venerdì 10 novembre 2023

Empty Metal

Dopo Another Day Without a Future, But What the Hell Another Day... (2012) l’esordio nel lungometraggio di Adam Khalil, qui coadiuvato da Bayley Sweitzer, un professionista del settore che ha lavorato anche in Diamanti grezzi (2019) dei fratelli Safdie, me lo aspettavo proprio così: fottutamente respingente, oltre che strano, bislacco e una quantità notevole di altri aggettivi capaci di descriverne la sua inconsueta natura. Detto ciò, al pari del cortometraggio precedente, ed anzi in maniera potenziata, anche Empty Metal (2018) possiede una gran bella energia che lo fa vibrare davanti a noi. La domanda allora è: questa energia, questa vibrazione, dove sono direzionate? Cioè che cosa smuovono, che cosa toccano? Non è semplice dare una risposta, pertanto preferisco ora rifugiarmi in un banale report tramico: ci sono gli Alien, una band che fa punk-elettronico, e c’è la loro insoddisfazione musicale ed esistenziale, c’è un trio, che poi forse diventa un quartetto, dotato di poteri sovrannaturali, che assolda il gruppo per compiere degli omicidi, c’è poi una specie di milizia clandestina che si esercita con le armi nei boschi e ci sono infine svariati rimandi ad un’idea di Fine, non si sa bene se del mondo tout court o se del mondo-dei-protagonisti-come-è-stato-finora (difatti la scena d’apertura sembra l’inizio di un film post-atomico). Insomma, di carne al fuoco ne abbiamo tanta e non mi vergogno a dire che probabilmente ce ne sia ancora di più di quanta il sottoscritto ne ha individuata, i limiti culturali che ho verso la cultura americana mi impediscono di essere più preciso, ma comunque, al di là delle tematiche affrontate, non si può non registrare una crescita di Khalil, quello che rimane è il caotico mix di supporti sulla scorta del sodale Fernández Molero, però è palpabile una maggiore orchestrazione, le immagini spesso sono “brutte” perché si rimbalza da riprese video fatte col cellulare a ricostruzioni in un 3D molto âgée ma non si direbbe mai, o quasi mai, che si è al cospetto di una produzione scadente.

Il fatto che Empty Metal sia nato in piena epoca trumpiana non credo sia un dettaglio, anzi si tratta di una vera e propria sommossa verso un certo tipo di politica, all’aria che tirava (e tira?) da quelle parti, la morte di George Floyd è successiva ma ciò fa del titolo sotto esame un preoccupante sguardo premonitore verso la discrepanza che sussiste tra lo Stato con la sua impunità ed il normale cittadino, si noti che le scene dove viene illustrato questo sbilanciamento di potere sono tutte riprodotte in computer grafica, come un fallace allontanamento da ciò che è reale. Tuttavia dubito fortemente che qualche pro-Trump abbia potuto cogliere la vena caustica che serpeggia nell’opera perché è mimetizzata in una cornice che sfiora il nonsense. È interessante, nonché difficile da decifrare, la duplice visione che Khalil dà della tenuta cospirativa, una fazione è più “comprensibile”, abbiamo infatti tre soggetti appartenenti a delle minoranze etniche (di cui il regista stesso fa parte essendo originario di una tribù nativa che si chiama Ojibway) che assumono un ruolo decisamente astratto, ci è suggerito che siano come dei sobillatori a spasso nel tempo, ma l’altra frangia insurrezionalista è più complicata da inquadrare perché sembrano, o forse è meglio dire sono, dei Proud Boys che accarezzano il loro AK-47 prima di andare a nanna, facinorosi che, riportando le parole di uno di essi, hanno un solo nemico: il Governo. Ecco, seguendo la doppia pista sovversiva è fornito uno schizzo dissennato, ma nemmeno troppo, di una realtà che non è, ovviamente, troppo diversa da quella che viviamo. L’Autorità prevarica, controlla, colpisce, e la storia continua a ripetere sé stessa.

Nessun commento:

Posta un commento