Oltre ad una tale potenza evocatica c’è un’altra questione dentro a Caja cerrada, ovvero l’aderenza al film successivo del regista argentino: The Chechen Family (2015), il parallelo parrebbe impossibile vista la distanza che sussiste tra le due ambientazioni di ripresa e gli argomenti toccati, invece, che ci crediate o meno, è assolutamente una roba concreta la sovrapponibilità concettuale tra le due proposte. Non ci sono molte informazioni in giro su Solá, non si sa bene chi sia e cosa faccia, però da questa coppia di doc recante la sua firma emerge la capacità di trasportarci in uno stato ipnotico-meditativo di rara intensità. Se arrivare a suddette altezze è forse più facile occupandosi di un rituale religioso, lo stesso, in teoria, non si potrebbe dire di pescatori che svuotano le reti dentro a delle cassette di legno, eppure le cose stanno proprio così: il blocco centrale di Caja cerrada, lungo, reiterativo, praticamente una catena di montaggio, ci fa compiere un viaggio filmico in prima classe dove la ripetitività lavorativa unita al formicolante sbattacchiare dei pesci nelle casse deborda in un rapimento audio-visivo da cui non è contemplata alcuna via di fuga, e meno male!, l’imperativo è lasciarsi invadere dal mantra ittico, dalle colate di squame e fauci boccheggianti, dalle manciate di sale, in loop continuo e incessante. Poi, dopo, ci sarà anche una chiusura (tra l’altro l’ultimissima istantanea vede un cielo albeggiante attraversato da gabbiani in volo che fa molto Leviathan), ma è il prima che si scolpisce negli occhi e nelle orecchie, in modo, lasciatemi ancora crogiolare nell’entusiasmo a caldo, indelebile.
venerdì 24 dicembre 2021
Caja cerrada
Salire
a bordo di un peschereccio, nel bel mezzo di un mare nero e
sconosciuto (in realtà è il Mediterraneo ma questa è
un’informazione che estrapoliamo dagli schermi dei radar, a conti
fatti potremmo essere ovunque), assistere ad una battuta di pesca con
queste reti che sembrano enormi ovuli ricolmi di pesci scodanti,
ascoltare le conversazioni dell’equipaggio marocchino e il loro
arabo danzante, ecco dove è arrivato Martín Solá, ecco dove, di
riflesso, siamo arrivati noi, e certo che messa così sembrerebbe di
poterci trovare al cospetto di un’altra indimenticabile
cinesperienza come fu quella di Leviathan
(2012), e l’impressione è condivisibile sebbene Caja
cerrada (2008) si fermi un paio di
passi prima, più o meno nelle stesse zone di Dead Slow Ahead
(2015) ma con minore propensione estetizzante, il che, comunque, non
leva nulla all’esordio di Solá. Chi scrive si è goduto al massimo
l’immersione salina offerta, un’apnea visiva che funziona grazie
ad un dispositivo documentaristico da vero e silente testimone sul
campo, da sguardo che scruta e che scrutando trova angoli e scorci
che trascendono il genere di riferimento, come per il capolavoro di
Castaing-Taylor e
Verena Paravel l’oceano
fa paura perché è la dimora di incubi sguscianti che vivono
nell’oscurità ondulante dell’acqua, nel buio si aprono
rettangoli abitati da novelli Cappuccetto Rosso e Giallo che
manovrano intricati orditi da spedire negli abissi. Il fatto è solo
uno: la suggestione, una forza stimolante che insemina il vedere, che
lo spinge oltre le immagini a cui assistiamo per richiamarne altre. È
il cinema, baby.
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