venerdì 17 febbraio 2023

Dene wos guet geit

Esordio nel lungometraggio per lo svizzero Cyril Schäublin il quale si rifà ad una cinematografia nordica para-corale che annovera nomi di rilievo, io elenco spesso Andersson, Seidl e Östlund, voi ne conoscerete sicuramente altri, il tocco personale è fornito da un apparato estetico che promuove un’identità visiva da non trascurare, il che è senza dubbio un valido biglietto da visita, e se vogliamo aggettivare Dene wos guet geit (2017) a livello ottico, direi che è un film scentrato, nella sua sintassi offre delle angolazioni che non corrispondono al comune vedere: molte riprese dall’alto (già sperimentate in scala ridotta nel corto Lenny, 2009), molti dettagli esibiti senza un motivo, perfino i campi/controcampi di un dialogo hanno una resa “diversa”, è vero che non siamo nel grottesco del già citato Andersson e nemmeno nel catino arsenico di Seidl, però la distanza da prospettive del genere non pare così enorme. Il lavoro compiuto dal regista in termini di setting mi ha convinto perché ha ricreato un ambiente che, dato l’aspetto stinto e asettico, sembra quasi laboratoriale, come se fosse un plastico nel quale si muovono delle piccole cavie umane, sì, la città è Zurigo ma è solo un mero dettaglio, i ritagli urbani esposti sono luoghi non localizzabili, cartoline congelate da un occidente qualunque. Il sipario iniziale è metacinema (e forse anche un po’ ruffiano, che dite?) perché anticipa lo svolgimento effettivo della storia che andremo a vedere, idem per il finale con la poliziotta intenta a descrivere un film che andrà in onda dopo i titoli di coda, in un altrove. Il trucchetto utilizzato da Schäublin è lì ad avvisare: attenti, nella mia opera la realtà si invera nella finzione. E in effetti il mondo che ci troviamo davanti ha, per una serie di stringenti motivazioni che riporterò sotto, dei connotati reali, quotidiani, cronachistici, collocati in un quadro d’impostazione.

A Schäublin interessa come la tecnologia sia un elemento ineliminabile dall’esistenza moderna, non ci ho visto una critica, piuttosto una constatazione: è abbastanza divertente notare che i rapporti interpersonali siano normati da dei numeri, che sia la password del wi-fi o un PIN per poter effettuare un’operazione bancaria, i personaggi di Dene wos guet geit (e ogni riferimento al di qua della pellicola sorge spontaneo) sono marionette che interagiscono attraverso dei codici. La visione di Schäublin è alquanto pessimistica ma non ce lo fa pesare troppo, l’assenza di una prossimità, di un calore, è il leitmotiv che si incarna in Alice, impiegata in un call center e quindi abituata ad instaurare legami virtuali, algida mente dietro la truffa ai danni delle vecchiette, una brutta fregatura che però è giusto un pretesto narrativo, ciò che conta è il mettere in scena un gruppo di persone che vivono inconsapevolmente un paradosso: tutti loro sono alla costante ricerca di una connessione (i discorsi vertono sulla migliore offerta di telefonia mobile sul mercato) mentre senza accorgersene sono disconnessi gli uni dagli altri, ed è esattamente qui, in questa ferita contemporanea, che un’imbrogliona come Alice trova terreno fertile insediandosi nel vuoto tra una nonna e la sua nipote. Alla chiave di lettura sull’isolamento, si aggancia in subordine l’accennata radiografia di una comunità tutta rivolta e assaltata dai servizi (assicurativi, finanziari, assistenzial-farmaceutici) oltre che securitaria con le guardie armate, per queste ragioni Schäublin parla della nostra società pur inquadrandola in un corpo urbano imbalsamato, ed è sempre a causa di esse che il film potrebbe risultare furbetto e smaliziato, lo capirei, è facile estendere l’additamento artistico verso quello che non va, tuttavia l’impianto formale è per me talmente buono da rendermi sufficientemente appagato.

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