venerdì 25 giugno 2021

Citadel

So che esistono gli instant book ma non so se esistono gli instant film, se così fosse, ovvero se fosse possibile applicare questa etichetta anche alla galassia-cinema, allora Citadel (2021) vi rientrerebbe appieno. La mano dietro questo cortometraggio è quella di John Smith, un filmmaker londinese dal lungo curriculum che penso valga la pena approfondire, il quale posizionando il suo sguardo al di fuori della propria abitazione ci restituisce un quarto dora che sintetizza i primi confusi mesi del 2020 (e non che gli attuali lo siano di meno), quelli in cui lombra del coronavirus si stava allungando sul mondo intero. Il compendio di quel periodo è un incontro tra le immagini oltre la finestra di una city immobile e uguale a se stessa mentre le stagioni, e quindi il tempo, passa via, con stralci di discorsi proferiti dal primo ministro Boris Johnson e montati sulle vedute panoramiche. Non ci vuole molto a comprendere che loperazione di Smith sottende un discreto sarcasmo nei confronti di BoJo e della sua linea politica in fatto di COVID-19, a prescindere dalla scritta esplicita che chiude il film e che sottolinea il pessimo bilancio in fatto di decessi nel Regno Unito ad agosto 20, il regista suffraga la sua opera con divertenti ed efficaci accorgimenti che puntano artisticamente il dito sulle parole di Johnson, quella ripetizione quasi ossessiva di “buy and sell” o la voce del premier in sincrono con le luci dei grattacieli che provoca una sorta di cortocircuito nelle case dei civili, sono due esempi che a mio avviso rafforzano questidea di dardeggiamento verso la condotta tenuta dal governo britannico per fronteggiare l'avanzata del virus.

Poi mi è venuto da pensare un po alla natura di Citadel, alla sua “istantaneità”. Perché questo carattere di immediatezza non può che avere un destino breve visto che la realtà corre molto più in fretta del momento che si intende cristallizzare. Nello specifico, dallinizio della pandemia loperato di Johnson ha, per lopinione pubblica nostrana, attraversato diverse fasi, la prima è quella inquadrata qui da Smith, e quindi una serie di critiche in relazione al numero di morti, dopodiché, con la partenza a razzo della campagna vaccinale avvenuta in modo più snello per via dellassenza di tutti i vincoli europei che invece hanno caratterizzato gli altri Paesi membri, cè stato un plauso generale dovuto al crollo dei contagi e soprattutto a quello dei ricoveri ospedalieri, infine con il diffondersi della variante Delta il modello UK in merito ai vaccini ha mostrato una falla, la scelta di puntare a vaccinare più popolazione possibile con la prima dose non ha immunizzato un quantitativo sufficiente di persone permettendo così al ceppo indiano di circolare con efficacia. Insomma, tornando al corto si può dire che il suo essere instant è davvero tale e che, oggi, appartiene già al passato, ma proprio per il suddetto motivo, per essere un pezzettino della storia recente, è un lavoro interessante, non tanto per noi, ma per chi verrà dopo di noi, i quali potranno vedere, tra le altre cose, il significato di vivere per mesi chiusi in casa improvvisando doti culinarie e/o sportive non realmente possedute.

sabato 19 giugno 2021

The Absence of Apricots

Cinema territoriale che, appunto, trae spinta dal suo concentrarsi su una specifica zona geografica: siamo in un Pakistan settentrionale dal clima avverso dove a causa di un’enorme frana un fiume si è trasformato in un lago mutando di conseguenza le esistenze delle genti che lì vi abitavano. Daniel Asadi Faezi, tedesco di nascita ma il cognome non sembra esattamente teutonico, sceglie come metodo di trasmissione quello documentaristico e, come dire, si trova la tavola già apparecchiata: di bellezza il paesaggio di questa valle erosa dal vento ne offre parecchia ed il giovane regista si mette giustamente a disposizione di essa, i campi utilizzati infatti esaltano i contrasti naturalistici tra il blu delle acque ed il grigio-bianco spigoloso delle rocce, in mezzo, inevitabile, le persone. Qui scatta il breve ritratto antropologico, sulla scia di quei cineasti sempre pronti a tuffarsi nelle realtà specifiche, Asadi Faezi immortala l’eternità del quotidiano tra le montagne e il vivere comune sotto un tetto in cui è indispensabile centellinare l’energia elettrica. Se si è in cerca di una proposta indimenticabile siete nel posto sbagliato, non lo siete, invece, se sul versante umano vi “accontentate” di incontrare donne e uomini appartenenti ad un altro mondo dove però certe sfumature, certi dettagli, certi sentimenti mi spingono ogni volta a pensare di quanto in fondo siamo tutti così meravigliosamente uguali.

Ma The Absence of Apricots (2018) non è solo documentario, attraverso un procedimento non troppo lontano da alcuni allestimenti folkloristici di Peter Brosens e Jessica Woodworth (cfr. Khadak, 2006), Asadi Faezi innesta alla testimonianza diretta una storia che attinge al fiabesco con un cacciatore di stambecchi che emerge dalla superficie lacustre ed una fata sapiente che lo guida nell’erto percorso. La complementarietà delle due visioni è un dato probabilmente riscontrabile, di evidente stonature non ne ho ravvisate quindi nel globale le cose scorrono in maniera accettabile, resta comunque aperta quella che il sottoscritto considera una ferita, ovvero la scelta di intensificare così marcatamente il girato sottostimando le potenzialità del reale che, a priori, contiene già qualunque racconto possibile o impossibile che verrà dopo. Ad ogni modo capisco (e accetto) il senso di un film del genere, senza fare troppo le pulci alla sezione favolistica che forse non ce n’è nemmeno bisogno, The Absence of Apricots ha valore nel suo mettere a conoscenza l’ignaro spettatore a proposito di un luogo (e dei suoi residenti) dimenticato da qualsiasi divinità, quando il cinema apre porte su ciò che è sconosciuto non si può mai parlare di tempo sprecato.

Postilla: tempo dopo la visione del doc in oggetto ho messo gli occhi sulla riedizione del 2020 di Afghanistan Picture Show: ovvero, come ho salvato il mondo proposta da minimum fax. Ebbene, nelle pagine-diario di un giovane Vollmann intento a recarsi in Afghanistan per fronteggiare i russi, ci sono lunghe e attente descrizioni dei brulli ambienti circostanti, praticamente i medesimi ripresi da Asadi Faezi. Un giudizio sintetico sul libro? Non il miglior Vollmann ma, signore e signori, è pur sempre Vollmann e va obbligatoriamente letto.

domenica 6 giugno 2021

How to Draw a Perfect Circle

È Marco Martins, nato a Lisbona nel 1972, una nuova scoperta (nuova per questo blog, si intende) del cinema portoghese dal curriculum non troppo consistente ma arricchito da collaborazioni di rilievo con esimi colleghi del calibro di João Canijo e Pedro Costa in Casa de Lava (1994) senza scordare la scrittura insieme a Tonino Guerra del cortometraggio Um Ano Mais Longo (2006). Como Desenhar um Círculo Perfeito (2009) arriva quattro anni dopo l’esordio nel lungo Alice (2005) e di primo acchito l’impressione è che Martins si sia preso un discreto rischio camminando su un filo del rasoio quanto mai sottile. Se infatti avessi letto la sinossi senza vedere l’effettivo espletamento per immagini: aiuto!, il concentrato di turbe sessuali e ammiccamenti verso una perversione sulla carta ruffiana mi avrebbero spinto lontano dalla visione, Martins però risulta piuttosto avveduto e debella le possibili furbizie con uno stile che, facendo un paragone lusitano, Salaviza riadatterà a modo suo (sebbene qui, comunque, la base finzionale è molto marcata), e quindi una presa sulla realtà (urbana, domestica) che non conosce trionfalismi, silenziosa e discreta, incupita da una palette di colori che ricorda le ombre (ma giusto quelle e basta) del già citato Costa.

Nel globale vige una sobrietà, un’asciuttezza, un fare morigerato o chiamatelo come vi pare, che, insieme al mood uggioso di cui è imbevuto ogni fotogramma riesce a tenere sì e no sotto controllo i potenziali scivoloni gratuiti. Perché se vogliamo parlare di cosa accade in How to Draw a Perfect Circle, ossia di una tensione erotica finanche incestuosa snocciolata attraverso avvenimenti non proprio di nobile rango (la scena maggiormente forzata rimane quella in cui Guilherme si masturba a fianco di Sofia), be’, ci sarebbe da obiettare parecchio, eppure, a prescindere dall’evidente esacerbazione, dal volere toccare a tutti i costi un tabù innominabile, non si pecca di troppa esibizione, e non dico che le cose fluiscano serene e naturali ma di sicuro, nell’area narrativa, si è visto di peggio. L’emblema di tale discorso è l’amplesso conclusivo, acme parossistico che farebbe impallidire anche il pubblico meno bigotto tradotto in un cinema ferino e senza ossigeno, appiccicato alla pelle rendendola indistinta, scosso da sussulti pelvici e bagnato di saliva adolescenziale, una sequenza che ha energia e che Kechiche penso apprezzerebbe.

Il regista imbastisce perciò una storia che tenta, a tratti disperatamente, di affrontare tematiche legate ai sentimenti in uno spettro ampio e affrancato da cliché, ci prova, sì, tuttavia il film è attirato da un magnete luttuoso che lo trasporta in zone distanti eoni da un briciolo di felicità. La plumbea città ripresa è lo specchio dell’esistenza condotta da Guilherme, un ragazzo, un figlio, pervaso di fremiti continuamente castrati da una contiguità con la morte, ci sono due momenti in cui è suo malgrado voyeur di due coiti riguardanti altrettanti oggetti amorosi (la sorella ed il padre), ebbene affiancati ad essi Martins piazza due bordate funebri (il rigido cadavere della nonna e quello fuori campo del vicino di sopra) che affinano il precipitato dell’opera e la correlata vibrazione verso una costante assoluta come la morte (e come l’amore che ne è l’equivalente rovesciato). Perché voler disegnare un cerchio perfetto allora? Per cercare un’agognata compiutezza che prescinda dal malessere e dalle complicazioni della vita, o piuttosto il prendere atto di una condizione che non ha uscita di sicurezza, un loop dove inizio e fine coincidono (il faro giallo del motorino nella notte = la circonferenza sul muro di una distrutta Sofia nel finale).