mercoledì 8 dicembre 2021

A Lack of Clarity

Di sicuro il senso che si annida in A Lack of Clarity (2020) fa fede al suo titolo, questa “mancanza di chiarezza” aleggia in effetti per i venti e spiccioli minuti che compongono il cortometraggio sotto esame firmato da un ragazzo danese di nome Stefan Kruse Jørgensen. Guardiamo le cose più facili proprio perché legate al guardare: l’apparato estetico scelto dal regista in realtà, come dire, non è una sua scelta diretta, tutto il materiale che compone il film proviene dal sistema di telecamere di sorveglianza appartenenti ad un’azienda situata a Las Vegas, d’inverso la manipolazione formale offerta presumo sia farina del suo sacco e concorre ad astrarre immagini di schietto realismo per trasportarle in una zona ibrida, indefinita, dove anche un etereo sound design contribuisce a gettare banali squarci urbani in un limbo simil-onirico. Pensando a qualche possibile similitudine l’impatto visivo che il corto ha potrebbe assomigliare vagamente alla patina in negativo di Noite Sem Distância (2015) oppure, ancor più vagamente, alle angolazioni aeree di Dene wos guet geit (2017), però, nel concreto, mancando qui qualsiasi riferimento ad una drammaturgia, ad un testo, il lavoro di Kruse si distacca abbastanza nettamente dagli esempi sopraccitati. Complice una voce fuori campo che sembra quasi provenire da un telefono posto nell’aldilà, l’opera ha una presa sullo spettatore, suscita interesse e, se non vero e proprio magnetismo, qualcosa che gli si avvicina.

Il che, ovvero la suddetta morsa nei riguardi di chi assiste, è un aspetto curioso perché non è per nulla semplice dire di che si occupa A Lack of Clarity. Il commento over dà delle imbeccate, parrebbe che si voglia porre alla nostra attenzione una situazione specificatamente contemporanea, l’inondazione di luce che caratterizza le metropoli moderne (si cita Parigi), luce per vedere, per controllare. Il controllo globale mi sembra che sia il tema al centro del discorso, il fatto di essere gli attori involontari di un “cinema panottico” registrato dalle videocamere a circuito chiuso e relative evoluzioni (si pone l’accento su quelle termiche, e forse le riprese adottano tale tecnologia, però in bianco e nero, giusto per disorientare un altro po’) dovrebbe istituire domande di ordine sociale, etico e politico, questioni di privacy, di riconoscimento facciale, di tracciamento. Argomenti intriganti e urgenti, l’approccio del filmmaker verso di essi non è propriamente frontale e ciò confonde, il portamento quasi sperimentale inghiotte le tesi filmiche, e non mi sento affatto di considerarlo come un difetto. Da rivedere con la massima cautela.

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