Perché?
Sarà
ragionevolmente questa la domanda che avrà ghermito lo spettatore
cinefilo una volta giunto all’episodio conclusivo di The Little
Drummer Girl (2018), perché Park Chan-wook ha accettato di
dirigere un progetto del genere? Al di là delle questioni monetarie
o di implementazione della propria fama, è possibile ipotizzare che
al regista sudcoreano abbia fatto gola la possibilità di girare un
film scorrazzando in lungo e in largo per l’Europa (che tanto in
America c’era già passato: Stoker, 2013): dall’Inghilterra
alla Grecia passando per la Germania con tappa nel Medio Oriente, la
serie prodotta dalla BBC non si fa mancar nulla, sebbene essa stessa
produca, involontariamente, una forte mancanza verso l’esterno,
verso chi guarda: manca di appeal questa storia che più
classicheggiante non può essere, cioè: è una storia di spionaggio
e questo è ciò che viene propinato, quindi, tornando a Park e
accettata la sua scelta di mettersi al timone della nave, si rimane
un po’ delusi di quanto il risultato finale sia un prodotto
normalizzato da delle grammatiche che non definirei televisive (ormai
il confine è stato divelto, la tv seriale compete – e spesso vince
– col cinema da botteghino), bensì occidentali, ma in un senso
tradizionale, consuete, almeno al nostro occhio. Se pensiamo ad altri
due autori come Lynch e Refn che di recente grazie alla forma
episodica hanno potuto dare sfogo a maratone in cui è venuto fuori
tutto il loro estro, qui con La tamburina
accade il contrario, c’è spersonalizzazione, assoggettamento a
bolsi ingranaggi narrativi e qualche ovvietà.
In alcuni
recensioni ho letto di inequivocabili segnali che rimanderebbero alla
paternità di Park, mah, sinceramente fatico a ravvisare continuità
o ripresa di elementi personali appartenenti al regista, ad essere
larghi qualche dettaglio o sfumatura ci può anche assere ma sono
cose di poco conto che di certo non rinvigoriscono una poetica o
un’idea trasmigrata (all’incirca) di film in film. Per carità,
non si vuole considerare Park uno sperimentatore né un regista
seminale, sul discorso delle aspettative quanto ci si augurava era
solo un’opera ben confezionata smossa da un’aria frizzantina
(vedi Mademoiselle, 2016), ma
l’aria invece è piuttosto ferma, e lo è nonostante in superficie
si presenti oltremodo movimentata. Del resto stiamo trattando una
spy-story e quindi le contorsioni tramiche sono il pane quotidiano
dalla prima alla sesta puntata. Il fatto è che più le faccende si
contorcono e più la loro resa si fa costruita e innaturale. Io il
libro non l’ho letto così come non ho mai letto nemmeno una riga
scritta da le Carré, però “leggendone” la trasposizione sullo
schermo si evince solo e soltanto un asservimento al canone del
genere di riferimento, che è prettamente letterario e costituito da
un intreccio che si ostina a voler essere logico pur seminando
artificiosità a manetta. Dài, è una storia che non regge,
improbabile come può essere James Bond ma, ovviamente, senza avere
la medesima struttura extrafilmica alla spalle. Forse adottando
un’ottica spionistica le maglie critiche dovrebbero allargarsi,
tuttavia della suddetta ottica non mi importa niente, al sottoscritto
importa che il manufatto audiovisivo abbia natura altra e priva di
una leggibilità univoca, nel senso: Charlie viene assoldata dal
Mossad per introdursi sotto mentite spoglie in una cellula
terroristica palestinese, che c’è di più?
Ah già, la
riflessione sull’attorialità. In sostanza c’è un meta-pensiero
che attraversa la serie e che è impersonificato dalla figura di
Charlie/Florence Pugh. Soprassiedo sulle modalità di reclutamento
della ragazza, forzatissime e inverosimili al pari del percorso di
introduzione nel clan arabo pensato per lei, e registro la scelta di
porre la recitazione, e quindi la finzione, come strumento di
indagine nella storia narrata, e quindi nella e della realtà
(-del-film). Il processo di immedesimazione dell’attrice/spia fa sì
che la sua discesa nella cosca terroristica si appai al mestiere che
fa nella vita vera, è un’attrice, per cui sa fingere, o meglio, sa
far credere a chi la guarda che lei può essere Giovanna d’Arco o
una ribelle londinese dalla parte dei palestinesi. È un assunto che
non si scrolla di dosso la frigida teoria che lo sottende, il
concetto di una finzione che piano piano si fa realtà non si innesta
mai con piena autenticità nell’impianto del racconto, non ce la fa
nemmeno usando le palette dei sentimenti con il ricircolo amoroso che
fluisce in un triangolo (o quadrilatero?) un po’ immaginario e un
po’ no (sarebbe stato molto più incisivo se alla fine Charlie si
fosse davvero fatta invadere dalla finzione [scappando via con
Khalil] tradendo la realtà [Gadi e la cricca ebraica]). E
allora? Anzi: e Park? Che faceva mentre riprendeva questo teatrino
pieno di pupazzetti impelagati in vicende dimenticabili? Boh, se lo
vedo glielo chiedo.
A sproposito
di attori, si è mai detto quanto in una serie tv si ha la
possibilità di apprezzare (o il contrario) le qualità di un
interprete visto il numero di ore a disposizione? Sicuramente si sarà
detto e stradetto, e mi viene da ribadirlo dopo aver visto un Michael
Shannon in superforma che, nemmeno troppo velatamente nella
prospettiva meta, è il Park
Chan-wook diegetico che dirige le pedine sulla scacchiera. Attenzione
anche a Florence Pugh, il futuro potrebbe appartenerle.