciolo argomentativo di tutta la faccenda che è, ed eccoci al ritorno del buon vecchio Yorgos, un’allegoria sul potere, o meglio sul potere agognato dagli esseri umani. A parte l’ultimissima sequenza che apre interrogativi perché, finalmente, è una scena libera dalla scrittura e dove forse si palesa un’orrenda verità (il potere rendere dipendenti: sia per chi lo esercita e forse anche per chi lo subisce), la diatriba tra Lady Sarah e Abigail a colpi di inganni è pura illustrazione votata ad un banale ribaltamento delle prospettive, la Weisz non è così cattiva al pari della Stone che non è (affatto) così buona.

In definitiva il mio consiglio spassionato è: guardate le ultime prove di Albert Serra per capire dove e quanto il cinema può essere attuale pur allestendo film che viaggiano in luoghi e tempi molto lontani da noi.

lunedì 9 dicembre 2019

Washingtonia

Ha stoffa Konstantina Kotzamani, lo sapevamo da prima con Pigs (2011), lo sappiamo ancora di più adesso con le precipue visioni di Limbo (2016) [1] e Washingtonia (2014), altra tappa di un viaggio autoriale per cui si attende con grande speranza un lungometraggio di debutto, nel frattempo, concentrandoci sul quinto corto della regista nata a Komotini, una regione della Grecia limitrofa alla Bulgaria, si può annotare uno stile che tange un certo cinema europeo che potrebbe far capo a quel vecchio satanasso di Ulrich Seidl (come riportato dall’articolo biografico su Lo Specchio Scuro, link) o anche, ma in modo meno evidente, a quello di Pedro Costa per l’intenzione di voler ritrarre in un contesto occidentale elementi così esotici. In realtà al di là di tali suggestioni (che non sono finite, un ulteriore e più superficiale rimando è il primo piano della giraffa che fa parecchio Bestiaire, 2012) quello che si profila è un cinema personalissimo equipaggiato di un’estetica qualitativamente rimarchevole e di una forza narrativa, subordinata all’impianto formale, che non è di immediata assimilazione, ciò è un attributo che chi scrive giudica positivamente e che rappresenta il fulcro del fare-Kotzamani. Ce lo aveva già suggerito Pigs con tutto il suo impatto visivo, l’autrice ellenica sa dare gli input giusti allo spettatore senza che vi sia una consequenzialità netta degli eventi, delle cose accadono, a volte in maniera inconciliabile a volte no, eppure un flusso, un canale, un’energia si crea comunque da dove è facile, nell’ossimoro di una complessità a cui non si è mai preparati, captare la Visione piena, quella che abbraccia i significati nascosti sotto un’eccellente superficie.

In Washingtonia la strada è sghemba, dislocante: il narratore interno (un personaggio, appunto, costiano) descrive in francese con dovizia naturalistica le caratteristiche strutturali delle giraffe e delle palme, il set, intensificato da caldi tramonti, ci trasmette un “senso d’Africa” per poi virare sull’effettiva location greca del girato, inoltre esseri umani a dir poco bizzarri si rapportano a fatica tra di loro, madre e figlio, madre e cani: c’è, attraverso metodi e tempi adeguati, un qualcosa dentro al film che mira alla profondità da una posizione laterale, spostata di qualche metro, ed il risultato, che palpita nella materia grigia spettatoriale, non lesina uno slancio poetico evidenziato dalle varie recensioni in Rete: la Kotzamani, sebbene sottotraccia, compie un parallelo interiore tra gli organi vitali di tre regni esistenziali: animale, vegetale e umano dove il muscolo cardiaco di ognuna di queste tre realtà è messo sotto scacco da elementi superiori (l’afa estiva che non permette di sentire il ritmo cardiaco della giraffa; il malefico punteruolo rosso che punta al carnoso cuore delle palme; il disamore della mamma per il proprio figliolo in favore di un amore... cinofilo), ciononostante il battito non muore e nella scena gemella conclusiva possiamo udire la pulsazione che si diffonde sullo schermo. Quale sia la necessità di quanto appena interpretato (col beneficio del dubbio come ogni esegesi che si rispetti), non saprei dirvi, a volte fa semplicemente piacere che certi manufatti artistici esistano per ridestare l’inessenziale stato di meraviglia che il cinema può stimolare.
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[1] Lultima immagine di Washingtonia con la testa giraffesca che sbuca da fondo video sul cielo azzurro è praticamente la prima di Limbo con un cambio del soggetto ripreso.

venerdì 6 dicembre 2019

The Shine of Day

Più finzione che realtà rispetto a Non è ancora domani (La pivellina) (2009), eppure non si tratta di normale “finzione finzione”, è, piuttosto, un atto che depura il cinema da quei codici che lo rendono un manuale algoritmico, ma non del tutto!, un canovaccio, anche se flebile, è ben presente così come la tensione verso una risoluzione finale, omessa, evviva, e al contempo intuibile. La coppia Tizza Covi und Rainer Frimmel giunge a Der Glanz des Tages (2012) in queste condizioni artistiche, siamo in un campo battuto oltremodo da altri colleghi che negli ultimi anni ci hanno fornito numerose declinazioni similari, come se il documentario fosse ormai un genere esploso in derive che hanno soppiantato la messa in scena, ne consegue che lo stage può essere ogni giorno la vita che si vive e basta mettere una videocamera sulle tracce di qualcuno che un film ha la capacità di fiorire dal nulla: uno zio residente in Italia va a trovare il nipote attore ad Amburgo, i due registi danno il la alla loro sinfonia minima(l) senza ulteriori spiegazioni ed anche il prosieguo ci fa intendere più che illustrare, il che è bene, o per andare di litote, non è poi così male: un impianto semplice che si percepisce tale poiché scevro di una marcata composizione ma che non è una semplificazione, una riduzione, una miniatura, anzi, forse è grazie al suo procedere in sordina che quanto appare lineare e vero sa affrontare a viso aperto e senza onanismi autoriali grandezze che formano e deformano l’esistenza.

L’ovvio preambolo è che, insomma, Film non è in codeste lande che io posso incontrarti, e dopo la virgola The Shine of Day (ammettiamolo: è proprio un bel titolo) sembra essere attratto, e di rimando noi con lui, da certe funi consanguinee che mozzate e riannodate paiono condannate ad un destino gramo, si staglia, allora, un concetto di famiglia mutuato da La pivellina dove tre satelliti maschili (Walter, Philipp ed il moldavo) ruotano intorno ad un pianeta vuoto che nemmeno riconosco più ma di cui serbano ancora profumi e dolci ricordi, ognuno in fondo cerca soltanto una prossimità verso un affetto lontano (dei tre l’unico ad apparire più emancipato – almeno in apparenza – da questo sentimento nostalgico è Philipp, lo si intende dal dialogo chiave con lo zio sotto la neve) e tutto ciò Covi e Frimmel ce lo suggeriscono fievolmente attraverso il loro ordito reale punteggiato da piccole intensificazioni. L’intreccio ci porta poi ad uno scioglimento che, nuovamente al pari de La pivellina, tratteggia un maquillage famigliare dove i canonici ruoli genitoriali si fanno da parte per dare spazio ad una fratellanza e ad un’umanità che potrebbe essere una valida lezione per chi erge muri sui propri confini, e qui nel finale fa un po’ capolino quel discorso di una rappresentazione resa più netta (la partenza di Walter verso la Moldavia non risulta sbrigativa?) a scapito del registro maggiormente utilizzato. Ci sarebbe poi da sottolineare che l’inesauribile tema realtà vs. finzione è un altro topic che l’opera affronta per mezzo di Philipp e del suo mestiere che lo fa vivere costantemente su un palco anche quando è a casa, non ci sono i margini per un grande svisceramento, però della roba da afferrare, unita a quanto detto in precedenza, rimane riscontrabile a visione ultimata.

mercoledì 4 dicembre 2019

Jeannette: The Childhood of Joan of Arc

Non era impossibile che la strada artistica di Bruno Dumont incrociasse prima o poi la figura di Giovanna d’Arco, non lo era perché buona parte della filmografia firmata dal regista francese è scossa da una faglia sismica che ha ipocentro in concetti legati alla fede e alla spiritualità, non si è mai trattato di veri e propri manifesti pubblici, piuttosto di letture sottili su cui ragionare a dovere e su cui eravamo sempre in dovere di ragionare. Del recente percorso di Dumont si è scritto affrontandone i lavori degli ultimi cinque o sei anni, il sottoscritto non si è mai convinto appieno delle svolte intraprese arrivando a ritenere che la pellicola precedente a Jeannette, l’enfance de Jeanne d’Arc (2017), ovvero Ma loute (2016), rappresenti, ad oggi, il film più debole dell’intera carriera. Quindi, il fatto che ci sia stato un riavvicinamento a tematiche religiose (con tutto ciò che può voler dire) è già di per sé una buona notizia poiché Dumont sa trattare l’argomento da vero fuoriclasse nel panorama cineautoriale. L’altra faccia della medaglia è data però dall’approccio che ha deciso di utilizzare, dopo una vita fatta di austerità l’ex professore di filosofia ha improvvisamente aperto i battenti alla commedia per P’tit Quinquin (2014) e al già citato Ma loute, evidentemente non pago di siffatti registri per Jeannette ha alzato ulteriormente il tiro decidendo di esplorare un territorio che mai ci saremmo sognati di associare al suo nome: il musical. È una scelta coraggiosa perché di sicuro non parliamo di un genere capace di sedurre il pubblico, né il grande né quello di nicchia, tuttavia, parlando a titolo personale, è una decisione che ho apprezzato, non troppo nella sua riuscita globale quanto nell’idea che la sottende perché numero 1 non si può negare che il prodotto abbia scampoli di originalità e numero 2 qui la comicità miscelata con gli inserti musicali si dà in altre forme, più oblique e meno ordinarie.

Il set prende vita nella sua pressoché interezza in un paesaggio collinare piuttosto sabbioso che potrebbe benissimo essere la Palestina piuttosto che la Francia, l’introduzione della piccola Giovanna delinea da subito i connotati del film, la giovane protagonista entra di diritto nelle “illuminate” di Dumont volgendo il suo sguardo verso l’alto, verso lo stesso sole che accarezzava la Binoche di Camille Claudel 1915 (2013) e con lo stesso trasporto emotivo che scaturiva dai primi piani di Céline in Hadewijch (2009), certo è che quell’indagine sulla trascendenza in Jeannette non trova asilo, il motivo lo si deve al fatto che il taglio del musical si espande in ogni direzione possibile riempiendo anche quelle zone altrimenti oggetto dei nostri interrogativi. Vieppiù che il film sotto esame è sì un musical ma, fortunatamente, parecchio sui generis e, alla fin fine, lo struggimento personale di Giovanna, il sacro fuoco che le arde dentro, la devozione verso Dio e quant’altro può venire in mente in relazione a questa eroina, sono elementi che non si stagliano mai sull’apparato scenografico-formale edificato dal buon vecchio Bruno e dai suoi collaboratori. Forse mi sbaglierò ma l’impressione che si ha a visione ultimata è quella di un’opera più leggera rispetto a quanto prometteva, l’atmosfera generale è, in ogni frangente, tendente al grottesco, prova ne è che il nucleo calamitante dell’opera, la musica, stride con la cornice storica, ma di brutta maniera: si viaggia tra il rock e l’elettronica, ed anche i balletti non hanno nulla di ortodosso, sono volutamente ridicoli (c’è perfino un tizio che fa la dab!), moderni ma maldestri.

Di fronte a siffatto impianto le faccende di fede scivolano un po’ in secondo piano, e non è un delitto pensare a Jeannette in termini parodistici (a tal proposito va citato anche il bizzarro incontro con i tre santi), se non addirittura autoparodistici dove il primo a non prendersi sul serio sembra proprio Dumont stesso. A questo punto è obbligatorio chiedersi se una tale variazione sul tema che non dico azzardata però poco ci manca, possa soddisfare quel palato che, quando si parla di Dumont, ha ancora l’acquolina in bocca per il cinema che fu. La mia opinione è che ragionando in termini di aspettative si rimane immediatamente delusi, difficile aspettarsi di vedere un aggiornamento de L’umanità (1999), bisogna piuttosto accettare la voglia di prendersi dei rischi da parte di un autore che ci ha dato molto, e in Jeannette di rischi Dumont se ne assume in quantità, tanto che, detto fuori dai denti, il film è vicino ad affogare nella logorrea dei suoi dialoghi e nel susseguirsi di coreografie musicali che esauriscono presto il proprio fascino. A prescindere da ciò sono comunque moderatamente contento dell’esistenza di Jeannette: The Childhood of Joan of Arc, sebbene la sua fruizione non sia stata appassionante né mi abbia schiuso chissà quali porte teologiche, il messaggio che dà è quello di un Dumont intenzionato a non adagiarsi su formule improduttive e questo mi sembra un monito importante per l’avvenire.

lunedì 2 dicembre 2019

Montanha

Era pronosticabile che João Salaviza, nato a Lisbona nell’84 e già insignito di Palme e Orsi, giungesse finalmente ad un lungometraggio di debutto, come era altrettanto pronosticabile che tale debutto mostrasse una forte coerenza con quanto l’aveva preceduto (ad eccezione di Stokkur, 2011) ed il trend del regista in questa direzione lo si evince da una forte continuità tematico-stilistica che parte da Arena (2009) e arriva fino a Montanha (2015): case, palazzoni, teppistelli affacciati su distese di cemento, civiltà periferiche, miseria urbana, famiglie che tirano avanti, figli che vivono la loro micro-ribellione, e quindi, per certificare di come Salaviza operi nel solco dei cosiddetti autori, anche per lui abbiamo diversi film che in realtà sono un unico film, e lo dimostra, a banale esempio, la presenza di Rafael, nient’altro che il protagonista di… Rafa (2012). È un realista Salaviza, uno che filma quello che ha intorno, quello che probabilmente ha sempre visto fin da quando era un bambino, e giusto per darvi delle coordinate lusitane, siamo nelle zone di João Canijo con Blood of My Blood (2011) piuttosto che nelle eccentricità di Miguel Gomes.

E dunque Montanha: coming of age dalle tinte europee, territoriale, metropolitano, opera sull’adolescenza che sbanda: se lo si nota non ci sono guide per David: il padre non esiste, la mamma è un fantasma londinese, il nonno è morente, la scuola rimane fuori campo (come la polizia in Rafa), smarrimento e piccole perdizioni quotidiane riempiono l’esistenza del protagonista al guado tra la pubertà e l’adultità, un periodo complesso da raccontare in cui Salaviza interviene il meno possibile con un cinema che cerca di assottigliare i filtri della finzione, ci riesce non ci riesce: abbastanza, una regola non scritta vuole che comunque ci debba essere anche un rivolo sentimentale che tempestivamente si presenta, perciò ecco un carico affettivo nel pentolone del personaggio-David, esemplare umano nel divenire di una vita che non regala nulla. Ad essere onesti non vi è alcunché di mai visto qui, la settima arte pullula di esempi così ed il merito che possiamo dare a Salaviza è quello di mantenere per tutta la proiezione un contegno generale con cui possiamo entrare in confidenza senza strapparci le vesti una volta concluso il tutto.

Perché ad essere ancora più onesti nella composta messa in scena il disorientamento di David non arriva ad investire come in principio poteva essere, la gamma di situazioni melodrammatiche, l’intreccio espositivo e l’analisi socio-emotiva dei soggetti ripresi, rientrano in una dimensione vagamente ordinaria, non indecorosa ma nemmeno entusiasmante. Occhi ben puntati sulle rifiniture estetiche invece, siamo sempre in un’area realistica, certo, ogni tanto però le riprese notturne ci fanno penetrare nell’ambra delle notti afose portoghesi dove la penombra sudaticcia fibrilla il defluire serale dei “piccoli-uomini” che popolano Montanha, sono momenti da ritagliare, intimi e caldi, da portare con sé per qualche giorno, per qualche ora. Dramma sì allora, mimetizzato nella realtà dei giorni che passano, lavoro tenue e non indimenticabile, gravido fino ad un certo punto, quello di incontro con altri film similari, come si dice oggidì: bene, ma non benissimo.

giovedì 28 novembre 2019

Distants

Siamo in un’Estonia in bianco e nero dove due pescatori, padre e figlio, si preparano per una battuta di pesca, ma durante la cena il dialogo, fino a quel momento latitante, si surriscalda, ecco un indizio che un al tempo ventisettenne Janno Jürgens ci dice: tra di loro il sangue in comune non scorre come dovrebbe, e, sempre come non dovrebbe, l’impianto che ci propone questa diatriba famigliare è troppo modesto per poter far scattare quella scintilla visiva di cui abbiamo sempre bisogno, si intuisce, poi, che la riottosità del vecchio e l’annessa ostilità del giovane sono elementi funzionali alla storia e che quindi è altamente probabile un rovesciamento di tali assunti, e pur non essendo dei veggenti è proprio quanto avviene, ma vabbè, coraggio e sfilettiamo quella poca carne che il segmento centrale di Distants (2012) offre. Poi improvvisamente il corto cambia pelle! Lo sgomento è di breve durata però: in mare aperto (o lago, non si capisce) Jürgens tenta la strada dell’atmosfera andandoci giù pesante con la fog machine e con virate decise della mdp a mo’ di uccello che volteggia intorno alla barca, di contorno viene intensificato anche l’apparato sonoro con distorsioni metalliche di vario genere, probabilmente il regista aveva intenzione di edificare una cupola tensiogena sul duo marinaro e in effetti non gli si può negare il tentativo, il risultato tuttavia è un po’ così, un po’... visto e stravisto, e non si ha nemmeno la voglia di infierire troppo di fronte alle circonvoluzioni volanti che urlano “ehi qui c’è qualcosa incombe!” o al succo dell’opera che, come pronosticato, ribalta il rapporto prole-genitore, no, e infatti divago un attimo prima di fare la cosa che più mi piace: svanire.

Niente, riflettevo a cosa possa pensare un regista wannabe tipo Janno Jürgens che magari ci mette tutta l’anima nel suo lavoro attraverso raccolta di fondi, investimenti su attrezzature, reclutamento personale e relativa cagnotta, e poi un bel giorno ritrova la propria opera su un blog o un sito qualunque in cui gli si dice che non ci siamo, che di robe così ne è pieno l’universo cinematografico, che, cinque minuti dopo la visione, Distants o chi per esso sarà dimenticato in un baleno, deve essere oltremodo frustrante, e se aggiungiamo che nel Web-tempo tutti possono essere critici, un progetto che mettiamo sia stato contemplato da anni viene disintegrato nel giro di alcune svogliate righe, le stesse del primo paragrafetto. Ora, Jürgens, a meno che non sappia o che non impari l’italiano, vivrà benissimo senza il mio giudizio e gli auguro di migliorarsi e di trovare altri festival che lo supportino (qui fu Locarno), tuttavia continuo a chiedermi quale sia il confine che una persona dedita alla cinescrittura deve tenere a mente: ha senso sparare a zero sul prodotto di un principiante? Vedendo le foto del backstage sulla pagina IMDb del film (link) verrebbe quasi da dire di no, che l’impegno e la dedizione mitigano anche una riuscita complessivamente biasimevole, però questo non è il cerchio dell’amicizia per cui rincaro: sì, ha senso scriverne male perché è l’unico modo che abbiamo per riscattare il tempo perduto durante la proiezione.

lunedì 25 novembre 2019

L'amore imperfetto

Un ventinovenne Giovanni Davide Maderna firma nel 2002 (o nel 2001 in base ad alcuni siti) la sua opera seconda dopo Questo è il giardino (1999), e senza aver potuto visionare l’esordio ma avendo assistito al Maderna che verrà, si può notare che il regista milanese, almeno ne L’amore imperfetto, all’inizio ha perseguito un modello di cinema disinteressato alle potenzialità insite nella forma per concentrarsi pressoché esclusivamente sugli attributi tramici, e questo non è mai un bene perché, ed è sempre il solito tedioso discorso, di cinema del genere se ne produce in quantità sufficiente a soddisfare il palato degli spettatori medi, a noi che cerchiamo di spingerci oltre il conoscibile proiezioni di tal fatta lasciano un deludente sapore insipido. Ci sono alibi come l’acerbità di Maderna che comunque nel suo piccolo propone un lavoro anche decorso, o come il periodo di tempo intercorso dalla data di uscita ad adesso in cui la settima arte si è così evoluta da rendere, oggi, L’amore imperfetto un prodotto quasi giurassico, e ci sono anche difetti come un dilatato torpore in cui la storia è calata, e ciò non riguarda la ricerca di un minimalismo da parte del regista quanto l’assenza di quell’intensità che anche registri più asciutti hanno saputo regalarci in passato, ecco tale carenza energetico-emozionale è ciò che ha maggior peso, più di un cast disomogeneo (legnoso Lo Verso, meglio la Belaustegui) e più di alcuni scambi dialogici davvero rigidi, freezati dalla finzione (quando il poliziotto fa apprezzamenti su Angela o nel flashback in macchina tra Sergio e la ragazzina suicida… brrr).

Quindi scordiamoci l’intraprendenza di Cielo senza terra (2010) e Carmela, salvata dai filibustieri (2012), forse ciò che Maderna non è riuscito a raggiungere con questo film verrà sfiorato anni dopo da Mirko Locatelli ne I corpi estranei (2013), perché anche nell’Amore imperfetto c’è un approccio, sebbene non convincente al 100%, ad un concetto arbitrario come la fede al quale si collega l’eventualità del miracolo, purtroppo non ci si spinge in aree di trascendenza, e, c’entrerà poco, ma essendo che  il direttore della fotografia era Yves Cape (collaboratore stretto di Dumont), il tutto poteva essere gestito meglio nella direzione “oltre il concreto”, concretezza che è invece l’aia in cui la pellicola razzola maggiormente dividendosi tra una pista semi-investigativa, un’altra politica con i risvolti legati alle implicazioni etiche della coppia verso il figlio, e un’altra ancora drammatico-sentimentale con esplorazione (poco profonda) della tragedia genitoriale sullo schermo, scontato rimarcare che nessuna delle tre tracce, men che meno la prospettiva spirituale, sanno incidere realmente: l’incedere sottotono, il non raggiungimento di una piena verticalità e una maturazione stilistica ancora da venire, non hanno reso indimenticabile L’amore imperfetto né ne legittimano un recupero odierno.

giovedì 21 novembre 2019

Det er meg du vil ha

Appare come un’escrescenza di I Belong (2012) questo Det er meg du vil ha (2014), mediometraggio dalla semplice impostazione: una donna parla e Dag Johan Haugerud la riprende, e di “cosa” parli la suddetta signora (che è Andrea Bræin Hovig, già vista nel film precedente) ce lo anticipa la breve sinossi di IMDb: “what would you say about a female teacher falling in love with a 15-year-old?”, quindi pronti ad aprire un forum sul confine tra attrazione e amore con spruzzate di considerazioni etico-sociali, e se non siete pronti poco male, non stiamo affatto discernendo su un’opera che merita il vostro tempo, anzi lo dico chiaro e tondo: non guardatelo, non ha senso, non sprecatevi su oggettini del genere, credo che per affrontare questioni così scomode come la relazione intima tra una professoressa ed un suo alunno non si possa utilizzare il cinema né altre forme d’arte per esporre i vari punti di vista, basta la tv, al quale Det er meg du vil ha in un qualche modo si rifà consapevolmente imbastendo una falsa intervista dotata di piccoli accenti autoriali (l’incipit caleidoscopico; l’action del director; gli intermezzi a colori).

Il racconto frontale segue poi un trend piuttosto predicibile dove l’insegnante si autoanalizza di fronte a chi guarda e soprattutto ascolta il flusso soliloquiale composto da una progressione di tappe che nulla smuovono: crisi col fidanzato alle soglie del matrimonio e contemporanea conoscenza del quindicenne Daniel il matrimonio non ripara niente e acuisce ancora più le difficoltà della coppia inizio frequentazione col ragazzino, e il resto lo si intuisce facile. La storia si dimostra blanda ed è arduo andare oltre il punto di vista della protagonista, la sua video-confessione non ha una capienza effettiva, non concima possibili ragionamenti, la si subisce nello stesso modo in cui si prendono appunti in una tediosa lezione universitaria: svogliatamente. Privo di un contenuto appetibile e costituito da una forma che non accende il minimo entusiasmo, Det er meg du vil ha si riduce in definitiva ad una performance attoriale, ditemi voi se possiamo parlare di cinema allora…

giovedì 14 novembre 2019

Black Village

Lutz Bassmann
2019
66thand2nd; 212 p.

Avvilito, Quantz andò col pensiero a un irritante romanzo post-esotico che aveva letto qualche anno prima in prigione, la storia di un viandante che non giungeva mai a destinazione e passava la propria esistenza a vagare da un punto all’altro, integrandosi grazie a un travestimento qua, cambiando sesso là, quindi sposandosi con una strega, poi diventando un bandito di strada. Il romanzo, come spesso accade in opere di questo genere, non aveva né capo né coda, e Quantz lo aveva chiuso senza volerne conoscere la fine.

Come non spendere due parole sull’ultimo esemplare post-esotico pubblicato da 66thand2nd nell’ottobre del 2019? Parole che non possono che essere positive (c’era da aspettarselo visti i precedenti) e che necessitano di una premessa: il nome campeggiante sulla copertina è quello di Lutz Bassmann e ormai tutti gli appassionati sanno che questo scrittore non è nient’altro che un eteronimo di Volodine stesso, nulla di eclatante (nel progetto volodiniano, si intende) se ricordiamo che in Italia era uscito nel 2013 Undici sogni neri, libro recante la firma di Manuela Draeger (sebbene alle Edizioni Clichy furono un pochino più pavidi piazzando tra parentesi il padre biologico dell’opera) e che strutturalmente non si discostava troppo da Black Village. Ma a prescindere dai discorsi sulla forma, su cui tornerò sotto, vorrei richiamare la vostra attenzione sull’esplicitazione dell’eteronimia applicata al post-esotismo di Volodine. Ovvero: concretizzando la pubblicazione di volumi con nomi diversi dal suo, Volodine permette a questa corrente letteraria di sbocciare e proliferare anche al di là del proprio volere, se stiamo al gioco, ammesso che sia un gioco, Bassmann e Draeger hanno uno stile personale che si affranca dai lavori sottoscritti da Volodine, e quindi ecco che si attua un processo di inveramento, reale e tangibile (così tangibile che tra poco metterò Black Village nella mia libreria accanto ai suoi simili per arricchire il blocco post-esotico), di un movimento sulla carta esclusivamente finzionale, “sulla carta” in senso figurato perché è proprio sulla carta (stampata) che i testi post-esotici acquistano vita e presenza nel nostro mondo. Non possiamo più nasconderci, il post-esotismo esiste per davvero.

Esiste ed ha una natura proteiforme con tutta una serie di deliziosi canoni e codici interni, veri e propri dispositivi formali che delineano sagome di narrazione composte nel loro nucleo da tematiche comunque altamente accomunabili. Lo avevo già detto quando scrissi del superbo Sogni di Mevlidò (66thand2nd, 2019), Volodine, in fondo, non inventa nulla, piuttosto si sta dimostrando un formidabile re-inventore che lavora su oggetti letterari normali applicandovi il suo inconfondibile marchio. Il discorso è ben traslabile su Black Village, il quale, seccando un po’ l’afflato lirico, non è niente di più e niente di meno che una raccolta di racconti. Ora, Volodine non è nuovo a soluzioni del genere, il già citato libro della Draeger o anche Angeli minori (L’orma, 2016) sono banalmente un insieme di storie poste in sequenza. Lo scarto che li fa allontanare dall’ordinarietà è l’etichetta che Volodine fornisce, che poi non è solo una faccenda di superficie ma è, anche, una messa in scena di segni connotativi. E così abbiamo avuto, ad esempio, i narrat, mentre qui dobbiamo fronteggiare la categoria dei zaconti. L’escamotage per farci leggere trentuno zaconti è semplice quanto bello: tre tizi vagano in una dimensione oscura che forse è una specie di aldilà, per misurare il tempo che passa decidono di raccontars(/c)i delle storie. Il succo delle suddette storie è ovviamente nero e bituminoso (aggettivo calzante che rubo dalle ultime pagine) e possiamo ritrovare molte delle ossessioni che ci hanno accompagnato in questi anni di avventure post-esotiche. Il sottoscritto, pur ammettendo una certa ripetizione, di Volodine non ne ha mai abbastanza per cui ben vengano questi surreali spaccati di estrema desolazione da leggere tutti d’un fiato. È chiaro che come sempre accade in una raccolta non tutti i testi hanno la medesima presa, però mi sento di dire che si può rimanere soddisfatti anche perché sussiste l’eventualità di un dialogo tra i zaconti stessi, si noti che il numero 4 ed il numero 32 sono l’uno la continuazione dell’altro ma è possibile che mi siano sfuggiti ulteriori collegamenti. Il confronto poi esce dal libro stesso citando ulteriori riferimenti dell’opus magnum post-esotico, nuovamente: ho il sentore di essermi perso degli agganci ma di sicuro ho beccato il rimando all’elefantessa immortale di Undici sogni neri.

Ho lasciato alla fine un ragionamento sulla peculiarità principe del zaconto. Per farlo mi riallaccio al concetto del Volodine re-inventore perché qui abbiamo delle storie che non hanno una conclusione, o meglio, una conclusione ce l’hanno ma è letteralmente mozzata in modo che non vi sia uno scioglimento delle premesse fatte. È una trovata che non può considerarsi rivoluzionaria, personalmente mi sono sovvenuti almeno altri due episodi di troncatura del finale nel panorama letterario recente e non, lo ha fatto Wallace ne La scopa del sistema e, andando ancora più indietro, lo ha fatto anche Kafka che si è divertito con Il castello a lasciarci con un palmo di naso arrivati all’ultima pagina. I paragoni non sono forse troppo calzanti perché la scelta di Volodine è sistemica, le sue narrazioni possiedono una cifra quasi provocatoria laddove le linee di costruzione non hanno necessità di canalizzarsi in un preciso compimento, sono addizioni di numeri estranei a cui riusciamo a dare un valore impreciso, potrei dire che i finali saremmo in grado di scriverli noi lettori con la nostra immaginazione rinvigorendo la connessione instaurata col libro, ma non ne sono troppo convinto, del resto

[nota a margine di Black Village in quanto prodotto acquistabile in libreria o dove vi vien più comodo: questo autunno è, ed è stato, dal punto di vista delle uscite editoriali semplicemente clamoroso per i miei gusti di lettore. In pratica le cose sono andate così: a settembre minimum fax ha ristampato Storie della farfalla di Vollmann (bello, più bello nelle ultime trenta/quaranta pagine), poi a ottobre è arrivato il qui presente Volodine insieme alla favoletta illustrata Volpe 8 di George Saunders e a Il ritorno del barone Wenckheim per Bompiani, a conti fatti il primo vero Krasznahorkai letterario non trasposto in alcuna pellicola di Tarr. Infine il 7 novembre sempre 66thand2nd ha riemesso nel mercato italiano Casa di foglie di Mark Z. Danielewski dopo che la prima edizione Mondadori era da tempo fuori catalogo e si trovava solo su eBay a cifre irragionevoli. Quindi, cari ragazzi, io nei prossimi mesi avrò il comodino piuttosto occupato, spero che voi facciate altrettanto]

lunedì 11 novembre 2019

Limbo

È chiaro, in tutta la sua non-chiarezza, marginalità e cripticità di come Limbo (2016) sia scosso nelle viscere da una faglia di origine religiosa che Konstantina Kotzamani sottolinea già con la didascalia iniziale, ma non è solo la possibile rappresentazione di una zona insondabile popolata da anime in bilico, la talentuosa regista ellenica impenna la propria visione verso altitudini escatologiche dove i concetti cardinali dell’umanità si metaforizzano in un impianto sì ermetico ma anche, attraverso procedimenti indicibili e ammalianti, diafano, cristallino, a suo modo rilucente, Limbo, infatti, pur costituendosi in toni violacei e slavati, è una scintilla di cinema d’alta fattura che luccica per il respiro universale che propaga: Dio, la Madonna, gli Apostoli, Gesù, Giona, in realtà non vi è nulla di quanto appena elencato sebbene, sempre in realtà (ma quella fruitiva, che vive nello spettatore), è lampante che vi sia esattamente ciò, e quindi ecco che la Kotzamani costruisce un bolla presepiale senza coordinate che ci chiama e ci respinge, che indica e che nasconde, e credo che al di là di ogni allegoria, sopportabile o meno, bisogna ammirare un’immagine “normale” come la prima che però potrebbe essere il senso dell’intero lavoro: un bambino sborda dallo schermo, ha il colore del cielo dal quale, piace credere, proviene.

E come viene proposto un flusso di argomentazioni così sotterranee, ampie ed inafferrabili? Con uno stile che sembra essersi sgrezzato dell’ubriacante anarchia di Pigs (2011) in favore di un’estesa sospensione, una piega placida venata dall’inquietudine, della madreperla vicina alla crepa. C’è, insomma, un’estetica perfettamente definita e rifinita (le riprese sono durate quattro mesi, tantissimo per trenta minuti di proiezione) che caratterizza un mondo a cui crediamo da subito e che grazie ad oculate scelte, tra tutte l’estromissione degli adulti (che però si intravedono durante la processione ardente), seduce lo sguardo offrendo un album fotografico purgatoriale, la traduzione dantesca di ciò che il Poeta posizionò oltre le Colonne d’Ercole. Valida, inoltre, la scelta di insignire delle vesti cristologiche un ragazzetto albino il cui nitore, una volta giunto al cospetto del nero cetaceo (che deve essere per forza un tributo a Le armonie di Werckmeister, 2000), crea una mini-deflagrazione, un contatto vita-morte tra due entità che il gruppo di bimbi-apostoli non riesce a categorizzare tra i vivi e i morti, e cosa ne consegue è un mistero che forse sconfina nel miracolo, in un prodigio soprannaturale dove una verità che resta è il cinema di Konstantina Kotzamani ed un finale come se ne vedono pochi.

mercoledì 30 ottobre 2019

The Woman with the 5 Elephants

La sinossi di Die Frau mit den 5 Elefanten (2009) è presto detta: ritratto di Svetlana Geier (1923-2010), una donna di origini ucraine che una volta trasferitasi in Germania ha tradotto per oltre cinquant’anni testi della letteratura russa in tedesco, da Tolstoj a Bulgakov per arrivare all’ultimo compagno di viaggio: Fëdor Michajlovič Dostoevskij, l’autore dei cinque elefanti, ovvero cinque corposi romanzi, che Svetlana in una scena del film osserva con un misto tra devozione e rispetto (foto in calce). Ma nel suo dispiegarsi il documentario sa andare ben al di là della questione Geier = traduttrice, e non poteva essere altrimenti perché questa donna porta sulla schiena ingobbita il peso e l’orrore della Storia, delle politiche staliniste, di Babi Yar, delle mitragliatrici della Wehrmacht, e ciò che Vadim Jendreyko riesce a cogliere è comunque una lucidità di pensiero incredibile, una raffinatezza e una dignità che rendono Svetlana una persona bellissima, e non solo perché colta o perché ha dedicato tutta la sua vita alla cultura, ma anche e soprattutto perché amorevolmente fragile come tutti gli esseri umani che sanno pensare, e allora si scorge nella lucentezza del suo sguardo ottuagenario una tensione mai sopita che il regista cerca di perforare con domande scomode che scendono giù nella memoria, e Svetlana non sa che dire, era a conoscenza del fatto che quelli erano dei criminali ma… a volte le cose succedono e non si riesce a fermarle.

Jendreyko è “fortunato” perché durante le riprese del suo film durate un paio di anni sono successi due eventi molto importanti nella vita della protagonista, l’infortunio sul lavoro del figlio che lo porterà alla morte e l’invito della scuola di Kiev che la farà tornare nella terra natia dopo più di mezzo secolo, sono due momenti distinti ma interconessi dalle pieghe dello spazio-tempo sicché il figlio da accudire diventa il padre malato nella dacia e il viaggio in Ucraina, una porzione di cinema molto intensa carica di significati personali e politici, riporta Svetlana alla ragazzina che era (“in quel museo ho visto per la prima volta un quadro”) riappacificandola con una parte di sé che vagava ancora in un limbo. Credo che Die Frau mit den 5 Elefanten sia un titolo da guardare con rispetto non per le sue qualità artistiche che rientrano nell’ordinario quanto per ciò che nell’estrema semplicità riesce a trasmettere, che è una lezione di vita commovente, un insegnamento che si propaga dolce in più direzioni: è probabilmente il film che ogni traduttore dovrebbe vedere (il modo in cui Svetlana spiega come deve essere fatta una traduzione è pura poesia) al pari di ogni lettore per provare a capire quanto lavoro e quanta fatica c’è dietro il libro tradotto che tengono in mano, ed è anche un film che andrebbe visto da chiunque perché è un balsamo per il cuore, perché ci vedi dentro tua nonna che ha fatto la guerra anche se non l’hai conosciuta, perché la cultura è resistenza, perché tutti vorremmo conoscere nell’arco della nostra esistenza una signora come Svetlana Geier.

Abbiamo continuato a sentirci anche dopo la fine del film. Ha partecipato a una prima al festival Visions du Réel di Nyon e ad altre proiezioni. Poi pian piano, nel 2010, è diventata sempre più debole e ha trascorso gli ultimi due mesi a letto. Se ne è andata la notte tra il 7 e l’8 di novembre. È stata una fine senza sofferenze acute. Come era suo desiderio, è morta nella sua casa, con sua figlia accanto, tra le sue cose, la sua tazza di tè, i suoi libri. Pacificamente.

(Vadim Jendreyko da qui)

lunedì 21 ottobre 2019

Tale in the Darkness

In questi lunghi anni di ossessionanti visioni abbiamo visto sugli schermi provenienti da un po’ tutte le zone del mondo un numero smisurato di anime solitarie ritratte nella loro quotidiana mestizia, genti dell’ovest, dell’est, vicine e lontane, da ovunque ci è stata data l’opportunità di assistere ai tormenti di persone diverse da noi solo in superficie, pertanto la nostra attitudine a recepire un tale catalogo di sentimenti si è un po’ avvezza a questo genere di proposte, ne consegue che, se un regista ha in testa di incentrare il proprio film su una donna sola con tutto quello che ne può conseguire, allora il regista in questione dovrà lavorare sodo per riuscire a sorprendere degli scafati spettatori quali siamo. L’autore che oggi si porta ad esempio è Nikolay Khomeriki che avevamo lasciato alle atmosfere retrofantascientifiche di Nine Seven Seven (2006), e, per riallacciarmi subito al discorso introduttivo, con Skazka pro temnotu (2009) l’inaspettato ahinoi non fa alcuna irruzione, il racconto è imbastito in modo che sia chiaro, dal principio alla conclusione, di quanto Gelya (una brava Alisa Khazanova che guarda alla protettrice di ogni psico-frigida filmica, l’Isabelle Huppert de La pianista, 2001) risulti essere un’isola irraggiungibile da qualunque altro simile, e allora via di piccoli blocchi praticamente a se stanti dove la poliziotta pur cercando di aprirsi agli altri non riesce ad emergere dalla lunga notte in cui è prigioniera (forse fin da bambina dato il dialogo con i suoi invisibili genitori verso il finale), ma a parte il possibile lirismo che l’immagine di un’oscurità densa e opprimente può trasmettere, ciò che rimane sono una serie di scenette dal discutibile valore.

Di recente sulla nostra strada è passato un altro film proveniente dalla Grande Madre Russia dal titolo Twilight Portrait (2011) che potrebbe anche dare del tu Tale in the Darkness, medesime sono infatti le mire di illustrarci una condizione femminile alla ricerca di un qualcosa che non si riesce a trovare e parimenti non così dissimile è il contesto in cui si muove la storia (desolazione urbana e sociale, istituzioni non così ligie al dovere), il però che separa le due opere è una grossa diga che per fortuna riabilita in parte la pellicola di Khomeriki; cruciale è il taglio fornito: la Nikonova drammatizza fino alla tragedia ricercando un realismo che vede una sceneggiatura rigurgitante di fastidiose forzature, cosa che invece non accade in Skazka pro temnotu poiché al regista, diversamente dalla collega, non preme troppo una contiguità logica dei fatti, sicché il fare grottesco, slabbrato e un filo paradossale schioda l’esposizione dai letali paletti della coerenza, non ci saranno memorabili esplorazioni filosofiche sullo stato umano nel contemporaneo, ma almeno tira quell’aria a-tipica da foreign movie che sa solleticare il sesto senso cinefilo. Quindi sì, la vena scentrata di Khomeriki, quasi un canone per non pochi esemplari della recente cinematografia post-sovietica, medica la latitanza di un dispositivo atto a dare spessore al comparto “significati”, è profumo di weirdness, profumo di casa.

venerdì 27 settembre 2019

Tin kaliteri nifi

Si tratta di un cortometraggio d’esordio girato da un all’epoca diciannovenne di nome Neritan Zinxhiria – albanese nato a Tirana sebbene Tin kaliteri nifi (2008) sia ambientato in Grecia – costituito da un impianto drammatico steso su una narrazione che come spesso accade nei lavori brevi mischia le carte in tavola per provare poi a sorprendere lo spettatore con il finale. Vabbè, aspettarsi qualcosa di più da un oggetto che sarà stato visionato, se va bene, da qualche migliaio di persone, sarebbe indubbiamente un atto di fede cinematografica troppo lungimirante, all’interno del film non ci sono proprio i presupposti per dare vita ad un prodotto che sia almeno in grado di sfiorare, e non oso dire toccare, l’interesse spettatoriale, sì Zinxhiria cuce un piccolo intreccio dal quale spicca la posizione del protagonista diviso tra due donne, ed il cuore dell’opera è sito esattamente nell’indeterminabilità delle suddette, chi è ricoverato in ospedale? Chi ha avuto l’incidente?, ma è pochino e con tutta la buona volontà consigliare o solo che ricordarsi di Tin kaliteri nifi in un lasso di tempo quantificabile, diciamo, oltre cinque minuti, è davvero difficile, anche perché se la storia in sé evapora subito non è che sul fronte estetico si possa parlare di memorabilità (ok, c’è da ammettere che l’unica versione rinvenibile è in pessimo stato), un po’ di camera a mano, qualche lontana eco del contemporaneo cinema del reale (quello rumeno per esempio) ed un tentativo di far confluire ogni significato nella rivelazione conclusiva.

Ci sono delle attenuanti, per carità, Zinxhiria ha debuttato da giovanissimo e provenendo da uno dei paesi più poveri dell’intero Mediterraneo sono immaginabili le difficoltà incontrate sul suo percorso, pertanto si registrano degli alibi e la sentenza è rimandata a data da destinarsi, probabilmente quando saranno disponibili le fatiche successive che a giudicare da quanto si può scorgere in Rete rivelano già un’ammirabile maturazione.

giovedì 19 settembre 2019

Snowpiercer

Recupero-riempitivo. Avevo già visto Snowpiercer (2013) al tempo della sua uscita ma a causa dell’oblio bloggheristico 2014-2015 non ne avevo scritto nulla, ora, il rewatch a qualche anno di distanza, mi ha più o meno confermato le vecchie impressioni, ovvero che il primo film di Bong Joon-ho al di fuori della Corea del Sud è quello che è: un picchiaduro a scorrimento orizzontale. Lo so, il giudizio può apparire troppo perentorio ma... sapete cosa? Lo scheletro videoludico che sorregge lo sviluppo narrativo non è mica da disdegnare, certo, bisogna porsi nell’ottica di un intrattenimento che non richiede alcun impegno logico né la possibile soddisfazione derivante da analisi sottotestuali. A tal proposito, se proviamo ad avvicinarci con una lente ermeneutica, viene spontaneo un parallelo con Okja (2017) perché Bong pare molto interessato ultimamente a trasportare sullo schermo questioni sociali di stringente attualità, così da una parte abbiamo il tema animalista per l’opera col super-maiale e dall’altra quella ambientalista con il treno che viaggia attraverso una nuova era glaciale, la differenza sostanziale che intercorre tra le due proposte riguarda il fatto che nella pellicola più recente Bong non smette praticamente mai di impartire una lezioncina moraleggiante su cosa è bene e cosa no, qui, almeno, la faccenda del riscaldamento globale è relegata all’introduzione con tanto di frame dedicato alle scie chimiche, e ciò è bene perché Snowpiercer sgravandosi da ogni impegno può dare sfogo ad una discreta ignoranza con scazzottate, sparatorie e duelli all’arma bianca che fanno impennare il tasso di tamarraggine.

Chiaro che quanto vediamo è una voluta allegoria di una rivoluzione proletaria e che il sistema creato da Wilford è il parallelo di una società divisa per caste a tenuta stagna, ma è, appunto, talmente chiaro che non vale nemmeno la pena addentrarsi in elucubrazioni sofisticate, stiamo parlando di un fumettone, un condensato di azione che a mio avviso non ha bisogno di altro che essere guardato in superficie. Allora si potrebbe anche trarne del piacere: indubbiamente il ritmo impresso da Joon-ho ed il co-sceneggiatore Kelly Masterson non ha momenti particolarmente fiacchi e tenendo conto che le due ore si snodano dentro ad un parallelepipedo di ferro, il film mantiene costantemente una decisa dinamicità data non tanto, forse, dalla mera sintassi delle riprese, quanto dal congegno creato (e lo si ribadisce, siamo nel campo del videogioco) che aumenta il livello di curiosità in relazione a cosa potrà accadere nel vagone successivo. Il meccanismo, se ci ragioniamo, è semplice: cosa si nasconderà dietro la porta? Qui Bong dà una dimostrazione lodevole di estro applicato al contesto in cui opera, ossia una cornice commerciale, se Snowpiercer è stato definito, e credo non a torto, un “blockbuster d’autore”, si comprende tale dicitura osservando la vena di follia che intesse le varie carrozze, dal ristorante giapponese (dove tra l’altro si anticipa il destino dei passeggeri di coda, desinati ad una scandita eliminazione per mantenere l’equilibrio dell’ecosistema) alla scuola elementare (efficace la scena che ribalta l’atmosfera [fin troppo] infantile in una carneficina), il tragitto verso la locomotiva è, per essere stringati, divertente da vedere.

È sottinteso che il cinema sperato abita in mondi lontani, ma davvero lontani, da quello sotto esame, e che nello specifico quello di Bong lo si preferiva di gran lunga alle prese con storie meno roboanti (vedi Memorie di un assassino [2003] e Madre [2009]), ma in caso, come si suol dire, abbiate bisogno di un po’ di leggerezza ritengo che Snowpiercer possa fare al caso vostro, e attenzione, non sto dicendo che sia un lavoro adatto per spegnere un po’ il cervello poiché il cervello non va mai spento, nemmeno di fronte a degli scarafaggi trasformati in gelatina commestibile.