giovedì 8 ottobre 2020

The Hunchback

Nonostante venga specificato da subito che la fonte di ispirazione è Le mille e una notte, guardando The Hunchback (2016) il sottoscritto ha immediatamente pensato a Bengodi, un vecchio (e bellissimo) racconto di George Saunders che narrava le vicissitudini di un gruppo di attori impegnati a vestire i panni di uomini primitivi in una specie di parco a tema, Gabriel Abrantes e Ben Rivers, magari inconsapevolmente, ricalcano un po’ nell’assunto iniziale il testo dello scrittore americano, qui, in un mondo futurizzato dove un’azienda invita (o obbliga?) i suoi dipendenti a ricoprire ruoli diversi in una realtà medioevale parallela, seguiamo le disavventure di Timmy (il gobbo) spinto a ricercare quelle emozioni umane da tempo dimenticate. La coppia registica non si limita a svolgere il possibile compitino che mette in mostra un reale con il suo eventuale opposto, la traiettoria è meno netta e sembra compiacersi non poco nel proprio sghembo incedere. L’unico contrasto davvero evidente è estetico, come riportato da Nicola Settis (link) la dimensione “storica” pur essendo girata in analogico si compone per mezzo di una computerizzazione che ricrea live gli ambienti ripresi, espediente funzionale che dà i suoi frutti percettivi: siamo nel futuro, siamo nel passato, lo sfasamento è più che piacevole.

Per il resto The Hunchback possiede una natura quasi episodica che ritengo non vada presa troppo sul serio, forse la mano che più si sente è quella di Abrantes (lo dico senza conoscere Rivers) il quale, per quanto potuto visionare, ama permeare ciò che produce di uno humor stravagante figlio di una tendenza rintracciabile in un certo cinema portoghese post-2000 che ha in Miguel Gomes l’autore di punta. Così assistiamo a scenette tra il buffo e l’inessenziale unite, e ho apprezzato la cosa perché così viene fornita una lieve impronta strutturale, alle testimonianze dei colleghi che attraverso una sorta di interrogatorio anticipano o posticipano gli accadimenti sullo schermo. La domanda che ci si può porre è: tralasciando la seducente eccentricità dell’opera che cosa rimane? La risposta non si prospetta particolarmente consolante, se ci concentriamo un attimo su alcuni degli episodi la relativa fruizione non può reggere nemmeno in un’ottica farsesca (cfr. ancora l’opinione di Settis sul boccaccesco siparietto tra la donna e il gobbo defunto), ma a soccorrerci può giungere quello che è definibile come uno “stile” (parola atroce, lo so), uno sguardo inedito che già in Palácios de Pena (2011) ci aveva saggiato della sua bontà, avrà anche parecchi difetti The Hunchback ma la voglia di approfondire la filmografia di Abrantes non è affatto scemata.

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