Idealmente Triokala è una discesa dal tragitto circolare che arriva e poi di nuovo si immette nel medesimo cielo. Nel viaggio terrestre segnato da un progressivo avvicinamento alle forme di vita che lì vi dimorano (si parte da un brulichio di insetti), traspira dalla bruma delle montagne un’attenzione particolare ad una dimensione spirituale che silenziosa aleggia, un mix di ritualità e credenze ataviche che sostanziano il cuore dell’opera. Nell’ibridazione di protocollo che il documentario subisce si manifesta una tensione verso dell’indefinita trascendenza, non è solo religione e non è solo tradizione, è sentimento popolare che si ripropone primigenio sotto spoglie diverse (lo sciamano del Paese che cura i malanni dei concittadini bollendo serpenti vivi in un pentolone; la vecchietta che in casa scaccia via gli spiriti maligni con un rametto) ricondotte da Picarella in un finale catartico dove per la prima volta, dopo aver dato del tu ad aria, acqua e terra, facciamo conoscenza con l’elemento del fuoco. L’inafferrabile essenza di una realtà che custodisce ricordi ancestrali all’interno di un’ordinarietà come tante (comunque vediamo gente al bar che gioca a carte e contadini impegnati nei loro lavori) è un po’ il mistero principe dell’esistenza che si ripete chiaroscura lontana dalla costa e che sicuramente Picarella ha colto con buoni intenti e relativa concretezza, se però posso fare un appunto credo che negli ultimi anni ci sia stata nel cinema italiano, almeno quello che si avvale dello stesso dispositivo di Triokala, una “moda” frammartiniana che non ha permesso di far avanzare granché il discorso intorno al metodo, va bene il folklore, va bene la ricerca sul reale, vanno bene le sfumature teologiche, escatologiche, ecc., ma penso si debba e si possa osare maggiormente, sperimentare, sperimentare e ancora sperimentare: forza!
sabato 11 giugno 2022
Triokala
lunedì 30 maggio 2022
The Rules for Everything
Il passo che va un po’ oltre la creazione di aspettative su una tale lunghezza d’onda è dato da un piacevole estro creativo che attraversa l’opera, parlo essenzialmente di soluzioni formali (grafiche, di montaggio e perfino di formato), probabilmente non così indispensabili, che ad ogni modo vivificano il girato, lo ripuliscono da una possibile e pericolosa classicità in favore di una freschezza che, parlando di cinema narrativo, è sempre ben accolta. Poi qua va inserito il discorso decisamente ampio che si tenta di imbastire, perché non si può negare che ci sia quasi un filtro filosofico che voglia spiegare e spiegarci il mondo. Nell’ottica di una maggiore profondità dei significati chi scrive ha riscontrato una discreta arguzia nel cablare la componente riflessiva, che poi diventa una sorta di narratore interno, sugli occhi, il cuore ed il cervello della ragazzina protagonista, e così, scampato un possibile appesantimento dei toni, seguiamo il suo cogitare in voce off. I concetti principali, riportati nel titolo, sono che ci sono delle regole riguardanti tutti, tutti: esseri inanimati e non, e che siffatte norme, volenti o nolenti, direzionano la vita verso una sola meta, la morte. Allegria! Ed il centro della storia, al pari delle sue eventuali diramazioni, conduce al capolinea per eccellenza, alle modalità con cui si può contrastare (sembra che Il settimo sigillo [1957] sia un modello in tal senso), o, magari, per tentare una comprensione, che già sarebbe un qualcosa di importante.
Gli intenti teorici hanno quindi un loro perché, poi subentra il fatto che sembrerebbe crearsi una discrepanza nell’applicazione pratica, se pensiamo a Storm quale personaggio super partes, una coscienza filmica astratta, pensante, praticamente antidiegetica (e il ruolo che riveste nella recita scolastica non è casuale), le corrispettive vicende che coinvolgono la madre paiono viaggiare su ben altri piani, la doppia e repentina perdita (prima sentimentale e subito dopo fisica) del marito, il tentativo di ricostruzione del sé con l’ingresso in scena del giovane e scapestrato guru, sono snodi posti non alla medesima altezza delle aspirazioni concettuali, permane uno scollamento, una non perfetta aderenza che lascia un non so che di amaro in bocca, la sensazione che bastava giusto un cicinino in più per trovare la quadra, nulla toglie che comunque in Hiorthøy, così come in Tunge, si intravedono grandi margini di miglioramento.
mercoledì 18 maggio 2022
Me stesso nelle foto degli altri
mercoledì 11 maggio 2022
Ossudo
domenica 10 aprile 2022
Appennino
“Ricostruzione” è un concetto importante per il film perché inizialmente Dante voleva incentrare il suo lavoro sulla ricostruzione dell’Aquila, ma la natura elastica dell’opera ha conglobato in sé l’avvenuta di un’altra catastrofe che il regista, mosso da intenzioni pressoché impossibili da decifrare per noi che non sappiamo cosa significhi davvero quando la terra trema (si è recato lì per solidarietà? Per paura? Per un sottile fascino?), è andato a catturare venendo alla fine assorbito dal reticolo di storie umane e ricordi che da Amatrice, Norcia e gli altri paesi disastrati si irradiano e sempre in loro convergono. Solo che, per via di una realtà frammentata marchiata da una burocrazia che allunga i tempi, Dante si è spesso trovato ad un punto morto del suo percorso ed ogni volta è stato costretto a ricostruire il tragitto e la meta, per farlo si è servito dei mattoncini che nessun terremoto gli ha buttato giù, come il vecchio amico Paolo, come il nuovo amico Stefano, una sorta di alter ego di Emiliano poiché impegnato nell’utopica edificazione di un centro commerciale nonché uomo colpito dalla freccia di Cupido in un contesto inatteso. La sostanza di Appennino è dunque costellata di diramazioni, di interruzioni, di stimoli che pur prendendo rotte singolari alla fine si immettono in una grande collettività poiché, come Dante stesso afferma, il terremoto è un dramma collettivo e per provare a capirlo e, in seconda battuta, per fare in maniera che divenga comprensibile anche a noi, lo ha tradotto in una sequenza di suoni e di immagini, ha usato il cinema per interpretare il caos, il che dà alla settima arte un piacevole attributo romantico, e se ascolterete le splendide riflessioni conclusive ne avrete la conferma.
domenica 13 marzo 2022
Dal ritorno
È difficile commentare le parole del signor Silvano perché dice ciò che è indicibile e perciò incomprensibile per chi quelle cose non le ha viste. Cioni fin dall’inizio ci mette in guardia con le inferriate dell’ospedale, attenzione: ora ascolteremo una storia di sbarre, di prigionia, di un carcere che si è protratto ben oltre i cancelli di Mauthausen, la deportazione, la detenzione, sono come un virus dormiente che a distanza di lustri è ancora capace di far piangere un anziano che a quell’età dovrebbe solo pensare a godersi i nipotini. No, non si può proprio aggiungere alcunché di fronte ad un blob di tale immane dolore, l’afonia, la stessa degli studenti attoniti intorno a Silvano, è l’unica forma di risposta possibile. Ciò fa riflettere sulla potenza insita nel racconto verbale che può prescindere dalle immagini, non dico che è come vedere quegli uomini e quelle donne inzaccherate dai loro liquami dentro le camere a gas, ma ci manca davvero poco, e se un documentario sa innestare nella narrazione in prima persona delle aperture ulteriori, tipo filmati d’archivio o l’inserimento di uno specifico corredo musicale, allora la proiezione sale di intensità e noi comprendiamo di essere nel posto giusto.
Ma l’aspetto denso e pregno di Dal ritorno si nasconde nel fuorviante titolo, è troppo banale, infatti, considerare il rientro in Italia di Silvano quale nostos omerico. In realtà il ritorno non è verso casa, è una roba che vola molto in alto e che Cioni pizzica attraverso corde esistenziali di commovente bellezza. Il ritorno è la cronaca di un viaggio, l’ultimo, mai compiuto fisicamente da Silvano, sebbene comunque uno spostamento avvenga. È un tragitto spirituale dove l’occhio di Cioni si fa occhio di Lippi e il sopravvissuto al lager, in buona sostanza, vi fa nuovamente visita, non con il corpo ma in veste fantasmatica, e osserva, fluttua, si sofferma, scruta, levita tra le pareti scrostate di quel luogo maledetto. È la chiusura di un cerchio, è un commiato alla vita nella culla della morte per intercessione di Cioni, con la discrezione ed il rispetto che tratteggiano il regista. E dopo non rimane nient’altro, solo ricordi, ora vivi, ora sbiaditi, e un campo di fiori rossi.
lunedì 21 febbraio 2022
Extraction: The Raft of the Medusa
Per via delle poche informazioni reperibili ci si affida alle sensazioni e a quanto gli occhi riescono a captare: i triangoli sopraccitati ora sono due solidi futuristici posti l’uno sopra l’altro, nello spazio libero c’è l’uomo, o meglio un gruppo di uomini in boxer assembrati su se stessi, un’altra voce over, questa volta più nitida, ci parla di naufraghi (da qui il collegamento con il quadro di Théodore Géricault), di acqua alta, di una situazione altamente problematica, e al contempo, tra le righe, suggerisce che tale situazione sia da intendere su scala maggiore, praticamente universale nonché radicata nel presente. Non ne sono convinto al 100% ma il parallelo potrebbe volgersi al sempre attuale dramma dei migranti poiché nella descrizione del progetto leggibile sul sito della Lamas (link) si afferma che: “[...] è un’allegoria per quegli stati di emergenza relativi a politica ambientale, clima e migrazione, con uno scopo etico-politico”. Va da sé che visionare solo una piccola parte dell’intero è veramente troppo limitante e di conseguenza c’è da sospendere in automatico qualsivoglia giudizio (il finale in 3D, che non so se dipenda dalle altre componenti artistiche di Extraction, non l’ho proprio capito), resta comunque acceso l’interesse per la regista portoghese.