venerdì 16 ottobre 2020

Innisfree

È il 1990 e José Luis Guerín inizia ad affinare la propria idea di cinema, il distacco che c’è tra Los motivos de Berta (1984) e Innisfree è evidente, ed è tutto concettuale, tutto indirizzato ad un lavorio teorico che utilizza il contenitore documentario per esplorare le infinite forme espressive che in esso convergono e che, sempre da esso, si dipanano. Ma il punto di partenza è decisamente inaspettato: John Ford, all’anagrafe John Martin Feeney, figlio di immigrati irlandesi, ed il suo Un uomo tranquillo (1952), pellicola di per sé piuttosto biografica perché racconta di un americano che torna in Irlanda nel paese d’origine per comprarsi la fattoria dove è nato, il paese si chiama Innisfree ma nella realtà, Innisfree, non esiste. È un nome fittizio dato da Ford che effettuò le riprese esterne in diverse località nei dintorni di Galway, villaggi, prati smeraldo, fiumiciattoli, ponticelli, muretti a secco, cieli, i medesimi che Guerín, trentasei anni dopo, registra nuovamente con la sua cinepresa. Una scritta, poco dopo che compare il titolo sullo schermo, dice: “cose viste e sentite a Innisfree tra il 5 settembre ed il 10 ottobre 1988”, ma ovviamente c’è ben di più che una semplice annotazione visiva. Il film è un imperterrito rincorrersi tra il piano dimensionale dell’opera originale e quello proposto da Guerín che, di soppiatto, falsifica, intensifica, finzionalizza, solo che, nel momento in cui sei convinto di assistere ad una recita, tutto si asciuga per reindirizzarsi nel documentaristico, nel folklore locale, nell’irish pride decantato da vecchietti che brandiscono le loro pinte di Guinness.

Questo rimpallo tra Innisfree e The Quiet Man, questo ponte edificato da Guerín, è un passaggio, e quindi un viaggio, che vale assolutamente la pena fare, è la bellezza di un cinema che riflettendo su di sé non si specchia in uno sterile narcisismo ma scava a fondo trovando un ulteriore meccanismo per far progredire una storia che ne contiene altre, alcune vere (la ragazza dai capelli rossi che si muove da un posto all’altro per guadagnare qualche soldo) altre finte, ma la loro natura di verità o finzione potrebbe essere tranquillamente invertita che non cambierebbe niente nell’economia del film. Non avendo visto Un uomo tranquillo sono pressoché sicuro di essermi perso una marea di arricchenti agganci con il lavoro di Ford, però il sesto senso cinefilo mi ha fatto intuire che il dialogo è talmente stretto da trovarci di fronte a delle sovrapposizioni o, forse, delle reinterpretazioni, questo accade in maniera più marcata avvicinandoci al finale, ed è sancito da una splendida scena che ha per protagonista un cappello il quale, magicamente, viaggia nel tempo e nello spazio. Si compie una fusione che scorre sempre sui delicati binari di ciò che è rappresentabile e ciò che non lo è, una combinazione che permette a John Wayne e Maureen O’Hara di incarnasi nelle vesti di due bambini che passeggiano nella stessa strada che a loro volta hanno calpestato davanti alla mdp del regista statunitense. E in un cortocircuitare così potente Guerín si diverte a trovare soluzioni da applausi come l’esporci la sinossi di The Quiet Man per bocca dei timidi bimbetti lentigginosi, oppure ci fa sedere in uno stralcio di realismo dentro ad un pub stracolmo di gente fermentata dall’alcol che intona canti e parla del più e del meno (anche di settima arte), o ancora decreta il salto temporale definitivo con una danza che va dalla musica tradizionale al rock moderno per poi andarsene per sempre da questo coacervo di memorie cinematografiche con una camera-car che sa di malinconia.

Innisfree? Un (per me, ora) classico di un classico, un testacoda che non smette di girare, un movimento centripeto inarrestabile diretto al suo nodo centrale: il cinema.

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