Viaggio tra
la poesia e la Storia in quel di Arcadia, una regione del Peloponneso
lontana dal mare fatta di montagne, alberi, fiori, piccole cittadine
e soprattutto mito, tradizione e folklore, questi ultimi tre aspetti
sono esplicitamente ricercati dal nostro tour leader, Filippos
Koutsaftis, regista greco di lungo corso principalmente attivo come
direttore della fotografia, che nel suo girovagare da un paese
all’altro della zona infarcisce la questione con richiami alla
mitologia ellenica o comunque ricorsi storici riguardanti il
territorio circostante. Si può dire che Arkadia haire (2015)
sia un documentario “di scavo”, nel senso che Koutsaftis mette un
po’ i panni dell’archeologo e tenta di scendere giù lungo le
pieghe del tempo, per farlo si avvale in primis di veri esperti
arrivati lì per riportare alla luce reperti interrati da secoli (si
tratta di volontari e studiosi provenienti dall’Europa
settentrionale, nessuno, come evidenziato, dalla Grecia) e
successivamente, attraverso gli strumenti del caso, è lui stesso a
recuperare oggetti, storie e ricordi che arrivano dal lontano
passato. Il film è abbastanza simile ad altri che sono passati sugli
schermi dagli anni ’10 in poi, la tendenza a voler fare del cinema
uno spazio di incontro tra l’ieri e l’oggi, e mi è parso che
Koutsaftis punti ad un tale equilibrio, si ravvisa ormai in parecchi
documentari, in particolare quelli che hanno un’ambientazione
agreste, ciò non deprezza l’argomento che comunque viene
affrontato, del resto posare lo sguardo su mondi dove sono ancora
vivi dei rituali primitivi (notevole la scena in cui si riprende una
cerimonia con dei ramoscelli per poi vederla inscritta su un antico
vaso) e dove in generale l’esistenza occidentale che viviamo è
distante eoni da quella in video, è pur sempre un’occasione di
conoscenza che non andrebbe sprecata.
La forma di
Arkadia haire si offre per
mezzo di un’articolazione così strutturata: un paio di brevi
interviste alle persone incontrate sul tragitto, molte sequenze
naturalistiche che però non mi spingono a parlare di contemplazione,
digressioni documentate con dettaglio dei ritrovamenti sul campo. Nel
globale parliamo di un lavoro che non si adagia totalmente al
concetto di ordinarietà perché in lui ribolle una mistura di
liricità ed esplorazione empirica che si scuote dalla routine del
settore, però al contempo non si fa un passo al di là del consueto.
Escludendo due rapidi flash inaspettati che non avranno seguito, mi
riferisco agli improvvisi paralleli visivi con Lo specchio
(1975) di Tarkovskij e il celebre dipinto Ragazza col
turbante di Johannes Vermeer, il
metodo di Koutsaftis si presenta a noi vedibile ma sorpassato, e a
riprova di un’idea non troppo moderna c’è, secondo me, un
inopportuno perché onnipresente commento in prima persona effettuato
dal regista stesso che copre ogni minuto del girato, un flusso di
pensieri, descrizioni e nozioni che ho trovato soffocante, se inoltre
aggiungiamo espedienti quali i ralenti (arghh!) o delle
sottolineature musicali, l’opera non riesce ad ingranare una marcia
capace di farle prendere velocità, ed è un peccato perché ha gli
argomenti giusti per risultare interessante, diciamo che è un
“problema” di come e non di cosa. Una visione, ad ogni modo, non
significherebbe buttare al vento il proprio prezioso tempo, in giro
si incrocia di molto peggio.