Alla fine della notte (2003), ad oggi l’ultimo film di Salvatore Piscicelli, è un’opera che si pone come obiettivo quello di esplorare il buio per scovare i demoni che vi abitano dentro.
Così dice l’analista prossimo alla pensione Robert Herlitzka nel pienamente riuscito, e forse l’unico dell’intera pellicola, segmento iniziale. E così ripete l’attore regista Bruno Spada (Ennio Fantastichini) che sul set, da buon comico, è “costretto” a far sorridere il pubblico sebbene abbia una vita privata segnata dalla depressione, dagli amori fugaci, da un matrimonio in bilico e da un passato (lo studio di Leopardi potrebbe essere la causa del suo mal di vivere) che risale a galla, guarda caso, durante la notte.
Probabilmente, anzi senza probabilmente, questo film è fortemente declinato all’autobiografia vista la sovrapponibilità di luoghi, situazioni, accadimenti che accomunano Piscicelli al signor Spada.
Perciò credo che come ogni lavoro in cui ci si mette dentro una buona quantità di se stessi, Alla fine della notte contenga intenzioni che non tutti sono in grado di decifrare data la sostanza intimistica di cui è costituito. Il regista nell’illustrare i fantasmi di Spada avrà esorcizzato anche i suoi, ma quello che noi vediamo resta prosaicamente un uomo ricco, dettaglio importante, che si sente povero dentro. All’incirca questo sentimento crepuscolare lo si avvertiva anche ne Il corpo dell’anima (1999) dove però la dicotomia eros/thanatos era portata a livelli molti ma molti alti, qui invece il geografico peregrinare del protagonista fra i cocci della sua vita è uno scialbo ping-pong di conversazioni né brutte né sciatte perché Piscicelli sa scrivere, semplicemente poco interessanti e poco intriganti, con una netta caduta di stile come il siparietto con le due ragazze ammiccanti in cerca di un passaggio, o lo stralunato dialogo con un monaco buddista.
Il quadro complessivo è quindi più che sbiadito a causa di una storia che non ce la fa a raggiungere il piano del coinvolgimento. Nemmeno però ha quella superficialità ravvisabile nel televisivo Blues metropolitano (1985), si tratta in sintesi di un’opera che può fregiarsi di una delle espressioni che più odio in assoluto: “senza infamia senza lode”. Prendetela così, ché quando si finisce a parlare per frasi fatte significa che si è seriamente a corto d’argomenti.
Così dice l’analista prossimo alla pensione Robert Herlitzka nel pienamente riuscito, e forse l’unico dell’intera pellicola, segmento iniziale. E così ripete l’attore regista Bruno Spada (Ennio Fantastichini) che sul set, da buon comico, è “costretto” a far sorridere il pubblico sebbene abbia una vita privata segnata dalla depressione, dagli amori fugaci, da un matrimonio in bilico e da un passato (lo studio di Leopardi potrebbe essere la causa del suo mal di vivere) che risale a galla, guarda caso, durante la notte.
Probabilmente, anzi senza probabilmente, questo film è fortemente declinato all’autobiografia vista la sovrapponibilità di luoghi, situazioni, accadimenti che accomunano Piscicelli al signor Spada.
Perciò credo che come ogni lavoro in cui ci si mette dentro una buona quantità di se stessi, Alla fine della notte contenga intenzioni che non tutti sono in grado di decifrare data la sostanza intimistica di cui è costituito. Il regista nell’illustrare i fantasmi di Spada avrà esorcizzato anche i suoi, ma quello che noi vediamo resta prosaicamente un uomo ricco, dettaglio importante, che si sente povero dentro. All’incirca questo sentimento crepuscolare lo si avvertiva anche ne Il corpo dell’anima (1999) dove però la dicotomia eros/thanatos era portata a livelli molti ma molti alti, qui invece il geografico peregrinare del protagonista fra i cocci della sua vita è uno scialbo ping-pong di conversazioni né brutte né sciatte perché Piscicelli sa scrivere, semplicemente poco interessanti e poco intriganti, con una netta caduta di stile come il siparietto con le due ragazze ammiccanti in cerca di un passaggio, o lo stralunato dialogo con un monaco buddista.
Il quadro complessivo è quindi più che sbiadito a causa di una storia che non ce la fa a raggiungere il piano del coinvolgimento. Nemmeno però ha quella superficialità ravvisabile nel televisivo Blues metropolitano (1985), si tratta in sintesi di un’opera che può fregiarsi di una delle espressioni che più odio in assoluto: “senza infamia senza lode”. Prendetela così, ché quando si finisce a parlare per frasi fatte significa che si è seriamente a corto d’argomenti.
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