Quello che c’è è
lì: quasi fosse neorealismo, come alcuni lavori provenienti
dalla Romania nell’ultima decade, Męska sprawa (2001)
vorrebbe essere una polaroid di quel momento preciso, vedremo alla
fine se ci riuscirà, intanto annotiamo le impressioni più
calde: il seppiato aliena, se fosse stato a colori il krótkometrażowy
di Sławomir Fabicki avrebbe avuto una natura altra, con ogni
probabilità più mansueta. Poi si ravvisa il contesto
sociale, nei limiti della rappresentazione qualche eco arriva
flebile: la povertà è la povertà, non ci piove
nel vedere la madre che assembla bambole di plastica in casa, o i
vestiti sempre luridi del protagonista (intenso: la cosa migliore
dell’opera) [1]. Addentrandoci si ha la percezione che ci sia
dell’atro, il padre per l’appunto è un fannullone, e un
violento, quindi il “lavoro” della mamma tocca la tacca
dell’umiliazione, definitivamente. Più giù ed è
chiara l’incapacità di tutto il sistema attorno al ragazzo
nel fornire un aiuto, tanto per dire: l’allenatore è più
un Kapò che un Mister (anche se si redime sul finale), la
scuola punisce quando dovrebbe cercare di capire, e così ogni
pietra si adagia sulle scapole di Idczak già martoriate dalla
cinghia.
Quello che manca, e
manca, sono delle competenze. Mancano: verso la fine il taglio di una
scena è indecente, tremolio in primo piano e l’allenatore
spaesato che guarda in camera. Al di là dell’episodio
l’assenza di professionalità è un fardello che
Fabicki non è in grado di scacciare via (inevitabile dato un
budget che immagino da terzo mondo cinematografico), ad ogni modo la
compensazione è data da una genuinità di fondo, laddove
non arriva la tecnica ci arriva tossicchiando e tra mille affanni il
cuore. Fabicki ha il merito di non cedere alla chiusura accomodante
ed anche se in modo raffazzonato l’immagine di Idczak raggomitolato
insieme al vecchio cagnolino (suo alter ego) dentro la gabbia, e il
fratellino che gli sillaba di non uscire (fuori ci sono gli adulti,
il dolore, il male, la cinghia) rimangono e fertilizzano.
Quindi: la polaroid del momento è data, forse anche di più, Fabicki con la sua camera a mano gradirebbe portarci nel freddo di quel campetto periferico, accettiamo l’invito ringraziandolo ma biasimandolo per non essere al livello che ci aspettavamo, poi, nel dirci addio, vediamo un lampo di Verità, in quello stacco che va dal volto in lacrime del bimbo alla schermata nera c’è dentro un universo.
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[1] Interessante notare
che sul muro del campo di allenamento (in duro cemento) campeggiano
gli stemmi di Milan, Barcelona e Ajax. In un quadro come quello
illustrato quei simboli sì sportivi ma in realtà
fortemente capitalistici stridono con la realtà che
freddamente contemplano, sono miraggi, fari irraggiungibili puntati
sul niente, su bambini che si accapigliano dietro ad un pallone
spelacchiato.