lunedì 30 gennaio 2012

Black Bread

La storia del piccolo Andreu e la Storia del dopoguerra in un ancor più piccolo paesino spagnolo. Due cadaveri in un bosco danno il là a tutto.

Vincitore di 7 premi Goya, Pa negre (2010) è il film che riporta in auge uno di quei nomi mai troppo conosciuti, e quindi mai troppo apprezzati: Agustí Villaronga. La carriera di questo regista catalano si è sempre divisa fra grande e piccolo schermo, con una propensione per quest’ultimo.
Ciò non deve forviarvi, nonostante il suo numericamente esiguo apporto al cinema, Villaronga è un autore di quelli che non si dimenticano perché, come dicevo in passato, è un killer, uno che sgocciola crudeltà da ogni singolo fotogramma.
Bene, preso atto di queste informazioni, sappiate che la sua ultima fatica è decisamente più soft rispetto alle precedenti. Si potrebbe parlare di maturazione (ma anche per fare i film che ha fatto in passato bisogna essere maturi, altroché!) e sicuramente alcuni ne parleranno, quello che invece mi va di sottolineare è che le sue diaboliche sciabolate qui non ci sono, quindi niente siringhe di benzina piantate nel petto, “solo” storia e Storia, cose a cui comunque ci aveva già abituato.

E sì perché sia In a Glass Cage (1987) che El mar (2000) sono strettamente collegati al secondo conflitto mondiale o periodi limitrofi. Nel primo film il pedofilo di turno era un nazista nemmeno in grado di uccidersi, nel secondo i 3 bambini protagonisti assistevano ad un’esecuzione da parte di una squadriglia franchista che segnava per sempre la loro vita.
Dunque abbiamo la Storia con quel vuoto profondissimo di coscienza amore e benevolenza che è una guerra, ma non dimentichiamoci della storia che riguarda il piccolo Andreu (Francesc Colomer). Emerge un altro stilema di Villaronga: l’infanzia. La tendenza è quella di mettere un bambino di fronte a eventi più grandi di lui, e di chiunque altro. Il percorso formativo di Andreu si scontra perciò con ostacoli che cambieranno la sua visione del mondo.

Innanzitutto la scoperta dei cadaveri nel bosco (grande l’incipit) pone fine, diciamo, alla sua fanciullezza. Da qui in avanti deve fare i conti con un intreccio di elementi che il regista stratifica con abilità. Ci sono elementi politici, quale l’incarcerazione del padre, elementi sociali, poiché il pane nero del titolo è il pane dei poveri in contrasto con la ricca famiglia proprietaria, ed elementi quasi medemiani, la storia del fantasma Pitorliua. Neanche a dirlo sono questi slanci fantastici che stingono a causa della dura realtà.
In poco tempo Andreu ribalta la concezione che ha di suo padre, da eroe a vittima del denaro e del potere, ed egualmente diventa testimone – oculare, ripreso sempre da dietro uno spigolo, una finestra, un albero – delle manfrine adulte, dei giochi sporchi (il professore e la ragazzina), degli eventi passati (uccidere un ragazzo perché omosessuale), il che urta con l’insegnamento del papà che gli dice di portare sempre degli ideali nel cuore.
E così, come per il ragazzino di Tras el cristal che pur avendo subito il male continuava a perpetrarlo, Andreu giunge alla fine del suo percorso (/alla fine del film) totalmente disilluso, e, ancor peggio, deumanizzato come i suoi simili: disconosce la madre, la bolla di fronte ai nuovi compagni come una del paese che è venuta a portargli delle cose.

Mancano le rasoiate, ma Villaronga sa sempre come colpire l’occhio, e la mente.

sabato 28 gennaio 2012

Guilty of Romance

Innanzi tutto una piccola osservazione.
Scorrendo la filmografia recente di Sono è impossibile non notare che tra il 2010 e il 2011 ha girato ben tre, e sottolineo tre, film che hanno partecipato a due delle competizioni più importanti del mondo in ambito cinematografico. Se Cold Fish (Venezia) rappresenta un’opera monstre difficilmente replicabile e Himizu (sempre Venezia) che ancora non abbiamo visto pare assestarsi sempre su alti livelli, questo Guilty of Romance (Cannes) nonostante, è subito il caso di dirlo, stia qualche metro indietro rispetto al normale target sononiano, si presenta come un pezzo di cinema ad alto tasso di densità. Il che mi fa: 1 pensare a quanto sia bravo Sono e 2 come nel panorama attuale sia difficile trovare un regista che riesce ad abbinare in tale modo qualità e quantità.

L’iniziale scena del crimine è solo un mero pretesto per trascinarci in una classica storia Sono-style, una storia che definirei ad imbuto perché chi vi cade dentro non ha alcuna possibilità di risalita. E la malcapitata del caso è la timida Izumi, obbligata a vivere con un contrasto personale: il suo seno è prorompente, strabordante e giunonico, mentre la sua vita è di un grigiore infinito con il marito scrittore che è un metodico incallito. La chiave che le permette di aprire questa gabbia è il sesso, e già era accaduta una cosa simile con Love Exposure (2008) dove la mania di fotografare delle mutandine da donna diveniva il viatico per realizzarsi; qui siamo all’incirca negli stessi territori: Izumi facendo sesso con degli sconosciuti concretizza una catarsi che sprigiona tutta la sua repressione, così se dapprima è timida nel vendere salsicce al supermercato (un insaccato che le si addice in pieno), dopo la sua emancipazione sessuale la vediamo molto più attiva e convinta nel lavoro.

La spirale senza ritorno in cui precipita Izumi è, trattandosi di Sono, ben illustrata, ma l’autore conscio del fatto che in questo modo la carne al fuoco sarebbe stata troppo poca, immette all’interno del circolo vizioso un’altra donna, Mitsuko (un nome che è una vera ossessione per il giapponese!), la quale ha parecchi punti in comune con Izumi: da una parte ha una vita ordinaria con la sua professione di docente universitaria, ma dall’altra si sfoga facendo la prostituta nei posti più squallidi con le persone ancora più squallide che ci possano essere. La doppia identità di Mitsuko nasconde un’eziologia che Sion attribuisce ad un altro dei suoi concetti chiave: la famiglia.
La prof. ha infatti una madre (il personaggio più inquietante del film) che è a conoscenza del suo lato da Miss Hyde ed inoltre vengono suggerite male cose sul padre ora scomparso.
Pur spaziando nei temi a lui più cari, Sono in questo frangente disordina le carte in gioco e annebbia alcuni punti cruciali della dimensione narrativa (insomma, chi è l’assassino?), risulta prevedibile in almeno una situazione (il marito che in realtà è un fedifrago non era proprio impensabile), tratteggia una figura su cui ci si interroga (lo scemo col cappellino e cappotto chi è?), cita modelli alti come Kafka senza grandissimi riscontri (la manfrina del Castello) e chiosa il tutto con un finale sottotono (l’identificazione tra Izumi e Mitsuko non sorprende più di tanto).

Oltre questi inciampi, il cinema di Sono si dimostra comunque vivissimo e depositario di un’invidiabile voglia di stupire attraverso un linguaggio narrativo improntato all’eccesso che però non diventa mai gratuito. Probabilmente se questo regista abbassasse il ritmo di produzione sfornerebbe filmoni da lacrima, tuttavia credo che possa andare bene anche così. E tanto.

venerdì 27 gennaio 2012

Monsieur Blue


Quell'istrione di Sébastian Tellier ritorna sulla scena con un album interamente dedicato al colore blu dal titolo inequivocabile: My God is Blue.
A me, mi piace.

giovedì 26 gennaio 2012

Meek's Cutoff

Oregon o zone limitrofe, 1845. Una carovana composta da tre famiglie si perde nella vastità del deserto. La loro guida, Stephen Meek, dice di conoscere una scorciatoia per arrivare alle montagne di Cascade.

Meek’s Cutoff (2010), in concorso al 67° Festival di Venezia, è un film scandito dal cigolante incedere prodotto dalle ruote dei carri sul terreno pietroso. Nessun altro rumore: il corteo che viene ripreso con un bizzarro formato quadrato è una lenta processione di uomini e animali che macinano chilometri e chilometri in mezzo alla polvere del deserto. Qui non c’è alcun spirito avventuriero, l’oro viene scartato perché, giustamente, non si può bere, e allora restano soltanto le paure che forgiano gli uomini, paura dell’altro (un indiano), paura della natura (l’inclemenza del luogo, la mancanza di acqua), paura dei propri simili (Meek lo sbruffone).

Kelly Reichardt risemantizza il genere avventura un po’ come aveva fatto con Old Joy (2006), anche qui abbiamo un’esplorazione strettamente coniugata all’ambiente muto, soverchiante, impassibile.
Il tragitto di queste persone incontra perciò la natura più spietata (cosa c’è peggio di un deserto?) a cui vuole sfuggire, ma in realtà la vera esplorazione è quella intima che porta lungo i sentieri interni dell’etica e della civiltà. Questa non è una storia di uomini che si perdono, ma una storia di uomini già persi, e lo si intende dall’inizio con quella scritta lost che non fa presagire nulla di buono.

Il deserto è dunque una metafora esistenziale, uno stato d’animo che, vista la sua sostanza, più arido di così non può essere, e di conseguenza la Guida, colei che dovrebbe condurre non solo sulla mera cartina geografica ma, sempre parallelamente, anche per vie invisibili, è un uomo privo di scrupoli – ma gli altri non sono da meno vista l’idea dell’impiccagione – che dice al piccolino del gruppo di come l’inferno sia abitato da orsi e indiani, perciò: da ciò che la natura figlia, e da ciò che non fa parte del proprio mondo per così dire civile.

Rovesciando, rimescolando e soprattutto allontanando gli stilemi del western e dintorni, la regista americana depaupera l’epopea dell’uomo bianco che si trova perciò smarrito sia fuori che dentro.
Ci vuole un nativo americano per riprendere la retta via, un uomo come loro, come tutti, ma realmente sintonizzato con il mondo che lo circonda, lontano da mete utopistiche (i discorsi dei maschi su ciò che si troverà oltre le montagne), divertito dall’inettitudine dei bianchi incapaci di portare il carro giù per il crinale della collina, commiserevole nonostante le prepotenze subite nell’invocare gli dei o chissà chi di fronte al padre malaticcio, ma soprattutto capace di ergersi a vera Guida, non colei che aiuta, ma che insegna: sebbene la strada sia ancora lunga, un albero è un buon punto di partenza.

Meek’s Cutoff con la sua tendenza a rimpicciolire, a suggerire, a rallentare, si rivela una riserva di materia prima, di cinema che fa pensare: a chi deve credere l’Uomo smarrito se non ad un proprio simile?

mercoledì 25 gennaio 2012

La storia sono io

Probabilmente molti lo conoscono già, ma è ugualmente probabile che molti altri (tra i quali c’ero anche io fino a poco fa) non hanno la più pallida idea di che cosa sia Wayback Machine. Oggi è l’occasione giusta per conoscerlo perché questo sito è, senza mezzi termini, la memoria di Internet.
Non so esattamente come funzioni, presumo vi siano dei controlli ogni tot nell’immensa rete, fatto sta che anche Oltre il fondo ha avuto il suo piccolo check:

Clicca.

Risale al 12 maggio 2011. Non è nemmeno un anno fa, eppure sembra passato un sacco di tempo…

martedì 24 gennaio 2012

Manoro

C’è voluta una terrificante eruzione nel 1992 per far spostare buona parte degli Aeta, popolazione indigena delle filippine che ha vissuto principalmente sulle montagne dell’isola Luzon, nelle zone pianeggianti di Pampanga e aprirsi così al mondo esterno. La prima positiva conseguenza è stata che finalmente i bambini sono potuti andare a scuola, la seconda che una volta alfabetizzati essi hanno trasmesso i rudimenti delle loro conoscenze ai più anziani della comunità.

Che Brillante Mendoza ci parli di quello che vede era già chiaro nei due film precedenti dove si potevano rintracciare almeno due elementi radicati nel suo credo: la povertà e la tradizione, Manoro (2006) opera terza del prolifico regista filippino, riacciuffa suddette componenti ma lo fa da un altro angolo di visuale che, parer mio, si presta discretamente bene per l’intento.
Niente è meglio del documentario per… documentare, e infatti lo stato di povertà che qui ci viene proposto è per forza di cose più tagliente di quello di The Masseur (2005, anche se qui la miseria era solo un aspetto secondario) poiché vediamo gente scalza o che al massimo utilizza delle sgualcite infradito per camminare con il rischio di pestare qualche cacca extra large, e più in generale uno squallore e una desolazione tale da chiedersi com’è possibile che ci sia ancora gente che vive in condizioni del genere. Ma è nei ceti così bassi che l’uomo trova comunque le risorse per andare avanti, e ad un occhio occidentale come il nostro le componenti etnografiche risaltano e affascinano ancora di più. Ma tranquilli, niente a che vedere con gli inutili intermezzi del contemporaneo Kaleldo.

Nonostante il prologo denunci una situazione desolante, Manoro non ha come unico obiettivo quello di ritrarre la realtà, infatti una buona fetta di proiezione si immerge nel naturalistico seguendo passo dopo passo la figlia ed il padre nel loro cammino. Le terre non conoscono civilizzazione se non pochi bambini che sguazzano in un laghetto, e il tragitto, che piacerebbe molto a Weerasethakul con quella foresta labirintica, si conclude in un’atmosfera quasi magica con i canti tradizionali di un gruppo di contadini.
È una parentesi (bella grande, più o meno mezz’ora su un’ora di proiezione), perché abbandonati gli scenari incantevoli e rattristanti dell’entroterra, Mendoza segue la sua maestrina nel luogo che diventa architrave concettuale del film: il seggio elettorale. D’altronde viene anticipato nelle scritte pre-visione che la lotta contro l’ignoranza continua…

Documentario spurio, non tutto è lasciato al normale fluire delle cose, anzi la vicenda del nonno è un’intensificazione della realtà in stile herzoghiano, Manoro penzola con qualche incertezza tra due argini: quello sociale in cui povertà e analfabetismo sostanziano la vita del villaggio, e quello culturale dove le tradizioni si fondono ai riti burocrati del voto, meno ammalianti per noi ma decisamente più utili per loro.

domenica 22 gennaio 2012

Cave of Forgotten Dreams

Dopo la trasferta americana (non è vero, lui ormai abita lì) che ha regalato al pubblico due film coevi parecchio chiacchierati per la loro lontananza dal solito stile barra interessi tematici (Il cattivo tenente e My Son, My Son, What Have Ye Done), Herzog ritorna a fare quello per cui è diventato famoso, il documentarista, a tre anni di distanza da Encounters at the End of the World (2007).
E lo fa, almeno così si dice in rete, per puro caso, è bastato leggere l’articolo di un giornale sulla grotta Chauvet che gli ha fatto pizzicare all’impazzata il campanello della curiosità. Dopodiché ha chiamato le persone giuste e in men che non si dica ha ricevuto il nulla osta per poter entrare all’interno della caverna.

Che cosa vi sia di così prezioso all’interno di questa cavità naturale è presto detto: dipinti scoperti accidentalmente nel ‘94, dipinti rupestri dal valore incalcolabile poiché disegnati dalla mano di artisti vissuti trentamila e passa anni fa. Probabilmente la questione sarebbe risultata interessante anche se il sottoscritto fosse sceso là sotto con il suo cellulare dato che la grotta è chiusa al pubblico per preservarne l’ecosistema, ma Herzog, checché se ne dica, sa essere sempre lui, almeno per buoni tratti, e in questa splendida valle francese ci arriva volando.
Quello che ci è permesso di vedere sulle pareti è semplicemente straordinario.
Le pitture rappresentano principalmente degli animali e solo in un unico caso una figura metà donna metà bestia, ma quella che può sembrare soltanto la sagoma di un bisonte, di un cavallo o di una iena, è invece la chiave che schiude porte sull’abisso del tempo.
Le immagini sono delle istantanee che fotografano un mondo fatto soltanto ed inevitabilmente di supposizioni, cosicché il valore zoologico, archeologico ed etologico schizza a livelli epocali, donando a questa caverna l’effige di “stanza del tempo”, luogo, come Herzog dirà nel suo inglese teutonico, without time and space.

Ma il buon Werner fa di più perché decide di proporre il tutto attraverso la tecnologia del 3D.
Se tale trovata sia funzionale o meno non è possibile riferirlo in questa sede, ma l’intento è perlomeno lodevole perché l’autore chiude un cerchio dal raggio quasi sconfinato che fa perfettamente combaciare due tecniche di rappresentazione agli estremi temporali: qui le opere di uomini primitivi, vestiti di pelli e coi capelli lunghi tutti arruffati, si trovano fianco a fianco con la moderna visione stereoscopica della settima arte. Per una volta, parere personale, il 3D ha un significato più denso che va oltre il vacuo intrattenimento. L’aspetto maggiormente divertente è che comunque tali disegni in alcuni casi presentano segni inequivocabili di uno sfondamento concettuale della dimensione visiva, difatti alcuni degli animali ritratti hanno più di 4 zampe, e ciò non è dovuto ad una particolare razza ora estinta, bensì al fatto che gli uomini del tempo tentavano di riprodurre sulla pietra la cinesi del movimento. Il regista definisce tale fenomeno proto-cinema, e ciò pone una riflessione non da poco: quanto siamo sapiens noi uomini odierni?

Fin qui le note positive, tuttavia si diceva poco fa che Herzog a tratti sa essere sempre lui (ironico, curioso, più attento all’uomo – “chissà se piangevano la notte, se avevano paura” – che ai fatti storici), ma in altre occasioni cede il passo e mostra nel complesso un’organicità leggermente carente. Vi sono a ben vedere delle diramazioni all’interno del documento molto superflue, quasi estranee ed ininfluenti per quanto concerne il tema della caverna Chauvet.
Le propaggini sui manufatti rinvenuti altrove, sul tizio che fiuta le cavità dal di fuori o su come cacciavano i nostri antenati, sono tutti frammenti che odorano di brodo allungato. Il che un po’ dispiace perché anche se fosse stato più breve il lavoro di Herzog per forza di cose si sarebbe fatto ugualmente ammirare.
A parte questo, bellissimo il colpo di coda nel finale con l’innocenza del coccodrillo albino (una sequenza veramente Herzog vecchio stile) che si trova laddove millenni prima vivevano creature magari non troppo diverse da lui, come non lo è l’uomo di Neanderthal da noi.

Quanto tempo è passato? Ere ed ere si direbbe, o forse solo un’ora e mezza, giusto la durata di questo film.

venerdì 20 gennaio 2012

The Violin

Il luogo: imprecisato. Sulle montagne da qualche parte in Sud America un gruppo insurrezionalista fronteggia un malvagio esercito. Il vecchio Plutarco si muove per le campagne con il suo violino ingraziandosi il capo dei nemici.

Cinema messicano, low (ma non troppo visto il budget presunto su IMDb), cinema che denuncia, (a)storicamente ritrattista e rattristante.
Salta subito al nostro occhio, e non potrebbe essere altrimenti, l’accantonamento dei colori da parte del regista Francisco Vargas, il che pensando a dove è ambientata la storia fa subito ragionare.
Un posto così colorato e vitale come l’America del Sud viene stinto, dicotomizzato, bianco e nero, bene e male. Nello specifico il b/n di El violin (2005) mi ha ricordato le tavole del fumettista Edurado Risso (guarda caso argentino), tavole in cui è la china che grondando delinea i contorni dei personaggi. Anche qui i toni scuri predominano e ciò non può che fungere da campanello d’allarme: niente spiagge assolate, solo violenza e sopraffazione. Cose che, comunque, ci venivano già illustrate nell’incipit.
Al di là di queste elucubrazioni semantiche sui colori, potrete soddisfare la vostra fame estetica con delle riprese notturne che si inzuppano di lirismo: un fuoco, un bimbo, un vecchio a dorso di mulo, la luna.

Ma da spettatori attenti quali dovete essere avrete notato che il titolo del film è uno strumento musicale. Il violino è attore primario per la vicenda, ma più che l’oggetto in sé, a pesare specificatamente è la musica da esso prodotta. Ancora un contrasto: tra le braccia di Plutarco sprigiona melodie delicate, fra quelle del generale sghembi suonacci. La contrapposizione tra un uomo di pace e un uomo di guerriglia è netta, e di nuovo si annota una certa peculiarità nel sentire delle note così belle in un ambiente così brutto.
Grande empatia con l’anziano protagonista che caracolla per le strade impolverate. Viso seccato dal sole, saggezza, gentilezza, tenerezza. Interpretato da Ángel Tavira, vero musicista messicano dalla mano mozza, per lui la musica finisce nel 2008 a causa di un’infezione alle vie urinarie. Fa in tempo, però, a vincere il premio come miglior attore nella sezione Un Certain Regard di Cannes ’06.

mercoledì 18 gennaio 2012

Shame

Qualche riflessione a caldo sul film di Steve McQueen.

- non una radiografia dell’uomo moderno, ma dell’uomo metropolitano. Trattasi di sinonimo probabilmente, tuttavia il regista inglese preme vigorosamente sulla città rendendola fisica e imponente. New York non è teatro di e nemmeno contenitore per, New York è parte attiva (e sorniona) del cast, presente sempre e noncurante altrettanto: è oltre la finestra dell’ufficio di Brandon con i suoi totem-grattacielo, è nelle parole cantate con un filo di voce da parte di Sissy, è, con tutta la sua invadenza, dietro il protagonista e la ragazza di colore durante l’imbarazzo del saluto, una scritta piccola sul cartello della metro, ma New York c’è e alla fine, con quella pioggia che martoria un uomo disintegrato, ne piange il futuro che non potrà essere mai diverso dal presente (l’ultimissimo campo-controcampo sul vagone).
Se il luogo diventa causa della deriva rappresentata o se ci sia dell’altro incastrato nelle maglie del passato non è dato saperlo, ed è giusto così. Non c’è bisogno di un bollettino eziologico né per Brandon né per Sissy. Qualcosa di brutto è successo, qualcosa di brutto sta accadendo: guarda caso (dato, ad esempio, lo spirito apolide della ragazza) proprio tra le spire della Grande Mela, la compagna silenziosa che agguanta il cuore, atrofizzandolo: il capo-ufficio sposato che non disdegna atteggiamenti libertini; le donne. Tutte (a parte una) creature fameliche prossime all’apatia sentimentale; e, ovviamente, Brandon.

- McQueen non fornisce un significato univoco al titolo. La vergogna è un’emozione che per conto di Brandon fa capolino in almeno due occasioni: quando viene colto da Sissy nel bagno, e quando si scopre che l’hard disk del suo computer è pieno di roba porno.
Ma questi sono eventi di basso rango, gocce che confluiscono in un vaso già ampiamente sporco.
La vera vergogna ha ben altri crismi ed il processo che la prende di forza per gettarla sotto l’occhio di bue inizia con la scena del ristorante. Oltre al fatto che la suddetta scena è ottimamente orchestrata grazie ai risvolti quasi comici col cameriere, il dialogo da mera routine si tramuta nella svestizione (ancora teorica) di un uomo che potrebbe avere tutto, e che di conseguenza non ha niente. Zoom su Brandon e collega seduti al tavolo e la rivelazione: “la mia storia più importante è durata al massimo 4 mesi”.
Questo è il prologo di un crollo che si concretizza all’interno dell’attico: la maschilità messa in gioco nell’atto di spogliarsi per davvero e la bandiera bianca di fronte all’evidenza.
Brandon non sa amare, tale è la vergogna terribile di cui lui stesso diventa consapevole, e colpevole.

- anche se, fino a qui Shame pur dicendo le cose piuttosto bene non costruisce un legame magnetico con lo spettatore. Il decollo verticale però non tarda ad arrivare, e la massiccia sequenza che racconta a ritroso enuclea l’epitaffio di un uomo d’oggi: non serve a niente liberarsi delle àncore che ormeggiano la propria vita, né i giornaletti (notevole l’effetto che simula una rapida “sfogliata”) né i vari oggettini gettati nella pattumiera possono riabilitare un’esistenza.
Il sesso diventa il senso unico, non importa nemmeno più con chi, con quanti, e la conseguenza è che non importa niente nemmeno dei legami consanguinei (la potente immagine di Sissy in un lago di sangue: ogni goccia un senso di colpa… ?), conta solo infilare il proprio cazzo in un buco [1] e soddisfare l’istinto.
Il sesso è la strada che ad ogni passo si sgretola e obbliga soltanto ad andare avanti; Brandon, uomo e fratello del nuovo millennio, nelle viscere sotterranee di New York è una bestia in giacca e cravatta che aspetta soltanto la sua preda.
Una delle tante prede uguali a lui.
__________
[1] Il divieto ai minori di 14 anni (in America è andata peggio: v.m. 17!) penso sia dovuto all’esposizione solare del pene di Fassbender. Per carità, ci saranno delle regole, non so, ma le riprese nature non sono altro che elementi modellanti il personaggio che si mostra nudo - e senza vergogna - fin da subito.

lunedì 16 gennaio 2012

The Death of Mister Lazarescu

È una commedia (nera) quella firmata nel 2005 dal rumeno Cristi Puiu, una commedia che però ha poco da far sorridere e molto da far pensare.
Commedia sì, dunque, e senza andare a scomodare troppo le alte sfere potremmo definirla anche Divina, almeno in senso letterario.
Perché il nome completo di questo sessantatreenne che vive solo con 3 gattini è, come gli sentiremo ripetere più e più volte, Lazarescu Dante Remus.
La sua personale discesa negli inferi inizia con un mal di testa e un po’ di vomito. Da qui in avanti il peregrinare da un ospedale all’altro mette in luce un sistema sanitario che non riesce a fornire aiuto poiché alle prese con altri inferni, vedasi un mega tamponamento che ha causato parecchie vittime.
L’empatia che si crea nel vedere il signor Lazarescu sballottato di nosocomio in nosocomio è concreta, non foss’altro perché siamo testimoni di comportamenti e atteggiamenti da parte dei medici connotati da un alto grado di inumanità e saccenza, o magari essi sono semplicemente stressati per causa dell’incidente, e questo non fa che attribuire realtà alla vicenda.
L’imbuto in cui precipita il protagonista non è ripercorribile: portato via dalla sua casa, dai suoi animali, trasportato con un’ambulanza per i vari ospedali di Bucarest e fradicio del suo stesso piscio, quest’uomo è abbandonato a se stesso e al suo male, cosicché a poco serve la vicinanza di un’infermiera (una specie di Virgilio) che si prende cura di lui.

È un cinema libero quello di Cristi Puiu, antiaccademico, oltre le regole tecniche, che se ne infischia dei campi, degli angoli e di tutti gli accorgimenti simili. C’è solo una fonte di osservazione, quella della cinepresa che si fa testimone silenziosa, una mosca che zigzaga nelle sale ospedaliere, che traballa, oscilla, che si ferma e osserva.
Nonostante il minutaggio bello corposo (2 ore e mezza), e la presenza costante di lunghissimi dialoghi, il film non molla un secondo l’attenzione perché, parere personale, azzecca il taglio del racconto, un taglio che sfugge alla romanzatura, alla fiction, alle ingessature della rappresentazione, per essere appunto libero, e quindi più vero.
Il titolo, inoltre, enuclea un concetto che i nostri occhi non vedranno, ma che si può tristemente intuire con Lazarescu rasato e incamiciato sul lettino a cui segue un repentino stacco sui titoli di coda a sfondo nero.
Vincitore a Cannes, a Copenaghen, a Chicago, a Bratislava e in altri Festival sparsi per il globo, l’opera di Puiu ha assolutamente meritato tutte queste attenzioni, e adesso è giunto anche il vostro momento.

domenica 15 gennaio 2012

Cão Sem Dono

Lui è un tipo strano, ha un cane randagio senza nome ma non possiede un cellulare.
Lei è un’aspirante modella che vuole viaggiare, o fuggire.

In questa micro-produzione brasiliana diretta a 4 mani da due registi che leggendo i loro curriculum collaborano insieme da parecchi anni, tali Beto Brant e Renato Ciasca, si evince immediatamente un aspetto: che Cão Sem Dono (2007) è una pellicola girata nell’ombra, e quindi fin dall’inizio l’assenza di luce getta un monito tenebroso sulla prosecuzione della stessa.
Anche quando Ciro e Marcela cominciano a frequentarsi e tutto pare andare nel verso giusto, l’atmosfera è greve poiché gli autori scelgono di affidarsi dogmaticamente alle luci naturali della casa.
I presentimenti di un imbrunimento della storia vengono confermati con il classico momento del distacco in una pellicola a stampo sentimentale. Alla separazione tra i due dovuta ad una pessima notizia come può essere un linfoma, si aggiungono elementi collaterali di natura non proprio positiva: il lavoro che scarseggia, gli affari che vanno male per i genitori di Ciro, il padre che gli dice di aver fatto uso di cocaina in gioventù.

Il problema che però sta alla base di un film come questo è lo stesso, per esempio, di Everyone Else (2009). Il scivoloso guscio autoriale non permette allo spettatore di poter afferrare il film, il quale se ne sta ben distante da chi guarda. Il risultato è che per circa 80 minuti non si assiste ad altro che non siano ovattati quadretti di una relazione che comprende intimità (quando si delinea la geografia e la geometria del rapporto) carnalità (un paio di scene di sesso) e socialità (la classica visita alla coppia amica adibita alla delineazione dei personaggi), il tutto però che come detto viene filtrato dal tocco registico. Per questo anche quando si apprende del tumore la vicenda non ha un cambio di marcia ma continua a galleggiare in un limbo disempatico, e parimenti la disperazione di Ciro per la lontananza della sua lei si avverte molto lontana.
Il finale è, per una volta, positivo, e ad evidenziarlo ci sono delle riprese finalmente lontane dalla penombra.

Troppa noia per poter piacere.

venerdì 13 gennaio 2012

Thom Solo

Due nuove tracce dall'universo Yorke:

mercoledì 11 gennaio 2012

Old Joy

Nonostante la moglie contrariata, Mark parte per un weekend nei boschi insieme al vecchio amico Kurt.

Tratto da un racconto breve di Jonathan Raymond, scrittore che vive a Portland, Oregon, luogo in cui è ambientata la vicenda stessa, precisamente nelle terme naturali Bagby Hot Springs, al secondo lungometraggio di Kelly Reichardt va stretta tale dicitura vista la durata che non arriva nemmeno all’ora e un quarto, per questo la regista nata in Florida decide di compattare nei primi minuti quelle informazioni necessarie, quel background personale finanche sociale dei due personaggi.
Così vediamo una bella casetta americana (ma, come mostra la primissima inquadratura, con delle formiche che brulicano nell’erba) abitata da marito, Mark, e moglie, incinta.
La situazione è dunque questa: un uomo perbene vicino ad un passo importante come diventare padre che vive serenamente (perché, però, quelle meditazioni?) la vicina paternità.
Dall’altro lato abbiamo uno spirito libero, lo si vede nell’abbigliamento, nella barba incolta, che pare essere stato lontano dalla cittadina per un po’ di tempo. Nella reunion mostrata all’interno dell’automobile si parla dei cambiamenti accaduti durante l’assenza di Kurt, poi sulle corde malinconiche di una chitarra la città sfuma ed è solo natura.

Se l’inoltrarsi nel bosco come metafora di un cammino interiore, e quindi la selva, la foresta, le piante, l’acqua e il fuoco visti come lettino psicoanalitico non è il massimo dell’originalità (chissà se la Reichardt ha mai visto Blissfully Yours, 2002), Old Joy (2006) si costruisce da sé una certa aspettativa pur girando al minimo e pur avendo una cronologia dei fatti prossima allo zero assoluto.
Sorprende positivamente l’atmosfera intima che si genera a cospetto di un plot risicatissimo con solo due momenti in cui rivela allo spettatore il nucleo personale del film, ovvero i monologhi di Kurt in cui si intravede, anzi si intrasente, una leggera sofferenza che ha possibili scioglimenti, come la paura di perdere un amico prossimo a diventare padre, o lo scoramento nel vedere un uomo allacciato invisibilmente alla sua condizione di (quasi) papà, di marito, di cittadino, di americano (alla radio ascolta solo programmi che parlano di politica), insomma, un uomo che non è libero, e così gli occhi di Mark, durante il racconto di Kurt appoggiato a quella ringhiera che sembra una croce, si fanno brillanti, lucenti, svincolati dal peso della società.
O forse i due amici rappresentano soltanto due facce della medaglia consunta dell’umanità, ligia al proprio dovere ma che ha, e deve avere dentro di sé, quella gioia di andare, senza una meta, di emanciparsi dalle imposizioni, dai cellulari, dalle strade asfaltate.
In una parola, di viaggiare.

Confidenza su pellicola, cinema capace di esporsi senza sproloqui, minimale, delicato esempio di settima arte che al posto di parlare, intelligentemente suggerisce.

lunedì 9 gennaio 2012

Corrente greca

Non è un’onda perché in questo periodo di restrizioni (laggiù poi!) è meglio andare con i piedi di piombo, ma in Grecia si sta muovendo qualcosa, qualcosa di grosso.
Il portabandiera non può che essere Lanthimos a cui è bastato un film per entrare nelle grazie di moltissimi cinefili tra cui il sottoscritto, poi è arrivata la Tsangari che già aveva collaborato con l’amico Yorgos, adesso è giunto il momento di Babis Makridis, un esordiente che porta il suo L all’imminente Sundance forte della sceneggiatura co-scritta insieme ad Efthymis Filippou, nient’altro che il co-autore di Kynodontas e Alpeis.

L racconta di un uomo che vive nella sua macchina, ma sappiamo già che sarà molto di più.

sabato 7 gennaio 2012

Kaleldo

La storia di tre sorelle e dei loro problemi nella vita.

Netto passo indietro che arriva 365 giorni dopo The Masseur (2005) per Brillante Mendoza.
Tanto era tetro accattivante ed anche originale (a livello di plot) l’esordio, quanto è fiacco, stucchevole e farraginoso questo Kaleldo.
Al di là di una tenue continuità argomentativa che può considerarsi l’unico vero pregio, parliamo di nuovo di un padre, di matrimoni e relativi funerali, il film delude su più fronti, praticamente tutti.
La magagna maggiormente evidente è lo sjuzhet della narrazione che manca di corporeità. Le vicende delle tre sorelle, infatti, paiono essere divise da muri invalicabili, nulla viene fatto per dare fluidità, concatenazione, potrebbero tranquillamente essere storie a se stanti, e il presunto collante della figura paterna non convince data la debole presa generale.
Per di più i fatti rappresentati non hanno niente da invidiare alla drammaticità (?) delle soap-opera: la prima sorella che non accetta il matrimonio combinato, la seconda che tradisce il marito, la terza che ama un’altra donna. Yawwn.

La povertà di idee è preoccupante, ed anche se si segue il principio del “non importa cosa ma importa il come”, ugualmente la regia non si evidenzia per trovate sconvolgenti.
Scandito da capitoletti che portano il nome degli elementi naturali, il film rimane intrappolato nei suoi stessi limiti economici dimostrando gravi lacune sul piano tecnico.
L’atmosfera malsana di Masahista sembra un ricordo lontano perché a parte la fotografia tremendamente banale che regna incontrastata, si riesce a fare peggio nelle scene più buie (tipo quelle nel letto) dove ad un cambio inquadratura muta completamente la veste cromatica dell’immagine, il che non è piacevole per lo spettatore che può toccare con occhio una mancanza di professionalità.

Le cadute di uno stile latitante sono molte, mi sento di citare un pezzo di carne usato come oggetto contundente e una parentesi folkloristica di gente che si autoflagella in strada messa lì giusto per riempire un buco.
In generale mi viene da accostare quest’opera ad un altro film filippino denominato Scorpio Nights (1985), e tale associazione non è proprio lusinghiera.
Lasciatemelo dire: un Mendoza ben poco brillante.

venerdì 6 gennaio 2012

100% Lana americana


Se non esistesse Internet non esisterebbe nemmeno l’hype che circonda questa ragazza.
(e non esisterei neanch’io, quindi viva il web)
Il dubbio che mi pongo è: il suo incombente disco d’esordio è così atteso perché lei è davvero brava o perché ha i classici lineamenti da pornostar americana?
In attesa di una risposta, il 14 dicembre scorso è comparso il videoclip ufficiale del singolo Born To Die che in neanche un mese ha superato le 8 milioni di visualizzazioni.
Dal video si possono evincere tre cose:
- che è brutto perché come spesso accade per questo genere di produzioni la componente narrativa passa in cavalleria per favorire immagini glamour messe lì tanto per (lei in mezzo alle tigri, perché?), ed anche l’aderenza al testo è debole, forse perché è il testo in sé che non offre granché…
Si salvano i giochi di ombre che svelano qui e là il tipo tatuato.
- che il pezzo è carino. Ma già lo avevamo potuto ascoltare mesi fa e quindi l’effetto sorpresa è un po’ scemato.
- che a Lana se andrà male la carriera musicale con quelle labbra potrà tranquillamente sfondare altrove.

Aggiungete un “farsi” tra la penultima e terzultima parola del periodo precedente.

giovedì 5 gennaio 2012

Be Sure to Share

Che Sion Sono sia un regista prolifico è sotto gli occhi di tutti, dal 1985, anno del suo esordio con un documentario dal titolo emblematico Ore wa Sono Sion da! (I Am Sion Sono!), ha praticamente viaggiato al mostruoso ritmo di un film ogni 365 giorni.
Che sia poi un tipo eclettico lo si può capire scorrendo il suo curriculum in cui egli salta abilmente da un genere all’altro. E se questo non fosse sufficiente, per amplificare il suo tratto poliedrico basta prendere in esame una qualunque delle sue pellicole in modo da capire che anche solo una singola opera stratifica all’interno molteplici registri.
Ora, se si tiene conto che Sono nel 2008 ha partorito quella splendida follia che è Love Exposure, e appena due anni dopo ha rincarato la dose con il mastodontico Cold Fish, una mente razionale asserirebbe che nel 2009, anno di questo Chanto tsutaeru, le cose dovrebbero seguire il medesimo andazzo e perciò sarebbe lecito attendersi la solita (e piacevole) bastonata sui denti di sononiana potenza.

Invece no. Nonostante il film in questione sia compreso tra due opere che non esito a definire incredibili, il risultato complessivo sembra uscito fuori dalla mano di qualunque altro regista, ma certamente non da quella di Sion Sono.
Sebbene l’asse portante della sua intera produzione sia qui presente – ancora una volta la famiglia è il nucleo concettuale –, l’autore giapponese abbassa il tiro per virare in territori che lasciano di stucco trattandosi di lui medesimo. Va quindi subito detto: niente sangue, niente carneficine, niente incesti, niente devianza, ma soltanto doloretti, certamente grandi, eppure depotenziati dall’ordinarietà con cui vengono proposti. Al di là del fatto che l’intima dedica al proprio padre intenerisce anche un duro spettatore come il sottoscritto, ho vissuto il dramma genitoriale e intragenerazionale (papà malato di cancro e figlio ventisettenne pure) con freddo distacco, e questo è dovuto ad una questione che non credo di sbagliare se definisco oggettiva.

Sono non è mai stato un manipolatore del dramma ma bensì un abile rimodellatore. La forza tellurica sottostante i suoi lavori si deve al mix di trovate che danno nerbo alle vicende, e non si tratta praticamente mai di storie percorribili realisticamente, tutt’altro, le suddette storie sprigionano un tale tasso weirdoso da renderle, per forza d’ossimoro, credibilmente improbabili.
Con Be Sure to Share non accade niente di tutto ciò perché alla drammaticità vengono sottratte quelle componenti che in passato e nel futuro esalteranno le opere di Sono. Quel che resta allora è una normale rappresentazione della tragedia senza particolari picchi se non la scena poetica (vera rarità nella sua arte) in cui il figlio riesce a realizzare il proprio desiderio.

Mai uscito dai confini del Giappone (ho lasciato apposta il titolo originale) se non per alcuni festival, l’ultimo è quello di Torino che ha dedicato una retrospettiva al regista, Chanto tsutaeru è opera pressoché anti-programmatica nonché negativamente allineata ad un cinema troppo comune per poter emergere.
Sono ha fatto di meglio, ma credo che questo lo sappia lui stesso.

martedì 3 gennaio 2012

The House Is Black

Film di frontiera. Perciò estremo, nel senso più pieno della parola.
L’ultima fermata prima dell’inferno? No. Il lebbrosario ripreso dalla poetessa iraniana Forugh Farrokhzad è molto più prossimo alla morte che alla vita, è già l’inferno, anche se, come viene ripetuto dalla voce narrante, non è un luogo definitivo: la lebbra può essere curata.
Le immagini però non sembrano presagire niente di buono, il portone all’entrata di questa comunità isola da ciò che sta oltre, e dentro si va vanti come si può, cercando la normalità (una donna sfigurata che si trucca), tentando vanamente di pregare il proprio dio ringraziandolo per aver donato le gambe, gli occhi, le orecchie, almeno fino a quando la lebbra non si sarà mangiata tutto questo.

Frontiere d’umanità.
Sono venti minuti in cui l’Uomo si sgretola, perde pezzi, la pelle gli scivola via dalla faccia, c’è chi abbandonata la ragione balla e canta, c’è chi, come quei bambini vecchissimi con le rughe e la testa calva, resta comunque un bambino che vuole giocare e andare a scuola.
Ed è proprio nell’innocenza di una lezione scolastica che lo spettatore viene definitivamente avvolto da una nebbia scura, da una notte senza stelle.
“Fammi un elenco di cose brutte.” Chiede il maestro ad un alunno.
E lui risponde: “Testa, piedi, mani…”
Disgregazione della specie, presa coscienza del proprio orrore, della malattia, e assolutizzazione del concetto: il mio mondo è fatto di gente senza naso, senza dita, piena di bubboni e pustole rigonfie. Questo è ciò che vedo, questo è il mondo, deve aver pensato il bimbo.
Questo è ciò che anche noi abbiamo visto.

Girato nel 1963 a Tabriz, popolosa città dell’Iran settentrionale.