La pista che fa progredire la narrazione si sdoppia in un
procedimento che a lungo andare va a mescolarsi in un tutt’uno. Lo
scenario iniziale è l’Ungheria dove il mite György scova
nell’archivio in cui lavora un anonimo manoscritto che una volta
letto lo illumina d’immenso e lo spinge in un viaggio folle e
sgangherato a New York, nel centro del mondo, per trascrivere
l’intero malloppo su Internet e donargli così l’eternità. Il
Krasznahorkai che ritroviamo è il solito autore incontenibile fatto
di periodi infiniti privi di punti a capo, tuttavia qui, all’interno
di ogni capitolo, c’è una suddivisione numerata in paragrafi che
perlomeno alleggerisce l’impatto visivo dei granitici blocchi di
parole, nella sostanza, comunque, non cambia granché: la sua
scrittura tentacolare trascina il lettore in un vortice di frasi che
promulgano sintassi e strutture ai limiti dell’impossibile, a tal
proposito un espediente utilizzato in G & g è la
costruzione, anche di una singola sezione, caratterizzando la voce
narrante come se si trattasse di un resoconto espresso ad un terzo
interlocutore, qualcosa del tipo: ora, dear friend, ti
racconto cosa è successo ieri. Potrebbe apparire una sciocchezza, ma
lo scheletro testuale è praticamente tutto composto da tale
stratagemma e ovviamente non possiamo neanche immaginare la
complessità insita in una concertazione del genere. Ad ogni modo,
quando Korin giunge nella Grande Mela (non senza buffe disavventure
che danno un’inaspettata sfumatura comica), il gioco metaletterario
di Kraszna sale a galla, ed è un gioco che si stratifica su più
livelli nel quale si ha: A) un racconto-figlio raccontato dentro al
racconto-madre, B) un racconto ribattuto a computer da un lettore che
diventa dunque scrittore, C) un racconto “vero” (il volume che
stringiamo in mano), uno “finto” (quello tenuto da Korin),
entrambi falsi e, nella concettualità dell’opera che vuole evadere
dalla letteratura per approdare nella realtà, entrambi veri. Capite?
Non troppo? È normale perché anche io, pur avendoci messo tutta
l’attenzione possibile, sono incappato in interrogativi non
risolti, ho comunque trovato una via di fuga nella vibrante
energia che serpeggia in questo labirinto di proposizioni.
Ma
chi è György Korin? A me, per timidezza e bonarietà, è parso il
prototipo del barone Wenckheim, potrebbe trattarsi al contempo sia di
un uomo sano in un mondo di matti che l’esatto contrario, un buono,
un sognatore, probabilmente, tornando al risvolto meta, l’alter ego
di László che ha vissuto per un certo periodo a New York (oltre che
in vari altri Paesi sparsi per il globo) e il cui padre si chiamava
proprio György. Il Nostro archivista è un personaggio letterario a
dir poco adorabile, sbeffeggiato dalla maggioranza degli esseri umani
che incontra sulla strada, calato in un cosmo di cattiveria e
meschinità (il saluto alla terra natia è una tentata rapina da
parte di un gruppetto di ragazzini, il benvenuto negli Stati Uniti è
un pugno dritto in pancia), circondato da soggetti deprecabili (vedi
il traduttore) o alquanto strambi (il collezionista di manichini) e
aggrappato alle figure femminili (la splendida hostess
dell’aeroporto, la succube compagna del signor Sárváry),
incarna, sotto un certo punto di vista, un romantico ideale di
letterato che mette davanti ad ogni cosa, anche a se stesso,
l’importanza capitale della letteratura che diventa il fine ultimo
di un’intera vita. E in uno slancio teleologico così radicale fa
quasi tenerezza - o almeno a me l’ha fatta - perché il cieco
entusiasmo con il quale Korin parla del sedicente capolavoro
rinvenuto in Ungheria è il medesimo che abbiamo noi quando
incontriamo manufatti artistici che ci portano in stato di ebbrezza,
e allora, se il caro György
arriverà a dire che Kasser, Bengazza, Falke e Toot, i quattro
misteriosi tizi a spasso per le diverse epoche, gli sono entrati
dentro, io potrò affermare con orgoglio l’identica cosa nei suoi
riguardi.
Al
di là delle innegabili qualità tecniche del romanzo, c’è una
questione che me lo fa prendere maggiormente a cuore, ovvero che,
Guerra e guerra, è un
progetto fallito. L’intenzione di Krasznahorkai nel far
compenetrare la materia finzionale con ciò che sta fuori di essa si
è effettivamente concretizzata, è lo scrittore che in appendice
spiega i passaggi che hanno trasportato la conclusione del libro
nell’universo reale con l’intitolazione di una targa affissa
sulla parete del museo Hallen für Neue Kunst di Sciaffusa.
Cito pari pari: “L’intero materiale, dai messaggi composti di
singoli frasi al testo della lettera, e poi dal romanzo sino al
filmato dell’inaugurazione della targa in Svizzera, è stato
raccolto e pubblicato come opera unica in un CDROM”. Se
contestualizziamo l’insieme del progetto, pensato e realizzato
negli anni ’90 agli albori della Rete, non si può negare che i
fatti siano andati come preventivato. Il sito Web, la placca e la
scultura di Mario Merz, certificano l’esodo dall’ambito cartaceo,
però Krasznahorkai non era stato
abbastanza lungimirante, non aveva fatto i conti con l’implacabile
scorrere del tempo. A novembre 2020 l’indirizzo warandwar.com risulta
inattivo, il museo svizzero ha chiuso i battenti e con esso la targa è stata
rimossa (l’ultima pagina dell’edizione Bompiani riporta la foto
del muro spoglio e io, per curiosità, ho tentato di localizzarlo su
Google Maps senza esito positivo), Merz è morto e non ha potuto
piazzare la sua installazione nel paese di Korin (Gyula, dove è nato
LK), il CD, che chissà dove sta, è un supporto obsoleto ormai quasi
in disuso. Alla fine è l’oggetto fisico e tangibile, il buon
vecchio libro, che sopravviverà e che rimarrà nel futuro, sicché
della nostalgia mi prende e mi avvolge, è una sconfitta dolce, piena
di tepore.
GUERRA E GUERRA E ME – UNA POSTILLA INESSENZIALE
Sulle ali dell’immediata euforia post-lettura e alla luce di un
testo crossmediale che nonostante i nostri occhi moderni vedano un
po’ superato mantiene vivo il tessuto connettivo che da lui
si dirama, lo scrivente, nient’altro che un banale abitante dello
Stivale, un lettore come mille altri, ha scorto, nell’organismo
ipertestuale di Guerra e guerra, una microscopica particella
alla quale può collegarsi. Il tratto, si fa per dire, unificante è
dato da Mario Merz, uno degli esponenti del movimento artistico
chiamato Arte povera, ebbene tale denominazione fu coniata dal
critico genovese Germano Celant, e io, per ragioni che non sto qui a
spiegare ma che assicuro non hanno niente a che fare con l’arte, in
passato sono stato molte volte a stretto contatto con il signor
Celant, peraltro senza mai rendermi conto della sua caratura a causa
della mia imberbe età. Ora, avrei tranquillamente evitato di fornire
un’informazione così largamente superflua, ma in un romanzo che
vuole eccedere, che vuole valicare i confini, anche una notizia
specificatamente personale nella sua inutilità mi fa sognare che il
sommo senso inclusivo di una letteratura liquida possa inglobare
anche l’ultimissimo anello della catena: me, che non sono né uno
scrittore né un critico né nulla, io che al massimo posso essere un
György Korin qualunque.