lunedì 29 maggio 2023

Toublanc

La seconda chance che diamo a Iván Fund dopo Vendrán lluvias suaves (2018) è Toublanc (2017), un film che pare tragga linfa dalle opere dello scrittore Juan José Saer (infatti vedremo nella diegesi una copia di Cicatrices, libro pubblicato in Italia da La Nuova Frontiera) e che sullo schermo si compone in una duplice narrazione, tra la Francia e l’Argentina, tra un ispettore che indaga su un omicidio e una insegnante di francese alle prese con una vita solitaria, nel mezzo, o sopra, sotto, ovunque: un cavallo. L’approfondimento sul cinema di Fund ci sgombera qualche perplessità, questo regista è interessato alle forme che in quanto tali può imprimere nel cinema, si vede, si percepisce, e una attenzione del genere si riverbera in un taglio molto d’essai, dilatato come quasi lo sono certi lavori orientali (sarà il ritratto mesto e appartato di Clara, ma c’è odore di Tsai Ming-liang da qualche parte), concentrato sull’inessenziale (il lungo preambolo mattutino su Toublanc), intriso di una antiletteralità che non avvalla facili accessi, narciso nell’ornarsi di vezzi estetici non proprio ordinari (lo split screen che aumenta quest’idea di doppiezza). Di ribollio nella pentola di Fund ce n’è, ovvio che risulta necessario avere un po’ di confidenza verso manifestazioni artistiche così (ma nemmeno troppa, non allarmatevi), una volta stabilita la frequenza giusta potrebbe anche sorgere una timida approvazione, soprattutto se lo si rapporta a Vendrán lluvias suaves che associava alla sottrazione un condimento marcatamente (e saramaghiamente) allegorico che in Toublanc, asciutto e laconico, non è presente (ad esclusione della presenza equina, forse).

Qualcuno potrebbe obiettare sull’assenza di una congiuntura delle due storie raccontate, l’indipendenza della sezione di lui e di quella di lei è un dato di fatto, sono parallele che in un’ottica razionale non si incontreranno mai. Però se Fund ha un merito, e a mio avviso ce l’ha abbastanza, sta nell’aver saputo trovare una coesione, una fluidità avvicinando due segmenti che, seppur non conciliabili, alla fine sembra che si sfumino a vicenda, l’uno nell’altro. Una piccola connessione la si può rintracciare nella lingua francese che riduce la distanza atlantica, ma è poco se si ha la sensazione che ci sia di più, che si tocchi una sfera non tangibile, non scritta, Toublanc fa sì che in uno spazio filmico si possa verificare una coesistenza che vive di epifanie, di velato onirismo, di specchi. Il procedimento ludico di duplicazione che Fund usa è un collante che amalgama, alcune scene sono gemelle: Toublanc e Clara sull’autobus, talune rovesciate: Toublanc interroga, Clara è interrogata dalla polizia, in generale il legame che si profila tra l’uomo e la donna, tra i loro due mondi, diventa un credibile tutt’uno, e il sentimento che svetta in assoluto, che li rende le celeberrime facce di una stessa medaglia coniata con un materiale fosco, è la solitudine. Ecco, il tratto realmente unificante, il punto di convergenza della pellicola e dei suoi protagonisti è la solitudine che essuda da una quotidianità casalinga, da un amore senza direzione (l’ultimo primo piano di Clara: piange), da una vacua investigazione malinconica. Caro Fund, dopo Toublanc, se ce ne sarà occasione, ascolterò ancora ciò che hai da dire.

mercoledì 24 maggio 2023

Adiós entusiasmo

Del lanthimosiano che c’è in Adiós entusiasmo (2017) ha scritto bene l’ottimo Il tempo impresso (link) con il quale mi sento di condividere il ragionamento che attraverso il confronto con Dogtooth (2009) porta al giudizio globale, tuttavia, fidandoci di una stringata informazione che ho trovato su un sito basco (ri-link), la fonte di ispirazione del principalmente attore Vladimir Durán sarebbe un documentario spagnolo del 1976 intitolato El desencanto. Sia quel che sia, l’esordio nel lungometraggio di questo regista colombiano (ma il film è tutto argentino) ha delle cose che all’incirca funzionano, su tutte quella di non affidare se stesso esclusivamente ad una narrazione consequenziale, all’interno dell’appartamento sussiste una condizione di stasi che non fa procedere né regredire, uno stagnamento dal carattere claustrofobico (ma tranquilli, di ossigeno ce n’è eccome, sono altre le visioni da apnea), e pur essendo io conscio che si poteva fare di più, che Durán aveva le carte in regola per risultare maggiormente incisivo se avesse lasciato in secondo piano la mera sceneggiatura, l’atmosfera da Kammerspiel spagnoleggiante, per abusare di litote, non è male. Come non è altrettanto male la scelta di scansare la metafora manifesta (problema che col tempo ho ravvisato nel cinema di Lanthimos & soci), se il micro-cosmo casalingo allestito ha un significato al di là della rappresentazione è meno evidente e meno diretto di quanto si pensi, la famiglia disfunzionale di Durán è abbastanza libera da paralleli e allegorie sociologiche (certo, potrebbe essere – o forse è – anche una sua debolezza, ma dopo le indigestioni di ondate greche per me va bene così), la madre vive separata dai figli per motivi sconosciuti (o giusto accennati) e sforzarmi a leggere dell’altro dietro tale segregazione è un’azione che non mi va di compiere.

Arrivati alla fine si percepisce comunque un senso di incompiuto, di potenziale inespresso. È come se l’opera flirtasse con una dimensione astratta senza però avere mai il coraggio di buttarcisi a capofitto, nel limbo realistico che si dispiega in formato panoramico sullo schermo capiamo che al regista interessa mettere a punto un sistema femmineo-centrico dove gli uomini sono assenti (i padri, non pervenuti) anche se presenti (i due fidanzati, idem), ad eccezione del piccolo Axelito che infatti avrà una parte decisiva nelle battute finali (è lui che squaderna varie verità sulle sorelle nel gioco di ruolo tra i partecipanti alla festa ed è ancora lui ad oltrepassare il confine nel bagno), l’inscenare un habitat muliebre del genere in contrapposizione all’assenza fisica della mamma, è una raffigurazione che rimane nel suddetto campo, è un disegno, un quadretto che si osserva con distacco. Sicuramente si è visto molto di peggio ma a furia di adagiarci su frasi fatte si finisce per fornire alibi a produzioni che invece di puntare all’eccellenza si accontentano di galleggiare nell’oceano dell’autorialità, non che codesto mare sia un’infima pozzanghera, però è talmente pieno di imbarcazioni che raggiungono un sufficiente livello qualitativo da spingerci a desiderare film che sanno inabissarsi verso il fondo o magari decollare verso il cielo, Adiós entusiasmo staziona sulla linea di un ben noto orizzonte, a voi le conclusioni.

lunedì 22 maggio 2023

Carne

Tra la suora e Gesù Cristo spunta un terzo incomodo.

Continua a non convincermi il cinema di Carlos Conceição, non ce l’ha fatta con i due esemplari più recenti Versailles (2013) e Bad Bunny (2017), non poteva farcela neanche con un lavoro degli esordi quale Carne (2010) è. Per iniziare il contorno estetico, almeno quando l’azione si svolge nell’edificio fatiscente, sa molto di soap opera in costume, di quelle dozzinali che vanno in onda al pomeriggio per le casalinghe, non so se sia stata una mossa voluta dal regista per poi sconfessare tale percezione con una cappa pruriginosa, ma tant’è questa proiezione fortemente impostata (anche le musiche di stampo classico amplificano ciò) e ostentatamente recitata l’ho parecchio patita, non è roba che fa per me, e purtroppo un’impostazione così improntata alla finzione mi deprezza anche tutta la portata semantica del corto. Che poi, detto fuori dai denti, spero proprio che il principale obiettivo di Conceição non fosse l’impatto da sexploitation di una monaca che si appresta a spompinare un tipo conosciuto in un bar, i tempi di Jess Franco e compagnia bella sono passati da mo’, però è innegabile che vi sia un voler fare leva sul contrasto tra la dimensione sacra e spirituale con l’antitesi profana e carnale, al solito sono le modalità a decidere il possibile apprezzamento: non riesco ad accontentarmi di una messa in scena evidente ed in priamo piano quando si mira alla trascendenza, e che passi attraverso il peccato poco importa, gli stati soprasensibili possono manifestarsi in maniera proteiforme. 

Nulla ha aggiunto inoltre lo scompaginamento temporale delle sequenze (prima la “punizione”, dopo il “tradimento”), men che meno i palesi riflessi di una religiosità che oltre a palesarsi nei ruoli dei protagonisti vengono ulteriormente spiattellati con la lettura di alcuni stralci biblici. Che lei sia La Donna-Eva, che lui divenga L’uomo-Adamo, che rimangano figure ancorate alla religione, che se ne sgancino o che il Salvatore ceda alla tentazione (non c’è il serpente ma una pioggia di mele, unico frangente dove si smuove un minimo la situazione) francamente sono aspetti nell’area dei significati che, esposti così, comportano al massimo qualche blando sbadiglio. No davvero, con Conceição non trovo un punto di incontro, i suoi colleghi portoghesi non sono certo degli avanguardisti però hanno trovato una chiave, un taglio della narrazione che riesce a non pesarmi. Boh, vedremo magari il lungometraggio d’esordio Serpentarius (2019) se avrà di meglio da proferire, qui concludo segnalando che la suora è interpretata da Anabela Moreira mentre Gesù da Carloto Cotta, entrambi si ritroveranno anni dopo sul set di Diamantino - Il calciatore più forte del mondo (2018).      

venerdì 19 maggio 2023

Yumen

Abbiamo un altro nome su cui puntare le nostre fiches: J.P. Sniadecki, cineasta americano del Michigan, antropologo e docente universitario, già collaboratore di Verena Paravel (nel 2010 hanno girato insieme Foreign Parts) e, non so con quali funzioni, anche di Salomé Lamas (nei crediti finali di Eldorado XXI [2016] c’è un ringraziamento per lui), nonché autore di diverse produzioni orbitanti nell’area documentaristica con una particolare attenzione all’universo cinese. Ogni qual volta si approccia un nuovo regista senza conoscere niente del suo passato si brancola un po’ nel buio ed il rischio di prendere una cantonata è dietro l’angolo, però da qualche parte bisogna pur cominciare e tale parte ha preso forma e sostanza in Yumen (2013). Giusto per confutare l’attrazione del regista per la Cina, eccoci nella provincia di Gansu in una ex oil-town, Yumen appunto, ora abbandonata e lasciata all’incuria del tempo. In uno scenario che sa di Černobyl’ in versione mandarina si capisce praticamente da subito che il film avrà mire più artistiche che meramente illustrative, gli interventi di Sniadecki sia nel settore sonoro che in quello video sono abbastanza evidenti, la tendenza è quella di prendere le distanze da una confezione accomodante in favore di una ricerca che mette in campo istanze differenti come la danza o la street art, tanto che con il progredire della pellicola la centralità di Yumen perde di fibra, sì qua e là vengono buttate alcune informazioni (tipo il perché si è svuotata) però l’atmosfera in cui si entra, parecchio eccentrica devo dire, avanza sulle possibili intenzioni esplicative. È un aspetto positivo, negativo o neutro?

Dipende da quali aspettative si hanno, il sottoscritto è sempre ben lieto di visionare titoli che si prendono dei rischi pur di proporsi in maniera inusuale, Sniadecki per dare una scossa all’impianto realistico inserisce dei personaggi che vagano tra le macerie cittadine. Due di essi, Huang Xiang e Xu Routao, oltre ad essere degli artisti locali, figurano anche come co-registi, e insieme ad altri bizzarri esseri umani si aggirano nell’ambiente post-atomico quasi fossero dei fantasmi. L’interpretazione ectoplasmica va per la maggiore nei commenti in Rete e pure io mi ci accodo, infatti, attraverso un commento esterno, udiamo le loro voci raccontarci brandelli di un passato che nell’incertezza non attribuirei a nessuno di loro, al massimo direi che sono gli echi di Yumen, in qualche modo, a farsi ancora vivi. Non c’è però un afflato nostalgico/malinconico come abbiamo visto in altre opere similari, la piega presa da Yumen è troppo scollata e laterale per lavorare sugli ipotetici ingranaggi emotivi, lo score stridente (brani che oscillano tra il popolare ed il moderno), i balletti (… mi permetto di decretarli così: goffi, ma probabilmente era una cosa voluta) e i volti ritratti sui muri, sono elementi che, e qui concordo con la recensione di Marco Chiani (link), trasportano il film nella performance-art, senza scordare un irrobustimento finzionale (tra un ragazzo e una ragazza pare si crei una sorta di legame). Alcune scelte tecniche e sintattiche seminano interrogativi che germogliano in un film più strano che bello, il che può comunque essere un buon motivo per spingersi nella visione.

mercoledì 17 maggio 2023

Voices from Chernobyl

Potremmo considerare La supplication (2016) del lussemburghese Pol Cruchten come la risposta arty alla serie televisiva Chernobyl (2019)? Be’, perché no? Le due opere viaggiano su traiettorie antitetiche però condividono la medesima meta, ovvero raccontarci quel che è stato e quello che è rimasto del disastro di Černobyl’. Cruchten, a differenza dei colleghi di HBO, trae spunto da una base letteraria, il film è infatti un adattamento del libro Preghiera per Černobyl’. Cronaca del futuro (E/O; 2002) scritto dal premio Nobel ’15 Svjatlana Aleksievič, e si avvale di un procedimento che mette in relazione i luoghi sopravvissuti all’esplosione così come sono ora con le riflessioni dei superstiti in commento off. L’aspetto peculiare dell’opera è che se gli ambienti sono “originali” (non è specificato ma immagino che saremo a Pryp"jat’ o zone limitrofe), i testimoni sono invece attori, se non proprio tutti, sicuramente una buona parte. Questa scelta, unita all’utilizzo del francese per esporre i pensieri sullo schermo, crea un discreto divario percettivo durante la visione, mi spiego: sull’argomento abbiamo già visto due lavori: Pripyat (1999) e The Babushkas of Chernobyl (2015), un dittico dall’essenza esclusivamente documentaristica, cosa che non si può altrettanto dire di Voices from Chernobyl, il motivo è dato da un congiungersi di strani rivoli artificiali che solcano l’impianto illustrativo, il susseguirsi di uomini, donne e bambini che riversano la loro storia ha una cifra quasi teatrale che può essere positiva o negativa a seconda di come si vuole intendere il cinema. Per me, che amo l’originarietà e la verità dell’oggetto ripreso, un intervento massiccio del regista non mi ha fatto venire la pelle d’oca, sebbene sia doveroso riconoscere l’alto lignaggio formale che costituisce il film.

La questione non mi è affatto nuova e si ripresenta ogni qual volta un titolo oscilla tra la rappresentazione ed il suo possibile opposto. La mia opinione è che nel materiale che si cattura, quindi nella chiamiamola realtà, ci sono a prescindere tutte le storie di cui un autore ha bisogno, trattandosi di una sostanza malleabile con gli opportuni accorgimenti possono uscire fuori dei capolavori di limpida semplicità. Cruchten non ha creduto nel potenziale nascosto dietro e dentro le immagini nude e crude, invece di illuminare con il suo lavoro quei cristalli narrativi che anche un documentario custodisce, ha preferito forzare optando per un’energica costruzione finzionale. Il risultato immediato è una perdita di naturalezza globale e il fatto che si percepisca in maniera gravosa la mano del demiurgo inaridisce la portata semantica, non è che non si crede al dolore di una vedova o alle paure di un bimbo malato, solo che con un’impostazione del genere, si crede, anzi si sente un po’ meno lo spettro dei sentimenti perché è inquinato da una predisposizione studiata a tavolino. Il rovescio della medaglia si palesa in una composizione dal carattere artistico, una sostanza pittorica se non fotografica piena di istantanee che manderanno in visibilio gli esteti del settore, Cruchten qui sconfina addirittura nel surreale con pennellate degne dei migliori visionari (la porta nel bosco; la pioggia nell’ufficio; l’albero luccicante; gli inserti animati; la citazione a Stalker [1979] del finale), se tanto vi basta per raggiungere il vostro gradimento allora sapete che fare, in caso contrario calma e gesso, oltre l’ammirabile confezione esterna La supplication possiede un deficit teorico che per alcuni (eccomi) potrebbe essere uno scoglio.

lunedì 15 maggio 2023

Triangulum

Triangulum (2009 o forse 2008) ha tutta l’aria di essere un sogno ad occhi aperti in una qualche città mediorientale, certo liquidare la faccenda in maniera così sbrigativa è troppo facile, però quando nel cinema vengono annientate le coordinate del comune vedere ricorrere ad una chiave di lettura onirica è più un rifugio che una libera interpretazione. Di sicuro, comunque, non vi è stupore alcuno perché se si è ammiratori della coppia Gustavo Jahn - Melissa Dullius questo cortometraggio rientra appieno nel loro modo di fare arte. Solo che, forse per via di trovarsi agli albori della carriera, Triangulum, se rapportato alle altre opere del duo, risulta il più impenetrabile. Lungi da me considerarlo un difetto, al massimo l’estesa cripticità può essere uno stimolo che non è affatto detto debba venir obbligatoriamente decrittato. Sia come sia riporto quanto visto sullo schermo: Gustavo, Melissa e Michel (sì, un triangolo umano) in una città orientaleggiante (è Il Cairo), succedono cose, parlano persone in inglese, portoghese, arabo, subiamo l’effetto stordente del melting pot di voci e di volti, poi il trio, come in una fiaba di Shahrazād, sale su un tappeto per ritrovarsi separato, ognuno per sé alle prese con il mondo circostante, infine si ricongiungono in un commento off circolare: “ricominciare, per mille volte ancora, ricominciare”.

Da tradizione la gabbia espositiva è quadrata, l’aspetto della pellicola è “rovinato”, qui esclusivamente negli stralci in bianco e nero, perché sì, Triangulum procede per balzi cromatici incrementando il disorientamento, un campo può essere a colori, l’annesso controcampo il suo opposto. In un montaggio bello serrato spesso è complicato identificare i soggetti che si affacciano nella diegesi, chi sta parlando? E che sta dicendo? Meglio non fondersi inutilmente il cervello dietro ai dettagli, piuttosto vale la pena allargare lo sguardo per cogliere la complessità del film, del resto i due registi sono i soliti alchimisti che aprono la scatola-cinema ad immissioni di altre discipline, senza dimenticare (e come sarebbe possibile farlo?) il rifarsi ad un linguaggio visivo che sembra disseminare simboli (la piccola piramide luminosa; la piramide-tenda nel deserto) e al contempo attingere al bacino della realtà, se non della cronaca (la donna al tavolino che parla dell’Iraq; Melissa che distribuisce dei volantini alle passanti). Pretenzioso? Presuntuoso? Altezzoso? Non escludo nulla. Ma esattamente come per In the Traveler’s Heart (2013), alla fine, si sente che il ribollio artistico di Jahn & Dullius non è un vuoto atto d’onanismo.

sabato 13 maggio 2023

Totem

Credo di aver segnato Totem (2011) nella mia wishlist all’epoca della sua presentazione a Venezia ’11, poi, come accade per molti film non rintracciabili, l’avevo accantonato fino a quando, per puro caso, mi è ricapitato tra le mani. La questione fondamentale da cui non si scappa è il lasso di tempo intercorso, dodici lunghi anni dove il cinema, in quanto arte, è cambiato, e dove anche io, in quanto essere umano, sono cambiato. Con gli occhi di due lustri più giovani magari a questo esordio firmato dalla tedesca Jessica Krummacher (una regista che è ritornata a girare soltanto nel 2022 con Zum Tod meiner Mutter) avrei visto il tutto con una maggiore benevolenza, ma adesso, dopo un numero di visioni di cui ho perso il conto, non riesco proprio a vedere in Totem qualcosa che lo possa inserire nella categoria dei “buoni film”. Per darvi delle coordinate, e per farvi comprendere di come il terreno nel frattempo sia già stato ampiamente calpestato da altri autori, il film si snoda all’interno di un’abitazione borghese mitteleuropea nella quale risiede una famiglia dai tratti disfunzionali (il benvenuto a Fiona: i bambolotti da accudire). L’orbita compiuta dall’opera è quindi hanekiana e se ci vogliamo infilare pure Seidl non si bestemmia di certo, in aggiunta, ma è più che altro una suggestione del sottoscritto, alcuni frangenti leggermente staccati dalla routine casalinga (l’addentrarsi nelle frasche; i passaggi nel tunnel abbandonato) riportano ad un approccio di scuola francese alla Ozon o alla Guiraudie, con ovviamente i necessari distinguo del caso. Comunque, pur mettendoci il massimo dell’impegno, è difficile trovare elementi che spiccano, la sensazione di déjà vu è purtroppo davvero forte.

Un’ambiguità sì e no strisciante caratterizza la pellicola (nell’incipit, quando ancora non si sa quale sarà l’impiego di Fiona, si crea una tensione che però perderà nerbo col passare dei minuti) coniugata ad uno stress sessuale che, attraverso episodi un po’ così (sia con la madre che col padre), sembra sempre sul punto di esplodere, in tale area para-erotica la sequenza migliore vede Fiona seguire la figlia col fidanzato in uno scantinato con la mdp che si e ci getta in una stanza immersa nel buio. Ancora il “già visto” fa capolino con insistenza, di nuclei famigliari con più di una rotella fuori posto il cinema recente e non ne è pieno zeppo, alla Krummacher non le avremmo chiesto di essere la risposta teutonica a Lanthimos però il scivolare in un anonimo torpore non è la fine che si auspicava per il lungometraggio. Dell’impianto critico rivolto alla società e alle cellule che la compongono non mi sento di esprimere niente di particolare perché siamo lontani da un ritratto all’arsenico, gli squilibri della moglie, quelli del genitore, la strana relazione dell’adolescente Nicole con un ragazzo più grande di lei, sono unità che non riescono a spaccare lo schermo in due, è roba priva di qualunque carica incendiaria. Deboli sussulti per: due finestre introspettive di Fiona che ragiona sul presente e sul futuro, l’apparizione dello scorpione anticipata dal racconto di Jürgen e il fotogramma conclusivo che soffia un’ombra funerea sulla vicenda (oltre al costituirsi in una forzatura narrativa, ma è solo una mia opinione). Dodici anni fa erano dodici anni fa, eravamo diversi, cercavamo altro, forse si sarebbe creato un legame, un interesse, un feeling, adesso no caro Totem, adesso no.

giovedì 11 maggio 2023

Vendrán lluvias suaves

Il mio giudizio tranchant è questo: Vendrán lluvias suaves (2018) è un film che esce dall’ordinario ma che non entra nello straordinario, bon, si potrebbe anche archiviare qua la faccenda ma dopotutto credo che comunque il lavoro dell’argentino classe 1984 Iván Fund qualche parola d’approfondimento se la sia guadagnata, di sicuro ciò che gli permette di non appiattirsi alle visioni più commerciali è un apparato formale che si gioca qualche carta d’autorialità, daltronde nella crew di Fund c’è l’ottimo Martín Solá (recuperate Caja cerrada [2008] e The Chechen Family [2015]) per cui sappiamo già da subito che qui la professionalità è presente, poi che dire, si capisce l’intenzione di volersi prendere tempi e angolazioni che in altro cinema non ci sono (mentre ancora in un altro ci sono eccome e a conti fatti non sorprendono granché), al pari di una sospensione del racconto tradizionale dove non è che manchi un sistema narrativo, ma è piuttosto l’assenza di un intreccio consequenziale a segnalarsi, nulla da eccepire a proposito, il sabotaggio dei gangli scritturiali è sempre ben accolto da queste parti, resta però tangibile per il sottoscritto l’impossibilità di trascendere davvero la storia che vediamo, se ripenso a Leones (2012), interessante debutto anch’esso proveniente dall’Argentina dove nuovamente dei giovani vagabondavano in un mondo a parte, allora lì sì che si avvertiva uno sfondamento percettivo, nel film di Fund no, o almeno non in maniera particolarmente rimarchevole, e forse non era nemmeno nelle mire del regista cavalcare onde metafisiche, l’inquadramento da fiaba sottolineato da una divisione in capitoli molto “libresca” tende ad addolcire la dimensione filmica, infatti il ritratto anagrafico che ne risulta è quello di un’infanzia smarrita, sola, in balia del nulla, ma mai messa nelle condizioni di mostrarsi in un respiro esistenziale più ampio.

Che poi ci sia una mappa simbolica dietro al disegno di Vendrán lluvias suaves ritengo sia una questione inopinabile, piaccia o meno le cose sono abbastanza dirette: l’elettricità va via (il che mi ha riportato ad un ulteriore esemplare albiceleste, History of Fear [2014], che si avvaleva dei blackout per farci sapere un po’ come la pensava) e gli adulti cadono in un sonno comatoso. Senza nonni e senza genitori i bambini si ritrovano in una realtà che per Fund può essere una metafora della loro età, in buona sostanza il manipolo di ragazzini prende l’improvvisa narcolessia dei grandi come un’avventura (e la pellicola, se la si osserva senza troppi onanismi celebrali è proprio così: un’avventura), un gioco collettivo dove non mancano momenti di svago e di preoccupazione, di paura e solidarietà, probabilmente, anche se non amo affatto la seguente etichetta, Vendrán lluvias suaves è una vicenda di formazione perché in un contesto dove le figure genitoriali si assentano, sono i figli, ora, a doversi occupare di se stessi e delle persone (oltre che degli animali, presenze costanti sullo schermo) che hanno a cuore, non a caso la miccia che dà il via al viaggio è il desiderio di Alma di tornare a casa dal fratellino. L’idea che sta alla base, carina ma non certo definibile come seminale (’ste rivisitazione favolistiche hanno colmato la misura), avvince fino al livello della superficie che è dove il film razzola, non c’è un dietro, un sopra, un sotto, un oltre: i bimbi gironzolano perché non hanno nessuno a guidarli ed errabondando si impratichiscono con la vita, ciò è. Allora, per non masticare troppo amaro, rivolgo l’attenzione verso un paio di attraenti immagini (ho apprezzato la carrellata a metà proiezione su dei coetanei impegnati a fronteggiare la sopraggiunta condizione di orfani), e su un corredo musicale che descriverei come anomalo.

Infine, una riflessione sulle modalità decise da Fund per chiudere la pratica. Non sto a chiedermi cosa sia quella sorta di Slender Man trasparente che se ne sta nel giardino di Alma (se aguzzerete la vista lo vedrete passare in video anche in una occasione precedente), mi domando, invece, se il suo inserimento sia una trovata che fornisce concreto spessore o se oppure, data l’enigmaticità che lo sostanzia, sia uno stratagemma effimero usato per confondere delle acque altrimenti calmine. E quindi Iván Fund è più bravo o più furbo? Per fare chiarezza ci sarebbe bisogno di dare un’occhiata al resto del curriculum, il timore di eventualmente buttare alle ortiche il proprio tempo è però un bel freno.

venerdì 5 maggio 2023

Cochemare

Toh, chi si rivede: Chris Lavis e Maciek Szczerbowski, gli autori di Madame Tutli-Putli (2007) e Higglety Pigglety Pop! or There Must Be More to Life (2010) escono dalla dimensione fiabesca per inoltrarsi in quella fantascientifica, alt!, facciamo ordine: in Cochemare (2013) l’apporto animato è presente, meno stop-motion (forse c’è solo quando entrano in scena i mostriciattoli alati) e più computer grafica, ma soprattutto grande novità con l’introduzione di una parte in live action, carne, ossa e lacrime fluttuanti. Rispetto ai due corti precedenti questo mi parrebbe maggiormente vicino ad un pubblico in cerca di un prodotto “strano” e non dico un prodotto “adulto” perché le tematiche affrontate in passato erano comunque di peso. Qui, inaspettatamente, emerge una certa attenzione verso l’archetipo femminile e verso la sua enigmatica sessualità, per inscenare una tale tensione i registi contrappongono due scenari il cui collegamento sta a noi (la donna in negativo è l’avatar dell’astronauta? Scommetterei di sì), la differenza di set è evidente, non lo è altrettanto il perché di una siffatta impostazione; è la prima volta - se non erro - che Lavis & Szczerbowski lasciano uno spazio così libero all’interpretazione, il che, a me, va così bene da accettare la possibilità di un non-obbligo a dare per forza un senso a ciò che si è visto, di Cochemare si può anche godere l’aspetto estetico senza necessariamente rintracciarvi un sottotesto.

La foresta immersa in un magico pulviscolo è realizzata in maniera rimarchevole, il connubio tra 3D e non so quale altra tecnica dona una profondità visiva, una lucentezza umida, una sgargiante varietà di forme e colori che non sono affatto male, se al posto della divinità muliebre ci fosse stata Björk con Gondry alla regia avremmo avuto un altro bel videoclip da tramandare ai posteri. L’inserimento dei demoni insieme all’interesse in dettaglio nei confronti delle lumache, al loro corpo molle e viscido, fornisce inoltre al film un’atmosfera che, con le dovute proporzioni, arriva dritta dritta dalle enciclopedie di Švankmajer o dei gemelli Quay. La quota realistica dentro la stazione spaziale rientra un po’ nei ranghi dell’ordinario, non siamo in una produzione hollywoodiana e bisogna stare al gioco che quella stanza con oblò, pannelli elettrici e circuiti siano davvero gli interni di una navicella persa nell’universo, e io, senza pentimento alcuno, al gioco ci sono stato e di Cochemare conserverò un valido ricordo per la commistione weird-sci-fi che mi ha proposto, light bonus erotico compreso. In quanto alla coppia di autori ribadisco il desiderio espresso alla fine del commento di Higglety Pigglety Pop!: vogliamo un esordio nel lungometraggio, ecchediamine.

martedì 2 maggio 2023

Extinction

Kolja, il ragazzo protagonista di Extinção (2018), ha un passaporto moldavo ma è nato in un lembo di terra al confine con l’Ucraina che dal settembre 1990 in poi si è autoproclamato regione indipendente col nome di Transnistria, uno stato “fantasma” non riconosciuto dall’ONU che strizza l’occhio alla Russia di Putin. La regista portoghese Salomé Lamas ci porta con sé in un road-movie che road-movie non è, al pari del contenitore documentaristico inquinato da lievi tracce di finzione, tanto che, ponendo in parallelo Kolja col film stesso, il sottotitolo potrebbe essere “alla ricerca di un’identità”, che in verità è palese, sia sul fronte narrativo che su quello categoriale, ma il tocco della Lamas rende le cose più torbide, e quindi più inafferrabili, di quanto lo siano nel concreto. Molto bene, qui bisogna sedersi e ragionare con calma: Extinction è un’opera che si conficca nell’attualità anche se non dà a vederlo ed anche se tale attualità è abbastanza lontana da noi, eppure il resoconto che ne esce fuori suggerisce di una geografia post-sovietica in balia di correnti e tumulti sempre lì lì per esplodere, ed è interessante l’apparato formale utilizzato dall’autrice per farci pervenire queste informazioni perché coniuga approcci opposti, da una parte abbiamo un’evidente attenzione artistica nell’esporci sequenze dal valido impatto visivo mentre dall’altra si asciuga di ogni prospettiva estetica per mettere sul piatto la problematicità della questione attraverso registrazioni rubate nelle frontiere delle diverse nazioni. Ciò che emerge è un’eredità politica ingombrante perché i monumenti eretti dall’Unione Sovietica restano colossi incombenti sul presente (identiche sensazioni provate per Last and First Men [2020] di Jóhannsson) e perché, inoltre, tale presente sembra occluso da una cappa securitaria (i video nell’albergo) pericolosamente simile all’epoca socialista (Ilya Khrzhanovskiy insegna).

Che poi il valore di Extinction non si ferma soltanto ad esporre in maniera arty la confusione vigente attorno ad una striscia tra i monti che non vuole appartenere alla Moldavia, la Lamas coglie l’occasione per pensare e ripensare a cosa è la Russia oggi e cosa è stata l’URRS in passato. Per farlo si serve di cantastorie interni, di soggetti che compaiono sullo schermo in una veste quasi surreale (si veda il barbone all’inizio), che compiono delle significative digressioni storiche (ho apprezzato molto la metafora ferroviaria), e al contempo vediamo Kolja vagare in luoghi più astratti rispetto al filo conduttore da reportage ma inequivocabilmente, indubitabilmente sovietici fino al midollo (dopo Homo Sapiens [2016] eccoci nuovamente a Buzludža, un enorme relitto di cemento che la Lamas illumina con l’effimero fulgore dei razzi). L’urgenza a cui credo che la regista abbia voluto più di qualunque altro aspetto dare voce si concentra sulla situazione geopolitica dei nostri vicini russi, osservando la cartina si nota che nel mondo la maggioranza degli stati non internazionalmente accettati sono proprio localizzati nei territori ai confini dell’ex URRS, oltre alla Transnistria c’è l’Abcasia, l’Ossezia del Sud, l’Artsakh e le due repubbliche di Doneck e Lungask, senza ovviamente dimenticare la complessa realtà della Crimea. Impariamo allora che tutti questi posti dove si contrappongono gruppi separatisti ad istituzioni che invece rivendicano come propria quella o quell’altra regione, sono delle polveriere esplose o in procinto di esplodere, e che la scacchiera politica è nelle mani di un solo Paese: la Russia. Ora, non sto nemmeno a rimarcare che un film di nemmeno un’ora e mezza è impossibilitato a risultare esaustivo sull’argomento, però aver avuto la possibilità di sfiorare il suddetto ginepraio per mezzo di un ricercato studio sulla forma è appagante, con enigmatica e affascinante ciliegina nel finale. Brava Salomé, dopo Terra de ninguém (2012) un’altra prova di livello.

P.S.: ho scritto questo commento prima dello scoppio della guerra in Ucraina.