Una distesa di neve e
ghiaccio. Poi un uomo, intabarrato.
Corto norvegese che si
propone con brevità di enucleare da un altro punto di vista
una delle peculiarità più rilevanti nella Storia della
Norvegia, ovvero la tendenza, fin dagli albori, all’esplorazione
delle impervie zone circostanti [1], facendo così dei
vichinghi o di Roald
Amundsen spavaldi avventurieri più forti delle indicibili
tormente che dovettero fronteggiare, diventando poi delle vere e
proprie icone eroiche immarcescibili (e le ultime immagini di Mannen
fra isødet [2012] ci dicono questo: la museificazione di
sé come atto di assoluto narcisismo). Eppure Dahlsbakken tenta
di rovesciare l’assioma del prode viaggiatore raccontandoci la
plausibilità di un evento che non finirà mai negli
annali, succede questo (e sicuramente sarà successo): il dio
si disdivina, l’uomo circondato dall’accecante candore cede alla
propria brama di fama e di potere. Praticamente è quello che
salta periodicamente fuori dal mondo della politica, circo di
sciacalli in giacca e cravatta, come qui: l’osannato che nasconde
un segreto non rivelabile (la porta si chiude al nostro sguardo,
abbiamo visto la macchiolina sulla diapositiva!), il fine raggiunto
con mezzi molto deprecabili. E quindi nel suo piccolo The
Devil’s Ballroom
arriva a mostrarci una traslitterazione figurativa che va oltre
l’omino disperso al Polo Nord tutto tronfio per l’impresa
compiuta a scapito di una povera innocente, è un monito, una
narrazione che si apre e si inquadra nella contemporaneità,
quella insulsa dei titoloni sui giornali.
Esagero?
Un po’ sì. Al lavoro di Dahlsbakken mancano ancora le
necessarie qualità per potersi elevare davvero in un campo
superiore, e il motivo, come sempre, è dato dal metodo perché
il regista, e lo confermerà coi lavori successivi che almeno
sulla carta appaiono piuttosto allineati al mercato mainstream, pur
operando in modo encomiabile impagina il film in un taglio non
abbastanza “artistico”. Non vuole essere un discorso snobistico,
il punto è che un occhio come il mio, e come il tuo che adesso
sta leggendo, ha la necessità di stili altri, di grammatiche
innovatrici, di collisioni, ecc. Il cosiddetto compitino, la massima
del senzainfamiasenzalode, rischia di portare al deprezzamento del
manufatto: se la forma tentenna anche il contenuto precipita
nell’incaglio.
Che
banalità vado ad asserire, yawn.
__________
[1] L’occasione è
ghiotta per consigliare la lettura de La camicia di ghiaccio
(Alet Edizioni, 2007) di William T. Vollmann. Primo tassello di un
monumento letterario che ha come obiettivo quello di costruire la
storia di un Paese che non ha Storia: l’America.
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