A Schäublin interessa come la tecnologia sia un elemento ineliminabile dall’esistenza moderna, non ci ho visto una critica, piuttosto una constatazione: è abbastanza divertente notare che i rapporti interpersonali siano normati da dei numeri, che sia la password del wi-fi o un PIN per poter effettuare un’operazione bancaria, i personaggi di Dene wos guet geit (e ogni riferimento al di qua della pellicola sorge spontaneo) sono marionette che interagiscono attraverso dei codici. La visione di Schäublin è alquanto pessimistica ma non ce lo fa pesare troppo, l’assenza di una prossimità, di un calore, è il leitmotiv che si incarna in Alice, impiegata in un call center e quindi abituata ad instaurare legami virtuali, algida mente dietro la truffa ai danni delle vecchiette, una brutta fregatura che però è giusto un pretesto narrativo, ciò che conta è il mettere in scena un gruppo di persone che vivono inconsapevolmente un paradosso: tutti loro sono alla costante ricerca di una connessione (i discorsi vertono sulla migliore offerta di telefonia mobile sul mercato) mentre senza accorgersene sono disconnessi gli uni dagli altri, ed è esattamente qui, in questa ferita contemporanea, che un’imbrogliona come Alice trova terreno fertile insediandosi nel vuoto tra una nonna e la sua nipote. Alla chiave di lettura sull’isolamento, si aggancia in subordine l’accennata radiografia di una comunità tutta rivolta e assaltata dai servizi (assicurativi, finanziari, assistenzial-farmaceutici) oltre che securitaria con le guardie armate, per queste ragioni Schäublin parla della nostra società pur inquadrandola in un corpo urbano imbalsamato, ed è sempre a causa di esse che il film potrebbe risultare furbetto e smaliziato, lo capirei, è facile estendere l’additamento artistico verso quello che non va, tuttavia l’impianto formale è per me talmente buono da rendermi sufficientemente appagato.
venerdì 17 febbraio 2023
Dene wos guet geit
Esordio nel
lungometraggio per lo svizzero Cyril Schäublin il quale si rifà ad
una cinematografia nordica para-corale che annovera nomi di rilievo,
io elenco spesso Andersson, Seidl e Östlund, voi ne conoscerete
sicuramente altri, il tocco personale è fornito da un apparato
estetico che promuove un’identità visiva da non trascurare, il che
è senza dubbio un valido biglietto da visita, e se vogliamo
aggettivare Dene wos guet geit (2017) a livello ottico, direi
che è un film scentrato, nella sua sintassi offre delle angolazioni
che non corrispondono al comune vedere: molte riprese dall’alto
(già sperimentate in scala ridotta nel corto Lenny, 2009),
molti dettagli esibiti senza un motivo, perfino i campi/controcampi
di un dialogo hanno una resa “diversa”, è vero che non siamo nel
grottesco del già citato Andersson e nemmeno nel catino arsenico di
Seidl, però la distanza da prospettive del genere non pare così
enorme. Il lavoro compiuto dal regista in termini di setting
mi ha convinto perché ha ricreato un ambiente che, dato l’aspetto
stinto e asettico, sembra quasi laboratoriale, come se fosse un
plastico nel quale si muovono delle piccole cavie umane, sì, la
città è Zurigo ma è solo un mero dettaglio, i ritagli urbani
esposti sono luoghi non localizzabili, cartoline congelate da un
occidente qualunque. Il sipario iniziale è metacinema (e forse anche
un po’ ruffiano, che dite?) perché anticipa lo svolgimento
effettivo della storia che andremo a vedere, idem per il finale con
la poliziotta intenta a descrivere un film che andrà in onda dopo i
titoli di coda, in un altrove. Il trucchetto utilizzato da Schäublin
è lì ad avvisare: attenti, nella mia opera la realtà si invera
nella finzione. E in effetti il mondo che ci troviamo davanti ha, per
una serie di stringenti motivazioni che riporterò sotto, dei
connotati reali, quotidiani, cronachistici, collocati in un quadro
d’impostazione.
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