Leçons de ténèbres è dunque un tragitto emotivo, suddiviso in tre città (Utrecht, Napoli e Roma) e tra due sfuggenti partner (Tadeux e Werner), ma è anche un percorso culturale (e perciò nuovamente emotivo laddove però è l’amore verso l’arte a svettare) che si plasma attraverso gli stupendi dipinti del Caravaggio. Attenzione, ora la faccenda si fa ancora più stimolante: è la visita in un museo, un museo-persona, l’uomo Vincent o qualunque altro uomo o donna che calpesta il pianeta, in tre atti, anonimi tasselli nel mosaico speciale dell’esistenza, in tre padiglioni noi visitatori esploriamo i lembi di un pensiero, le delusioni e le passioni, gli umori e i rimpianti. Gli sfondi nei quadri di Michelangelo Merisi, bituminosi e impeciati, tracimano nella realtà della pellicola dentro all’esteso mood maliconico così come le disarmanti prospettive luminose del pittore attizzano il fuoco della speranza in un nuovo incontro. Personalmente ho solo qualche dubbio quando si sceglie di inserire dei segmenti estranei che ricreano la, per così dire, atmosfera di Caravaggio con il buio attorniante e delle luci ben posizionate ad esaltare l’anatomia dei corpi nudi, sono parentesi estetizzanti che avrei evitato, ma io scribacchio su un blog dimenticato mentre Dieutre fa cinema, e lo fa davvero bene. Ad ogni modo il perdono è subitaneo: d’improvviso si diffonde la voce di Guccini ed una cosa che già è bella diventa emozionante.
mercoledì 28 ottobre 2020
Leçons de ténèbres
La
composizione di Leçons de ténèbres
(1999) non si discosta troppo da Rome désolée (1995
– debutto che qui riappare sullo schermo di una sala
cortocircuitando ancora di più il discorso generale) e, presumo, da
un’intera filmografia provvista di una coerenza autoriale da
primissima fascia, e la cosa, perlomeno al sottoscritto, non pesa
affatto perché comunque non si tratta di sterile ripetizione,
Vincent Dieutre possiede un’idea di cinema a cui non si può non
prestare considerazione perché ogni volta ci rammenta quanta
ricchezza può nascondersi dietro a delle banali riprese cittadine, e
per merito di un sapiente ricamo succede, ad esempio, che un giro in
automobile attorno a Piazza del Popolo si trasformi in un
immaginifico circolo che mescola temporalmente gli amori, o presunti
tali, di una vita. L’autore, per quello che ad oggi ho potuto
vedere, è sempre orientato ad esporre una propria versione dei fatti
nel campo sentimentale, la sua bravura sta in primis nel non scadere
nell’ovvietà e in seconda battuta nell’esprimere una matassa
così interna e personale dislocando la direzione delle immagini.
Qui, però, c’è un piccolo (ma nemmeno troppo) distacco rispetto
al film precedente o al successivo Jaurès
(2012), Dieutre infatti decide di entrare nella diegesi
autorappresentandosi nonostante la narrazione esterna in terza
persona. I risvolti meta fioriscono (basta osservare l’incipit con
il regista tramortito da una sorta di sindrome
di Stendhal) senza intaccare la nostra pazienza, il che mi ricorda,
decisamente a sproposito, che il progetto di Dieutre
ha un suo gemello letterario, sono anni che Walter Siti scrive di sé
pur non scrivendo di sé.
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