venerdì 24 dicembre 2021

Caja cerrada

Salire a bordo di un peschereccio, nel bel mezzo di un mare nero e sconosciuto (in realtà è il Mediterraneo ma questa è un’informazione che estrapoliamo dagli schermi dei radar, a conti fatti potremmo essere ovunque), assistere ad una battuta di pesca con queste reti che sembrano enormi ovuli ricolmi di pesci scodanti, ascoltare le conversazioni dell’equipaggio marocchino e il loro arabo danzante, ecco dove è arrivato Martín Solá, ecco dove, di riflesso, siamo arrivati noi, e certo che messa così sembrerebbe di poterci trovare al cospetto di un’altra indimenticabile cinesperienza come fu quella di Leviathan (2012), e l’impressione è condivisibile sebbene Caja cerrada (2008) si fermi un paio di passi prima, più o meno nelle stesse zone di Dead Slow Ahead (2015) ma con minore propensione estetizzante, il che, comunque, non leva nulla all’esordio di Solá. Chi scrive si è goduto al massimo l’immersione salina offerta, un’apnea visiva che funziona grazie ad un dispositivo documentaristico da vero e silente testimone sul campo, da sguardo che scruta e che scrutando trova angoli e scorci che trascendono il genere di riferimento, come per il capolavoro di Castaing-Taylor e Verena Paravel l’oceano fa paura perché è la dimora di incubi sguscianti che vivono nell’oscurità ondulante dell’acqua, nel buio si aprono rettangoli abitati da novelli Cappuccetto Rosso e Giallo che manovrano intricati orditi da spedire negli abissi. Il fatto è solo uno: la suggestione, una forza stimolante che insemina il vedere, che lo spinge oltre le immagini a cui assistiamo per richiamarne altre. È il cinema, baby.

Oltre ad una tale potenza evocatica c’è un’altra questione dentro a Caja cerrada, ovvero l’aderenza al film successivo del regista argentino: The Chechen Family (2015), il parallelo parrebbe impossibile vista la distanza che sussiste tra le due ambientazioni di ripresa e gli argomenti toccati, invece, che ci crediate o meno, è assolutamente una roba concreta la sovrapponibilità concettuale tra le due proposte. Non ci sono molte informazioni in giro su Solá, non si sa bene chi sia e cosa faccia, però da questa coppia di doc recante la sua firma emerge la capacità di trasportarci in uno stato ipnotico-meditativo di rara intensità. Se arrivare a suddette altezze è forse più facile occupandosi di un rituale religioso, lo stesso, in teoria, non si potrebbe dire di pescatori che svuotano le reti dentro a delle cassette di legno, eppure le cose stanno proprio così: il blocco centrale di Caja cerrada, lungo, reiterativo, praticamente una catena di montaggio, ci fa compiere un viaggio filmico in prima classe dove la ripetitività lavorativa unita al formicolante sbattacchiare dei pesci nelle casse deborda in un rapimento audio-visivo da cui non è contemplata alcuna via di fuga, e meno male!, l’imperativo è lasciarsi invadere dal mantra ittico, dalle colate di squame e fauci boccheggianti, dalle manciate di sale, in loop continuo e incessante. Poi, dopo, ci sarà anche una chiusura (tra l’altro l’ultimissima istantanea vede un cielo albeggiante attraversato da gabbiani in volo che fa molto Leviathan), ma è il prima che si scolpisce negli occhi e nelle orecchie, in modo, lasciatemi ancora crogiolare nell’entusiasmo a caldo, indelebile.

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