Dopo Another Day Without a Future, But What the Hell Another Day...
(2012) l’esordio nel lungometraggio di Adam Khalil, qui coadiuvato
da Bayley Sweitzer, un professionista del settore che ha lavorato
anche in Diamanti grezzi (2019) dei fratelli Safdie, me lo aspettavo
proprio così: fottutamente respingente, oltre che strano, bislacco e
una quantità notevole di altri aggettivi capaci di descriverne la
sua inconsueta natura. Detto ciò, al pari del cortometraggio
precedente, ed anzi in maniera potenziata, anche Empty
Metal (2018) possiede una gran
bella energia che lo fa vibrare davanti a noi. La domanda allora è:
questa energia, questa vibrazione, dove sono direzionate? Cioè che
cosa smuovono, che cosa toccano? Non è semplice dare una risposta,
pertanto preferisco ora rifugiarmi in un banale report tramico: ci
sono gli Alien, una band che fa punk-elettronico, e c’è la loro
insoddisfazione musicale ed esistenziale, c’è un trio, che poi
forse diventa un quartetto, dotato di poteri sovrannaturali, che
assolda il gruppo per compiere degli omicidi, c’è poi una specie
di milizia clandestina che si esercita con le armi nei boschi e ci
sono infine svariati rimandi ad un’idea di Fine, non si sa bene se
del mondo tout court o se del
mondo-dei-protagonisti-come-è-stato-finora (difatti la scena
d’apertura sembra l’inizio di un film post-atomico). Insomma, di
carne al fuoco ne abbiamo tanta e non mi vergogno a dire che
probabilmente ce ne sia ancora di più di quanta il sottoscritto ne
ha individuata, i limiti culturali che ho verso la cultura americana
mi impediscono di essere più preciso, ma comunque, al di là delle
tematiche affrontate, non si può non registrare una crescita di
Khalil, quello che rimane è il caotico mix di supporti sulla scorta
del sodale Fernández
Molero, però è palpabile una maggiore orchestrazione, le immagini
spesso sono “brutte” perché si rimbalza da riprese video fatte
col cellulare a ricostruzioni in un 3D molto âgée ma non si direbbe
mai, o quasi mai, che si è al cospetto di una produzione scadente.
Il fatto che Empty
Metal sia nato in piena epoca
trumpiana non credo sia un dettaglio, anzi si tratta di una vera e
propria sommossa verso un certo tipo di politica, all’aria che
tirava (e tira?) da quelle parti, la morte di George Floyd è
successiva ma ciò fa del titolo sotto esame un preoccupante sguardo
premonitore verso la discrepanza che sussiste tra lo Stato con la sua
impunità ed il normale cittadino, si noti che le scene dove viene
illustrato questo sbilanciamento di potere sono tutte riprodotte in
computer grafica, come un fallace allontanamento da ciò che è
reale. Tuttavia dubito fortemente che qualche pro-Trump abbia potuto
cogliere la vena caustica che serpeggia nell’opera perché è
mimetizzata in una cornice che sfiora il nonsense. È interessante,
nonché difficile da decifrare, la duplice visione che Khalil dà
della tenuta cospirativa, una fazione è più “comprensibile”,
abbiamo infatti tre soggetti appartenenti a delle minoranze etniche
(di cui il regista stesso fa parte essendo originario di una tribù
nativa che si chiama Ojibway) che assumono un ruolo decisamente
astratto, ci è suggerito che siano come dei sobillatori a spasso nel
tempo, ma l’altra frangia insurrezionalista è più complicata da
inquadrare perché sembrano, o forse è meglio dire sono, dei Proud
Boys che accarezzano il loro AK-47 prima di andare a nanna,
facinorosi che, riportando le parole di uno di essi, hanno un solo
nemico: il Governo. Ecco, seguendo la doppia pista sovversiva è
fornito uno schizzo dissennato, ma nemmeno troppo, di una realtà che
non è, ovviamente, troppo diversa da quella che viviamo. L’Autorità
prevarica, controlla, colpisce, e la storia continua a ripetere sé
stessa.
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