Nella notte:
una fitta lancinante le fa aprire gli occhi, ci mette qualche minuto
per comprendere che quella fastidiosa pulsazione proviene da dentro
la bocca, in una gengiva, in un piccolo nervo attorcigliato sotto un
dente, si riaddormenta ma il sonno è molestato dal dolore e
sprofonda in un incubo dove suo padre è di nuovo vivo in carne ed
ossa e mangia una minestra gialla nella fredda cucina di casa, allora
scatta giù dal letto e si precipita nella camera dei genitori e con
una mano sulla mandibola tira un sospiro di sollievo: papà è ancora
morto e sta lì immobile vicino al grosso comò, dopo il suo decesso
le gambe si sono fuse in un solido tronco che ha messo radici nel
pavimento, le braccia rami, le dita foglioline verdi, la testa un
nodo contorto dall’aspetto celebrale, che succede piccola mia?
Chiede il padre-albrero, papà mi fa male un dente! Vieni qui e fammi
vedere: da un incavo del legno sbuca un pulcino con un occhio da
Polifemo che scruta la dentatura della ragazzina, oh-oh-oh tesorino
non c’è nessun dentista che possa curarti, lo senti questo
strano rumore? Sì... ed è anche fastidioso! È il mare, o meglio la
tua saliva che si è fatta mare e che sbatte contro quella scogliera
di calcio e smalto che è diventata il punto più estremo
dell’Europa, la tua lingua naviga in un Atlantico in burrasca la
cui ferocia ha mangiato la roccia lasciando un buco che da sotto fa
vedere il cielo-palato e da sopra l’acqua-radice, non avere paura
amore, passerà, sì ma fa tanto male papi...
Il giorno
dopo a ricreazione: ehi e quello chi è? Carino vero? Pare sia uno
nuovo che viene da fuori, l’ho visto ieri mentre entrava, è
proprio figo, sì, sembra diverso dagli altri che conosciamo. Sembra
diverso.
[eventi
routinari accadono in questa parentesi quadra: è autunno e il padre
ingiallisce fino a sfrondarsi, nella stanza le foglie secche a terra
si rattrappiscono, la figlia, al contrario, si sente fiorire e dice
così all’amica io non posso farci niente, nel senso, lo vedo e arrossisco, penso che se solo mi salutasse addio, morta, divento una
cretina totale se è a qualche metro di distanza, cosa vuoi che
faccia? Da una parte vorrei parlargli dall’altra il solo pensiero
mi uccide, perché è così difficile? E poi cosa penserà lui di
me?, il mal di denti continua, è un flagello costante, picchia forte
la notte, pensa al nuovo compagno e al culmine del patimento
è costretta a sgattaiolare ai piedi del ciocco paterno per cercare
qualche coccola arborea]
Poi: è così
perfetto che quasi non ci crede, loro due seduti su una panchina che
si affaccia sul Mediterraneo, poca gente in giro, la tacita
consapevolezza di essere i potenziali protagonisti di una futura
complicità, non si dicono niente di fondamentale importanza poiché
l’unica cosa importante, ora, è essere lì, insieme, e sfiorarsi
con le ginocchia, ridere di un compagno un po’ scemo, ricordare
situazioni del proprio passato personale costruendo,
involontariamente, un piccolo mausoleo della memoria condivisa che
magari, in futuro, potrà essere riconsultato, adesso all’interno
dei loro cervelli da teenager un fluido color rosa inebria le sinapsi
che rallentano la folle trasmissione di informazioni, senza
accorgersene sono immersi in una bolla amniotica che li attrae
vicendevolmente, il mare, l’orizzonte, il motore di una automobile
lontana, il verso stridulo di un gabbiano che ha scambiato lo
spicchio di sole calante per un gigantesco chicco di grano e che
voltandosi verso la costa vede un’altra luce brillare. Si stanno
baciando. La lingua di lui va a posarsi delicatamente sul dente
dolente e lei viene scossa da un tremito, il male si placa, non sente
più niente, a Cascais la Boca do Inferno svanisce nel nulla, al
posto del buco luciferino compare un anonimo scoglio su cui l’Oceano
colpisce senza scolpire alcunché.
Le
labbra si dividono e lui dice: ma come? Non ti ricordi di me? Non ti
ricordi di noi? Quando ti ho vista la prima volta a scuola nemmeno io
ricordavo, poi una memoria non mia è emersa dal buio. Tuo padre
faceva il tassista a Bangkok, per i turisti seduti sui sedili
posteriori era solo gli occhi devastati dal traffico e dallo smog
riflessi nello specchietto retrovisore, a fine mese mandava a te e a
tua sorella tre o quattromila Baht, il resto, quel poco, lo teneva
per pagare l’affitto in uno squallido monolocale vicino a Patpong,
tu invece vivevi al nord, nella tranquilla Chiang Mai, ed è lì che
ci siamo incontrati una domenica sera tra le innumerevoli bancarelle
del mercato settimanale, io ero arrivato da Lisbona due settimane
prima e avevo già girato la Thailandia da cima a fondo, cercavo,
come noi occidentali erroneamente crediamo, un me stesso andando via
di casa, ma in realtà continuavo a portarmi dietro una solitudine
che non era medicata né dagli incontri occasionali nei massage
parlour, né dalla visione dei templi dorati, così, mentre
passeggiavo tra la folla, fui attirato da un baracchino che vendeva
insetti tostati, visti da vicino avevano un aspetto quasi
commestibile, sembravano caramelle di liquirizia, ero indeciso quale
scegliere quando un dito indicò quelli più piccoli, era il tuo dito
e io accettai il consiglio, a differenza tua che apprezzavi parecchio
lo strano snack dicendo in un inglese rivedibile che siccome erano
insetti mangia-legno avevano un buon sapore, io in bocca sentivo solo
un gusto di terra ma onestamente non mi importava perché avevamo
iniziato a parlare e nonostante anche il mio di inglese fosse un po’
claudicante ci capivamo, e passeggiammo a lungo allontanandoci dal
brulichio dei turisti fino ad oltrepassare le vecchie mura che circondavano la zona più antica, mi dicevi che eri nata
lì, che studiavi e che ogni tanto lavoravi, io non capivo bene,
faceva caldissimo, ti presi la mano e continuammo a camminare fino a
che lo stesso dito di prima indicò il cancello di una casetta a due
piani, volevi che ti seguissi e, semplicemente, lo volevo anche io.
All’interno l’abitazione era abbastanza pulita, c’era un forte
odore di cibo cucinato e di spezie che svanì una volta saliti in
camera, non ricordo l’arredamento perché la luce era spenta,
ricordo bene, invece, il contatto con il tuo corpo liscio e il tuo
alito che sapeva di menta, pensai, stupidamente, che quegli insetti
dovevano aver banchettato nel tronco di un pino. Rivestendomi con te
che ancora affioravi tra le coperte mi chiedevo se dovevo
pagarti per la notte appena passata, ma non toccai l’argomento e mi
limitai a dire che il giorno dopo sarei salito su un aereo per
Bangkok e da lì avrei poi fatto ritorno in Portogallo, ci scambiammo i
numeri di telefono perché in fondo quando si fa sesso con una
persona c’è sempre il flebile desiderio di mantenere un legame nel
tempo, ti diedi un bacio sulla fronte e me ne andai. Per tutto il
giorno pensai a te come un adolescente indeciso se scriverti su
WhatsApp, lo feci alla sera “would you come in my hotel? :)”, ma
non potevi, tua sorella stava male e non ti andava di lasciarla sola,
guardai alla tv un incontro di Muay thai e presi sonno. Al mattino la
reception chiamò un taxi per portarmi in aeroporto, mentre caricavo
le valigie ti vidi sorridere dall’altra parte della strada, poco
dopo il taxi ripartì, ma senza di me. Rimasi a Chiang Mai un altro
mese, inventai delle frottole sul passaporto sia ai miei famigliari
che alla compagnia di assicurazioni lisbonese dove lavoravo, furono
giorni di felicità totale dove la razionalità era stata azzerata,
si può amare in modo completo e profondo una persona pressoché
sconosciuta? Non avevamo una risposta e non ci interessava averla,
eravamo insieme
e tanto bastava. Quando dovetti tornare in Europa il distacco fu
struggente, lacrime e singhiozzi facevano da colonna sonora agli
ultimi minuti precedenti all’imbarco, un’immagine che ho di te in
quel momento ti vede con le braccia conserte e gli occhi lucidi che
mi guardi passare i controlli aeroportuali, non c’è stato altro
istante nella mia vita in cui io abbia percepito un’empatia così
forte con un essere umano. Sul volo di ritorno fissavo il monitor
davanti a me dove un aeroplano stilizzato lasciava dietro di sé un
arco rosso sopra il Medio Oriente, quell’arco era ciò che ci
legava. Ritornare alla vita di tutti i giorni risultò impossibile,
ci sentivamo continuamente e quando a lavoro il quadratino di Skype
sul mio schermo diventava arancione mi sentivo sollevato perché
significava che ero nei tuoi pensieri, facevamo delle lunghissime
videochiamate a notte fonda per me e a mattino per te, non ci
dicevamo nulla di essenziale ma saremmo andati avanti giorni interi. Per fortuna di lì a poco arrivò Natale e la Compagnia in cui ero
impiegato chiudeva fino alla seconda settimana di Gennaio, decidemmo
che al mio ritorno ci saremmo fermati a Bangkok perché volevi farmi
conoscere tuo padre, sotto il suo appartamento ce n’era un altro
che ci avrebbero affittato il tempo necessario per qualche migliaio
di Baht. Ripercorsi nuovamente quel ponte invisibile sulla mappa del
monitor che riuniva mezzo mondo, una volta atterrato e una volta al
tuo fianco sentivo che avrei potuto superare qualsiasi ostacolo, che
allora era vero: in oriente era possibile ritrovare se stessi, negli
altri. Vidi tuo padre la prima volta dopo che aveva finito da poco un
turno di dodici ore, era talmente magro che qualunque camicia gli
sarebbe andata larga, portava dei baffetti curati e una foto
spiegazzata di Rama
IX nel taschino sinistro, fin da subito fu molto diffidente nei miei
confronti, non parlava inglese, o almeno non voleva parlarlo con me,
e nei pochi dialoghi avuti dovevi fare da interprete. La casa
affittata era più che altro una stanza con un bagno, dalla finestra
potevo vedere lo Skytrain che serpeggiava tra i grattacieli, le luci
notturne di Bangkok si allungavano morbide sul soffitto
dell’appartamento mentre facevamo l’amore, poi ci addormentavamo
con la tua schiena adagiata sul mio sterno, come due cucchiaini che
riposavano in un cassetto. E una sera, dopo aver passato la giornata
nel quartiere cinese e nel suo incredibile mercato che mi aveva fatto
sentire un alieno giunto su un nuovo pianeta, ti sussurrai
all’orecchio “come with me in Portugal...”, alla cena seguente
eravamo nella casa di tuo padre che silenzioso mangiava una specie di
minestra giallognola, lo stesso colore della canottiera che
indossava, e capii dal tono delle vostre voci che si stava alzando di
quanto lui fosse contrario alla tua partenza, solo nel momento in cui
terminasti di parlare con una grinta che non conoscevo l’uomo
sollevò dal piatto i suoi occhi da tassista e ti tirò uno schiaffo
talmente forte da farti sputare un dente sul pavimento. Non ci pensai
due volte, ti presi per il polso e scendemmo al piano di sotto a fare
le valigie, dodici ore dopo ero di nuovo su un aereo che attraversava
il globo, ma questa volta quel filo rosso sullo schermo lo stavamo
tracciando insieme. È difficile poterti spiegare che cosa furono per
me i primi mesi insieme a Lisbona, io, che prima di partire per la
Thailandia non sopportavo più la mia città, il mio Paese e la mia
cultura, non vedevo l’ora di poterti mostrare ogni giorno qualche
luogo, anche il più ameno, che significava qualcosa per me, avevo
capito l’importanza di condividere ed un giro all’Alfama o
una passeggiata fino alla Torre di Belém
erano dei
momenti speciali che mi facevano scoppiare il petto di gioia, ti
parlavo della letteratura portoghese, del cinema, di un libro in cui
il Portogallo si staccava dall’Europa e iniziava a navigare
nell’Oceano, e tu mi ascoltavi con un rispetto così assoluto
sebbene non avessi nulla a che fare con Saramago o de Oliveira che
alla fine mi mettevo sempre a piangere e le lacrime erano lenite
soltanto dai tuoi baci.
Ti
ricordi adesso? Ti ricordi del freddo che arrivò? Non avevi mai
messo una giacca prima di allora ed il vento gelido che ghiacciava la
faccia ti rendeva nervosa, non me ne accorsi subito perché non
volevo farlo ma degli scricchiolii iniziarono ad intromettersi nella
nostra vita, tornavo da lavoro e ti trovavo sul divano a guardare
apatica la tv, parlavi poco e passavi le serate a confabulare via
Viber con tua sorella, la prima volta che litigammo fu per dei panni
lavati che lasciasti stesi durante un temporale, non c’entravano
niente i panni, era solo un modo per dare sfogo a quel malessere che
piano piano ci stava cingendo. Cercai di recuperare portandoti a cena
nel miglior ristorante della Baixa, ma dal tuo sguardo spento saremmo
potuti essere anche in un bordello di Soi Cowboy che non avrebbe
fatto differenza, tentai di essere più presente chiedendo un
part-time, ti feci molti regali e molte sorprese per finire come quei
genitori che si ostinano a comprare l’affetto dei figli regalando
loro oggetti materiali. Capii che eravamo giunti ai calci di rigore
quando dopo un periodo di indifferenza reciproca ti lanciai sul letto
nel goffo tentativo di spogliarti, mi presi a schiaffi fino a
graffiarmi il viso per divincolarti da quello che era solo un
poveretto privo di brutte intenzioni, infatti restai lì rannicchiato
soffocando i singulti fino ad addormentarmi, riaprii gli occhi avvertendo il tuo fiato ad un palmo dal naso, compassionevolmente
accarezzavi la mia nuca ripetendo “it’s not your fault, it’s
not your fault”. Quella fu l’ultima volta che ti parlai. Il
mattino dopo ricevetti un messaggio in cui dicevi che tuo padre si
era schiantato contro un albero a Bangkok e che adesso era in fin di
vita. Mi precipitai a casa con un pensiero fisso: non ci sono alberi
a Bangkok, ma tutto ciò che rimaneva di te era un cuore disegnato
con la matita rossa su un foglio bianco lasciato sopra il tavolo
della cucina, e il contorno di quel cuore si distese fino a diventare
per l’ennesima volta il filo che avvolgeva la piccola biglia
azzurra che calpestiamo, tornai a Bangkok per cercarti, bussai alla
porta di tuo padre ma niente, chiesi a qualche vicino, mi rivolsi
perfino alla polizia senza avere una risposta: eri svanita. Con un
volo interno mi recai a Chiang Mai dove ci eravamo conosciuti, ma
anche lì, nella casa dove mi avevi portato la prima sera, non c’era
anima viva. Guardando un gruppo di ladyboy che entravano in un locale
mi sentii profondamente solo e mi domandai se non fosse stato solo il
sogno sentimentale di un uomo malinconico. Per l’ultima volta
rifeci la strada verso il Vecchio Continente e, ironicamente, in quel
volo i monitor sui sedili erano fuori servizio. Per mitigare un po’
il dolore che continuamente mi tormentava presi l’abitudine di
andare a Cascais e di inerpicarmi sugli scogli ostili della Boca do
Inferno... ti chiederai se ho mai pensato di buttarmi di sotto, sì,
l’ho pensato, e ci sono andato davvero vicino, mi ha salvato la
vita un tizio con gli occhialetti e il Borsalino che una sera è
apparso da dietro una roccia e che timidamente mi ha passato un
foglietto su cui c’era scritto in elegante calligrafia:
Fernando Pessoa, celibe, maggiorenne, eccetera, abitante dove a
Dio piace concedergli di abitare in compagnia di diversi ragni,
mosche, zanzare e altri elementi di ausilio al buon sonno e al buon
stato delle case; avendo ricevuto indicazione – anche se soltanto
telefonica – che potrà essere trattato come un cristiano a partire
da una data da stabilire; e che il suddetto trattamento da cristiano
sarebbe costituito da: non un bacio, ma la semplice promessa di esso,
e da essere procrastinato indefinitamente finché egli Fernando
Pessoa non dimostri che 1. ha otto mesi di età; 2. è bello; 3.
esiste; 4. piace alla entità deputata alla distribuzione della
merce; e 5, non si suicida prima del termine, come sarebbe suo
naturale obbligo; chiede, per la tranquillità della persona
incaricata della distribuzione della merce, che gli venga rilasciato
un certificato attestante che 1. non ha otto mesi di età; 2. non è
un racchio; 3. non esiste nemmeno; 4. è disprezzato dalla entità
distributrice; 5. si è suicidato.
(È finita la carta bollata)
A questo punto dovrebbe scriversi “Resta in attesa con ossequi”,
ma non attende niente
Fernando [1]
E lei
spaventata risponde: ma io... ma io ho solo sedici anni, non ho
ricordi del Portogallo o della Thailandia, e scappa via lasciando al
vento le parole devo andare da papà.
Ma
sull’autobus: inizia a ricordare tutto, con la fronte appoggiata al
freddo finestrino chiude le palpebre e il ronzio del motore è una
frequenza che si insedia nel cervello al posto del fluido rosa,
ricorda, ma non sono i suoi ricordi, eppure lo sono: l’incontro, la
prossimità, le attese, la trasvolata, la nostalgia, le paure,
l’incidente, la fuga, l’oblio. Il dente ricomincia a torturarla,
ora sa che cos’è, è lui seduto sulle rocce aguzze che soffre,
davanti ha una distesa di acqua salivare indifferente, dietro due
continenti gengivali che lo separano da lei, in viaggio, stanca, su
un autobus, un aereo, in un sogno, il pensiero erode e sgretola, il
gelo del finestrino trasmigra nelle viscere, osserva le mani: non ha
più le dita: osserva i piedi: sono diventati due stecchini
affusolati: osserva il riflesso di se stessa: la testa sferica:
marroncina: due antenne, due cheliceri, un’elitra lucida: cerca di
parlare e un filo di bava le penzola sull’addome impeluriato.
Appena le porte si aprono zampetta fuori dal bus in preda
all’angoscia, qualcuno la butterà in una padella per farla alla
brace e finire poi giù per l’esofago di qualche turista curioso?
Entra in casa attraverso la serratura e si inerpica su per le scale
rifugiandosi nella propria cameretta.
Di notte,
sempre: finalmente si sveglia, finalmente si addormenta. Nel silenzio
avverte solo le sue zampe sul pavimento che si avvicinano verso i
piedi-radici del babbo, sanno di menta, senza pensarci troppo affonda
le piccole chele nel legno, fora la corteccia, sgretola i tessuti
tenaci e fibrosi del tronco, mangia, mangia il padre, l’albero che
porta i segni dello schianto, l’uomo che ha sfiorato la morte, e
lei, così piccola e invisibile, scava profondi cunicoli nel passato,
gli intercapedini si incrociano, gallerie prendono vita in un dedalo
portato avanti dal suo alacre sgranocchiare e alla fine il ceppo alla
base si riscinde in due gambe, i rami di nuovo braccia, le foglie
dita, il grumo contorto testa, il pulcino polifemico viso. È
sfinita. Intorno a lei trucioli e dune di segatura, finalmente si
addormenta, finalmente si sveglia, mette un piede fuori dal letto, si
ravvia i capelli dietro l’orecchio e con passo felpato segue il
brusio che giunge dal salotto, non vuole farsi sentire, ssssshhh,
scivola lungo il corridoio venendo osservata dalle foto di famiglia
insospettite dal suo avanzare di soppiatto, mette la testa a filo con
lo stipite della porta e vede una poltrona dal cui schienale sbuca
una nuca brizzolata, un metro più avanti la tv trasmette il
telegiornale.
Qualche
tempo dopo fa un grande respiro e decide di inviargli un messaggio
che termina così: ... e quindi mi dispiace davvero essermene andata
all’improvviso l’altro giorno. Ti chiedo di scusarmi, non so cosa
mi sia preso, il fatto è che mi piaci davvero tanto e forse ho avuto
paura dei miei sentimenti, di quello che potrei provare in futuro.
Posso comprendere il tuo dispiacere e non credere che io abbia vissuto
bene questo lungo periodo di lontananza, sappi che non c’è stato
secondo in cui io non ti abbia pensato e che certe sere non avrei
desiderato altro che un tuo abbraccio, quando mia sorella ha dato
la notizia dell’incidente di papà ho sentito un vuoto enorme, come
se avessi la colpa di non essere lì vicino a lui, ti chiedo ancora
scusa e te lo chiederò per l’eternità se sono improvvisamente
scomparsa, non ti supplico nemmeno di provare a capirmi perché non
ci sono riuscita io stessa, ti assicuro però che mio padre è una
brava persona e io volevo solo stargli vicino in un momento
difficile, una zia di cui non ti avevo mai parlato ci ha ospitati in
un piccolo villaggio vicino a Chiang Rai, se uno dei prossimi giorni
ti va possiamo fare due chiacchiere durante l’intervallo a scuola,
non sono pazza :), ho bisogno di tempo e di chiarirmi le idee, penso
che potremmo iniziare a sentirci di nuovo via Skype perché mi
mancano molto le nostre lunghe conversazioni intercontinentali e mi
manca anche un po’ Lisbona (non in inverno però!), qui è iniziata
la stagione delle piogge e dei grossi serpenti scendono giù dalle
montagne per cercare i topi nelle fogne, sarò sincera, su quella
panchina è stato bellissimo e per poco non soffocavo dall’emozione,
che stupida!, papà ora sta meglio anche se credo che non guiderà
più il taxi, il futuro è un mistero per tutti ma sono onesta nel
dirti che desidererei tu facessi parte del mio, se ci pensi “tu”
è una parola troppo sottovalutata perché è l’unica e possibile
estensione di “io”. Ora sto scrivendo da sotto le coperte, tra
qualche ora sarà mattino e poco fa ho sentito su Youtube una canzone
che dice “mentre ti guardo noto che il tuo equilibrio cade
in fondo ad un nero caffè che fingi di dover bere in fretta prima
che io ti riveli che ti ho dentro come un fuoco che odio ma che non
spengo”, spero che questi versi ti arrivino
ovunque tu sia adesso, se a qualche isolato da qua o dall’altra
parte del mondo, non avere paura e non dimenticarmi, ti supplico,
dentro di me vive la convinzione che ci incontreremo ancora, oltre lo
spazio e il tempo, in altri corpi, nei nostri, nei loro: occhi negli
occhi, respiri nei respiri, cuori nei cuori.
_____________________________
[1] Fernando Pessoa, Lettere alla fidanzata; Adelphi 2012
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[1] Fernando Pessoa, Lettere alla fidanzata; Adelphi 2012