La mattina di un giovedì qualunque il direttore di banca prossimo alla pensione Giorgio Disdemoni si svegliava come da quarant’anni a quella parte alle 7 in punto. Nei successivi 20 minuti aveva adempiuto le normali attività post-risveglio, e alle 7 e 21 scendeva i 37 scalini che lo separavano dall’atrio dove il portinaio assonnato leggeva un giornaletto di gossip dentro al gabbiotto. Lo salutò alzandosi il cappello, ma prima di aprire il portone il suo cervello elaborò l’immagine che aveva appena colto. Buondio, pensò, lentamente si volse verso l’uomo sperando che ciò che aveva visto era il residuo di un sogno, invece no; dal petto del portinaio, proprio all’altezza dello sterno, partiva un fascio di luce lungo 3 o 4 metri proiettato verso l’alto. Il signor Disdemoni rimase impietrito di fronte a quella visione, e fu solo “il tutto apposto?” del portinaio che lo convinse a spingere il portone e a uscire affrettandosi dicendo sì, che andava tutto bene.
In realtà non andava bene per niente perché camminando lungo la strada incontrò molte persone che presentavano questa particolarità. I fasci di luce erano rivolti ognuno in una direzione diversa, ma non tutti lo avevano. La cosa che però preoccupava di più Disdemoni non era tanto che quella mattina un raggio illuminato partisse dal corpo di alcuni esseri umani, ma che nessuno intorno, a parte lui, se ne accorgesse.
Trafelato giunse in banca e si chiuse nel suo ufficio sperando che una volta uscito di lì tutto fosse tornato come prima. Verso metà mattinata bussò alla porta l’impiegato trentennale Franco Ricciardi con alcune pratiche da sottoporgli. Anche lui aveva quella strana luce che gli usciva dal petto, eppure rispetto a tutte le altre che erano puntate verso l’alto, questa ricadeva addosso al signor Disdemoni. Mentre l’impiegato si muoveva nell’ufficio dalla fotocopiatrice alla scrivania, il bagliore non si staccava mai dal direttore che immobile iniziava a sudare freddo, fintanto che Ricciardi chiese se stava bene, e lui rispose sì, solo un po’ di influenza.
Il giorno successivo usciva di casa con un paio di occhiali neri che sebbene non funzionassero da antidoto, perlomeno celavano la sua espressione ogni volta sbigottita nel vedere tale fenomeno. Ricciardi si incuriosì un poco sulla presenza degli occhiali, e chiese al suo direttore di una vita perché non li avesse mai portati in tutti quegli anni. Disdemoni pensò che li indossava anche a causa sua, per tentare, almeno, di mascherare lo stupore, ma rispose che quella dannata influenza lo aveva preso male e gli aveva causato una forte congiuntivite.
L’impiegato Ricciardi, sempre col fascio ben puntato verso il suo capo, sospirò tra i denti un ah di comprensione, poi mentre Disdemoni usciva dall’ufficio si fece scappare un comunque sta bene signor direttore, gli occhiali le danno un aspetto più giovanile, dovrebbe metterli più spesso.
Il sabato giungeva come una tregua. Staccò il telefono, chiuse la porta a chiave e si infilò due tappi nelle orecchie; avrebbe dormito per tutto il week-end, e poi la settimana dopo sarebbe andato dal medico. Ma verso le otto di sera il signor Disdemoni fu colto da un attacco di noia e non sapendo davvero più che fare decise di affacciarsi un attimo alla finestra. Sotto di lui c’era un uomo appoggiato con la spalla a un palo del divieto di sosta, il crepuscolo gettava ombre lunghe sulla città, e quest’uomo col suo bagliore rischiarava una fetta di aria che era ormai buio profondo. Passati 10 minuti, Disdemoni si era quasi deciso a rientrare quando vide che la luce dell’uomo, puntata come le altre verso l’alto, iniziò ad abbassarsi lentamente e ad allungarsi come un elastico verso destra. In quella direzione giungeva una donna, anch’essa con il fascio di luce che lentamente la precedeva e che andava a incontrarsi con quello dell’uomo. Quando si toccarono erano una cosa sola, e nel momento in cui i due si baciarono e si allontanarono mano nella mano, il signor Disdemoni vide che uno strano alone dorato li avvolgeva entrambi.
Ci abbracceremo in capo al mondo in capo al cielo.
Sarà un abbraccio così forte
che grideranno tutti i pesci del mare.
Sarà un abbraccio così stretto
che tutte le stelle intorno correranno a guardare.
(L’abbraccio, poesia presumibilmente attribuibile al fumettista Pasquale Ruju).
In realtà non andava bene per niente perché camminando lungo la strada incontrò molte persone che presentavano questa particolarità. I fasci di luce erano rivolti ognuno in una direzione diversa, ma non tutti lo avevano. La cosa che però preoccupava di più Disdemoni non era tanto che quella mattina un raggio illuminato partisse dal corpo di alcuni esseri umani, ma che nessuno intorno, a parte lui, se ne accorgesse.
Trafelato giunse in banca e si chiuse nel suo ufficio sperando che una volta uscito di lì tutto fosse tornato come prima. Verso metà mattinata bussò alla porta l’impiegato trentennale Franco Ricciardi con alcune pratiche da sottoporgli. Anche lui aveva quella strana luce che gli usciva dal petto, eppure rispetto a tutte le altre che erano puntate verso l’alto, questa ricadeva addosso al signor Disdemoni. Mentre l’impiegato si muoveva nell’ufficio dalla fotocopiatrice alla scrivania, il bagliore non si staccava mai dal direttore che immobile iniziava a sudare freddo, fintanto che Ricciardi chiese se stava bene, e lui rispose sì, solo un po’ di influenza.
Il giorno successivo usciva di casa con un paio di occhiali neri che sebbene non funzionassero da antidoto, perlomeno celavano la sua espressione ogni volta sbigottita nel vedere tale fenomeno. Ricciardi si incuriosì un poco sulla presenza degli occhiali, e chiese al suo direttore di una vita perché non li avesse mai portati in tutti quegli anni. Disdemoni pensò che li indossava anche a causa sua, per tentare, almeno, di mascherare lo stupore, ma rispose che quella dannata influenza lo aveva preso male e gli aveva causato una forte congiuntivite.
L’impiegato Ricciardi, sempre col fascio ben puntato verso il suo capo, sospirò tra i denti un ah di comprensione, poi mentre Disdemoni usciva dall’ufficio si fece scappare un comunque sta bene signor direttore, gli occhiali le danno un aspetto più giovanile, dovrebbe metterli più spesso.
Il sabato giungeva come una tregua. Staccò il telefono, chiuse la porta a chiave e si infilò due tappi nelle orecchie; avrebbe dormito per tutto il week-end, e poi la settimana dopo sarebbe andato dal medico. Ma verso le otto di sera il signor Disdemoni fu colto da un attacco di noia e non sapendo davvero più che fare decise di affacciarsi un attimo alla finestra. Sotto di lui c’era un uomo appoggiato con la spalla a un palo del divieto di sosta, il crepuscolo gettava ombre lunghe sulla città, e quest’uomo col suo bagliore rischiarava una fetta di aria che era ormai buio profondo. Passati 10 minuti, Disdemoni si era quasi deciso a rientrare quando vide che la luce dell’uomo, puntata come le altre verso l’alto, iniziò ad abbassarsi lentamente e ad allungarsi come un elastico verso destra. In quella direzione giungeva una donna, anch’essa con il fascio di luce che lentamente la precedeva e che andava a incontrarsi con quello dell’uomo. Quando si toccarono erano una cosa sola, e nel momento in cui i due si baciarono e si allontanarono mano nella mano, il signor Disdemoni vide che uno strano alone dorato li avvolgeva entrambi.
Ci abbracceremo in capo al mondo in capo al cielo.
Sarà un abbraccio così forte
che grideranno tutti i pesci del mare.
Sarà un abbraccio così stretto
che tutte le stelle intorno correranno a guardare.
(L’abbraccio, poesia presumibilmente attribuibile al fumettista Pasquale Ruju).