Poi mi è venuto da pensare un po’ alla natura di Citadel, alla sua “istantaneità”. Perché questo carattere di immediatezza non può che avere un destino breve visto che la realtà corre molto più in fretta del momento che si intende cristallizzare. Nello specifico, dall’inizio della pandemia l’operato di Johnson ha, per l’opinione pubblica nostrana, attraversato diverse fasi, la prima è quella inquadrata qui da Smith, e quindi una serie di critiche in relazione al numero di morti, dopodiché, con la partenza a razzo della campagna vaccinale avvenuta in modo più snello per via dell’assenza di tutti i vincoli europei che invece hanno caratterizzato gli altri Paesi membri, c’è stato un plauso generale dovuto al crollo dei contagi e soprattutto a quello dei ricoveri ospedalieri, infine con il diffondersi della variante Delta il modello UK in merito ai vaccini ha mostrato una falla, la scelta di puntare a vaccinare più popolazione possibile con la prima dose non ha immunizzato un quantitativo sufficiente di persone permettendo così al ceppo indiano di circolare con efficacia. Insomma, tornando al corto si può dire che il suo essere instant è davvero tale e che, oggi, appartiene già al passato, ma proprio per il suddetto motivo, per essere un pezzettino della storia recente, è un lavoro interessante, non tanto per noi, ma per chi verrà dopo di noi, i quali potranno vedere, tra le altre cose, il significato di vivere per mesi chiusi in casa improvvisando doti culinarie e/o sportive non realmente possedute.
venerdì 25 giugno 2021
Citadel
sabato 19 giugno 2021
The Absence of Apricots
Ma The Absence of Apricots (2018) non è solo documentario, attraverso un procedimento non troppo lontano da alcuni allestimenti folkloristici di Peter Brosens e Jessica Woodworth (cfr. Khadak, 2006), Asadi Faezi innesta alla testimonianza diretta una storia che attinge al fiabesco con un cacciatore di stambecchi che emerge dalla superficie lacustre ed una fata sapiente che lo guida nell’erto percorso. La complementarietà delle due visioni è un dato probabilmente riscontrabile, di evidente stonature non ne ho ravvisate quindi nel globale le cose scorrono in maniera accettabile, resta comunque aperta quella che il sottoscritto considera una ferita, ovvero la scelta di intensificare così marcatamente il girato sottostimando le potenzialità del reale che, a priori, contiene già qualunque racconto possibile o impossibile che verrà dopo. Ad ogni modo capisco (e accetto) il senso di un film del genere, senza fare troppo le pulci alla sezione favolistica che forse non ce n’è nemmeno bisogno, The Absence of Apricots ha valore nel suo mettere a conoscenza l’ignaro spettatore a proposito di un luogo (e dei suoi residenti) dimenticato da qualsiasi divinità, quando il cinema apre porte su ciò che è sconosciuto non si può mai parlare di tempo sprecato.
Postilla: tempo dopo la visione del doc in oggetto ho messo gli occhi sulla riedizione del 2020 di Afghanistan Picture Show: ovvero, come ho salvato il mondo proposta da minimum fax. Ebbene, nelle pagine-diario di un giovane Vollmann intento a recarsi in Afghanistan per fronteggiare i russi, ci sono lunghe e attente descrizioni dei brulli ambienti circostanti, praticamente i medesimi ripresi da Asadi Faezi. Un giudizio sintetico sul libro? Non il miglior Vollmann ma, signore e signori, è pur sempre Vollmann e va obbligatoriamente letto.
domenica 6 giugno 2021
How to Draw a Perfect Circle
Nel globale vige una sobrietà, un’asciuttezza, un fare morigerato o chiamatelo come vi pare, che, insieme al mood uggioso di cui è imbevuto ogni fotogramma riesce a tenere sì e no sotto controllo i potenziali scivoloni gratuiti. Perché se vogliamo parlare di cosa accade in How to Draw a Perfect Circle, ossia di una tensione erotica finanche incestuosa snocciolata attraverso avvenimenti non proprio di nobile rango (la scena maggiormente forzata rimane quella in cui Guilherme si masturba a fianco di Sofia), be’, ci sarebbe da obiettare parecchio, eppure, a prescindere dall’evidente esacerbazione, dal volere toccare a tutti i costi un tabù innominabile, non si pecca di troppa esibizione, e non dico che le cose fluiscano serene e naturali ma di sicuro, nell’area narrativa, si è visto di peggio. L’emblema di tale discorso è l’amplesso conclusivo, acme parossistico che farebbe impallidire anche il pubblico meno bigotto tradotto in un cinema ferino e senza ossigeno, appiccicato alla pelle rendendola indistinta, scosso da sussulti pelvici e bagnato di saliva adolescenziale, una sequenza che ha energia e che Kechiche penso apprezzerebbe.
Il regista imbastisce perciò una storia che tenta, a tratti disperatamente, di affrontare tematiche legate ai sentimenti in uno spettro ampio e affrancato da cliché, ci prova, sì, tuttavia il film è attirato da un magnete luttuoso che lo trasporta in zone distanti eoni da un briciolo di felicità. La plumbea città ripresa è lo specchio dell’esistenza condotta da Guilherme, un ragazzo, un figlio, pervaso di fremiti continuamente castrati da una contiguità con la morte, ci sono due momenti in cui è suo malgrado voyeur di due coiti riguardanti altrettanti oggetti amorosi (la sorella ed il padre), ebbene affiancati ad essi Martins piazza due bordate funebri (il rigido cadavere della nonna e quello fuori campo del vicino di sopra) che affinano il precipitato dell’opera e la correlata vibrazione verso una costante assoluta come la morte (e come l’amore che ne è l’equivalente rovesciato). Perché voler disegnare un cerchio perfetto allora? Per cercare un’agognata compiutezza che prescinda dal malessere e dalle complicazioni della vita, o piuttosto il prendere atto di una condizione che non ha uscita di sicurezza, un loop dove inizio e fine coincidono (il faro giallo del motorino nella notte = la circonferenza sul muro di una distrutta Sofia nel finale).