mercoledì 11 novembre 2020

Mon voyage d’hiver

Il mio viaggio di inverno, è ancora Vincent Dieutre a direzionarci verso un cinema che non può fare a meno di essere rigorosamente personale e film dopo film si comprende di come l’autore francese in verità abbia girato soltanto un’unica opera, caratteristica, questa, propria dei grandi. Mon voyage d’hiver (2003) ha forma e metodologia vicine alle pellicole precedenti, perciò abbiamo nuovamente a che fare con un coacervo di ricordi che si palesano in stretta correlazione ai luoghi geografici, se prima era l’Italia a far sanguinare il cuore di Vincent, adesso è la Germania che viene attraversata durante un freddo inverno, ed ogni città, ogni tappa, diventa la rievocazione di un amore sofferto. Il link con Leçons de ténèbres (1999) è davvero forte perché anche qui c’è un perno culturale (da Caravaggio ai compositori romantici) utilizzato per dare un ritmo preciso al film, infatti i passaggi materiali da un posto all’altro sono ovviati dall’inserimento di sequenze adibite a rafforzare il legame musicale e lirico. Una differenza che spicca è però data dalla presenza fisica di Dieutre in scena, è già successo prima ma in Mon voyage d’hiver è proprio una costante, ciò alza di un filo il velo della finzione, ovvero: se, ad esempio, in Rome désolée (1995) il flusso di memorie combaciava con un assorbimento della realtà (brandelli urbani, di repertorio, ecc.), ora la figura di Dieutre davanti alla mdp sempre in compagnia del figlioccio trasmette un non so che di impostato nonostante, va detto, non ci sarà mai alcuna interazione dialogica tra i due e quindi, in un certo senso, le porzioni che li vedono sullo schermo, al pari di quelle in cui VD è con i suoi amanti, sono a loro volta delle finte istantanee d’archivio, ma il gioco percettivo non può rendere nella stessa maniera.

Per il resto non vi è granché da aggiungere a quanto il sottoscritto non ha già sostenuto, ad esclusione del maggiore minutaggio che diluisce la materia filmica producendo quello che in fondo è uno schema fatto di uguali ripetizioni, Dieutre dimostra sempre una sensibilità ammirevole nel denudare se stesso ed il suo personaggio (ammesso che vi sia una distinzione) servendosi del mezzo cinema. Trovo altresì toccante la sua scomposizione del sentimento in immagini e parole, è probabile che per lui, e di riflesso per noi spettatori, il richiamo a persone che hanno fatto parte per un certo periodo della sua vita abbia una funzione terapeutica, ricordare non lenisce mai un dolore, ma filmare un ricordo, o scriverlo, o musicarlo in un qualche modo sì. Interessante è poi Itvan ed il rapporto che ha con lui, forzando forse un poco l’esegesi si può intendere il ragazzo come un riverbero del regista, un suo fantasma giovanile che compie nel presente un viaggio del passato, c’è in effetti una fusione di piani temporali se non ho male inteso, ad un certo punto vediamo Dieutre che dorme insieme ad un altro uomo e Itvan che li riprende con una videocamera, quel momento a chi e a cosa appartiene? È una reminiscenza? È ieri? È oggi? Sia come sia, è avvertibile un gradito sfasamento destinato a certificarsi nell’ultimo piano fisso di una strada berlinese che nel giro di una sovrimpressione ritorna indietro nel tempo, una breve sequenza manifesto del film e di tutta la poetica che la sorregge.

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