sabato 30 maggio 2009

Le ombre della luce

Ci sono persone che pensano, altre che riflettono.
Ri-flettono, si piegano.
Ri-flettono, vivono di riflesso.
Dipendono da altri, esistono come altri, riverberano la luce, seguono, in-seguono, e non ne sono consapevoli.
Spesso queste persone si riempiono la bocca di parole che non conoscono, ascoltano canzoni che non sanno, guardano film e leggono libri che non capiscono. Ridono perché lo fa qualcun altro, usano le stesse parole, gli uguali suoni, le medesime idee. Ma a loro non importa, se la luce fa così loro la ri-flettono, si piegano ad essa. Addirittura arrivano a tifare per una squadra di calcio senza sapere da quanti giocatori è composta, una squadra.
Dicono che lo fanno per amore.
Non Pensano, però, che così facendo inaridiscono due vite all’unisono, logorandosi. Diventando l’ombra di un altro perdono la loro consistenza, trasformando se stessi in una cop(p)ia sbiadita.
E la loro luce? Si affievolisce pian piano, inglobata da quell’ombra che la incatena a lei soffocandola.
Ho letto pochi giorni fa alcuni stralci di Avere o essere? (Mondadori, 1977) di Erich Fromm, scrive il sociologo tedesco: “L’atto di amare contiene il valore di portare alla vita, significa aumentare la vitalità dell’altro. È dunque un processo di autorinnovamento, di autoincrementamento”.

Mi viene da ridere, penso alle parole delle ombre. Corrono più da un cellulare all’altro che di bocca in orecchio, sono allitterazioni. Movimenti sabbiosi di sillabe, vocali e consonanti che girano in loop. In un vicolo cieco, nel buio, nell’ombra, nel niente. Le parole sono importanti, loro non lo sanno.
Penso alle ombre e ho paura.
Di me, di loro, di noi.

venerdì 29 maggio 2009

Quando soffia il vento

Probabilmente la preghiera finale è uno dei momenti più toccanti che mi siano capitati di vedere. Roba che ti tocchi per capire se sei vivo, e quando realizzi che sì, respiri regolarmente pur avendo trattenuto il fiato per 80 minuti, ti raggomitoli in te stesso fino a diventare piccolo piccolo, quasi una nullità.
Io non so quando sia lecito parlare di “capolavoro”, proprio non so, ma quel Padre nostro, quella voce fuori campo, e quel cielo grigio che sfuma nell’azzurro diventando IL cielo, beh, non possono che farmi scattare in piedi per sbattere ripetutamente le mie mani neanche passasse di lì uno sciame di zanzare.
E non nego nemmeno che durante i titoli di coda il dorso della mia mano destra sia passato rapidamente ad asciugare le ciglia inumidite.
Ma forse è meglio spiegare tutto dall’inizio. Quando soffia il vento è un film di animazione del 1986 di Jimmy Murakami tratto dalla graphic novel di Raymond Briggs, qui autore anche della sceneggiatura.
Con una tecnica particolare (e forse non riuscitissima a chi ormai è abituato ad ammirare i lavori della Pixar & co.) in cui si fondono alcuni elementi tridimensionali ad un classico piano a due dimensioni, si racconta la storia di James e Hilda Bloggs, due anziani che vivono nella campagna inglese in una bella casetta circondata da colline verdi e alberi rigogliosi.
Un giorno si sparge la notizia di un possibile attacco nucleare, così Jim, munitosi diligentemente di opuscoli informativi, costruisce un riparo alla buona nella casa. Ma quando viene sganciata la bomba la campagna circostante si trasforma in un deserto di morte, e i due vecchietti, colpiti dalle radiazioni, non possono che aspettare inermi la propria fine.

Il Morandini accusa il film di essere terribilmente prolisso.
Il Morandini può andare a farsi fottere.
Non nego un uso smisurato della parola, ma come si poteva fare con solo due personaggi sulla scena? Ma poi, se questa operazione fosse venuta male potrei capire, invece gli sproloqui di Jim accompagnati dalla materna bonarietà di Hilda sono deliziosi, riescono a rendere al meglio l’immagine di due pensionati che devono fare i conti con la noia, la lontananza dai figli, i rimpianti del passato, i ricordi di una guerra per certi versi rassicurante dove il nemico era ben delineato, mentre ora (piena guerra fredda) è tutto così confuso… Da che parte stanno i russi? E i tedeschi?
Nel film non si verrà a sapere chi ha attaccato l’Inghilterra, non ha importanza ai fini della storia. Dopo il bombardamento, sottolineato in una magnifica sequenza in cui durante l’esplosione un frammento di qualcosa (forse una tazzina) colpisce la vecchia foto di Jim e Hilda sposati, e con un flashback schizzato a matita riviviamo i momenti salienti della loro vita, inizia il martirio dei coniugi. Soli, esposti alle radiazioni.
Ciò che fa più tenerezza è l’inguaribile ottimismo di Jim che non smette mai, e sottolineo mai, di rassicurare la moglie: “Stai tranquilla micia, i soccorsi arriveranno subito.”
È lacerante osservare impotenti la distruzione fisica di questi due personaggi, iniziano con mal di testa e conati di vomito, per terminare con piaghe in tutto il corpo che Jim, senza perdere la speranza, diagnostica come semplici vene varicose. L’annientamento del corpo non segue quello della mente che resta lucida fino all’ultimo istante, infilatisi in sacchi di iuta, perché così suggeriva l’opuscolo, - allucinante questa sequenza in una sorta di stop-motion-, Jim e Hilda ormai martoriati si accasciano nel piccolo rifugio casalingo. Moriranno lì, domandandosi a chi destinare la loro preghiera, mentre l’ultima luce arriva rischiarare il cielo.

Come prevedevo con le mie parole non sono minimamente riuscito a rendere giustizia a questo film grandioso. Che posso dire di altro se non guardatevelo?

mercoledì 27 maggio 2009

Fata Morgana

Primo contatto tra il continente nero e quello che Ghezzi definisce il più meticoloso fino a sfiorare l’autobiografia fra tutti i viaggiatori africani del cinema: Werner Herzog.
Il titolo si rifà ad una illusione ottica in cui un’immagine posta in lontananza appare come sollevata dal suolo in seguito alla particolare distribuzione dell’indice di rifrazione del sole in diversi strati d’aria. E questo miraggio ritorna più volte durante i tre capitoli che compongono il film: La creazione, Il paradiso e L’età dell’oro.
Inizialmente Herzog concepì il film come una pellicola fantascientifica dove degli extraterrestri atterravano sulla terra e la esploravano. Accantonata l’idea, che verrà ripresa in parte nel 2005 con L’ignoto spazio profondo, il film costò due anni di lavoro al regista durante i quali fu anche arrestato in Camerun.

La struttura dell’opera è semplice: una voce extradiegetica accompagna le immagini sullo schermo che con l’avvicendarsi dei capitoli presentano progressivamente i segni tangibili dell’uomo.
Ma a differenza di un impianto lineare, Fata Morgana è quanto di più obliquo ci possa essere. Ha le vesti di un documentario, ma nel senso stretto del termine non ha alcun scopo informativo, scientifico o divulgativo. Herzog “distrugge” il codice cinematografico fin dai primi secondi con quell’aereo che atterra sulla pista una decina di volte consecutivamente, inoltre annienta la narrazione che non ha una sua identità ma si avverte come un susseguirsi di frasi astratte dalla realtà e in alcuni frangenti asettiche al contesto. Ne La creazione vengono spesso citate divinità Maya, ma le immagini mostrano deserti infuocati e carcasse di animali, c’è come una scollatura, sicuramente voluta, fra la narratio e l’ambiente ripreso. Il disorientamento prosegue ne Il paradiso dove l’uomo comincia ad occupare lo spazio e a reclamare il SUO spazio in cui non c’è più posto per gli animali che sono uccisi (una volpe bianca nelle mani di un bambino) o controllati (uno scienziato si chiede come possa sopravvivere un varano nel deserto). Sulle note di Leonard Cohen veniamo trascinati ne L’età dell’oro: se le riprese fino a quel momento sono sempre in movimento con una camera-car che scorre lungo villaggi disabitati e dune desertiche, ora si fermano in una stanza dove un improbabile duo suona una canzoncina spagnola, a questo punto l’uomo sembra avere il controllo del pianeta: coltiva le piante, conosce la biologia di una tartaruga, esulta per la pace.

Un film dove il messaggio forse si perde nel suo andamento onirico, mistico, quasi ascetico. Ma a distanza di circa quarant’anni possiede ancora un certo appeal.

lunedì 25 maggio 2009

Canicola

Curioso, davvero curioso questo film austriaco che vinse il Leone d’argento nel 2001.
La sua struttura non presenta grandi guizzi di genialità da tramandare ai posteri, eppure un’ossatura così derivativa presenta una vera cifra personale, certamente non da spellarsi le mani, ma coerente ed omogenea dal primo all’ultimo minuto.
Ulrich Seidl mette in scena un dramma corale con venature da commedia nera ispirandosi a modelli alti, anzi altissimi, come Altman o il suo connazionale Haneke. Il risultato finale non raggiunge tali picchi cinematografici perché manca un po’ di mordente nella critica al tanto odiato ceto medio, ma come detto Seidl dà un’impronta precisa al film: smunto, disincantato, quasi rassegnato. Il tutto attorcigliato dal filo del grottesco, qui opulente seppur disadorno, come la regia che si prodiga in riprese ferme, immobili, ma al contempo stranianti, e, per essere banali, semplicemente strane. La critica ha accusato Seidl di un compiacimento inopportuno nelle scene di sesso esplicito. Premettendo che non so se sia lecito parlare di “compiacimento da serie A” e compiacimento da serie B”, ho trovato le nudità presenti nel film lontanissime da una qualunque velleità pruriginosa.
I corpi che vediamo sono in disfacimento, obesi, vecchi, anti-estetici ed anti-erotici. È in qualche modo diverso osservare il fisico di una modella ventenne che inscena uno spogliarello, piuttosto che un’attempata settantenne che si toglie i mutandoni ascellari di fronte ad un soddisfatto vecchietto (ma va?). Forse è anch’esso compiacimento, ma non si avverte nell’intento del regista uno stratagemma per stupire o scioccare lo spettatore. Tutt’altro, le dinamiche che coinvolgono i vari personaggi trasmettono una specie di tenerezza per questi disgraziati che non hanno una doppia faccia: sono brutti sia fuori che dentro.
Certo che la mole di “materiale umano” presente nel film è davvero notevole, e pur durando due belle orette molte sfaccettature non vengono riprese a dovere, o non vengono riprese affatto. Molto azzeccati sono i personaggi del tamarro rissoso e della logorroica autostoppista: il primo verso la fine è protagonista di un dialogo surreale, ma così maledettamente vero, con la sua fidanzata, che vi colpirà per la grande prova attoriale di entrambi; la seconda, interpretata da Maria Hofstatter, è un po’ la mina vagante del film, viaggia chiedendo passaggi agli automobilisti, e con le sue domande impertinenti da grillo parlante “sveste” la morale dei buoni cittadini. Nel suo caso è ottimo il lavoro della doppiatrice italiana.
A controbilanciare vi sono aspetti non proprio limpidi che credo siano volutamente lasciati inspiegati per dare un tocco più naif al film.

Non lo consiglierei spassionatamente, ma nemmeno vieterei la visione. Terrò d’occhio Ulrich Seidl, ha le carte in regola per entrare nelle mie grazie.

venerdì 22 maggio 2009

Soffio

Soffio è una brutta poesia letta da uno dei più grandi interpreti del mondo.
Accettare o meno questo film sta tutto nell’abbassarsi ad un semplice compromesso, quello di sottostare a suoni già sentiti e immagini già viste ma di grande qualità. Certo, si tratta sempre di riproposizioni, di allungamenti innaturali che sbiadiscono temi trattati infinite volte meglio in passato.
Il Kim più recente è stato accusato di fare film fini a se stessi dove la sua tecnica è diventata una mera “maniera” cinematografica. Non saprei dire se ciò corrisponde alla verità e sinceramente poco m’interessa. Che il regista ritorni sempre sui suoi passi o che sperimenti nuove strade non ha un peso specifico importante perché in entrambi i casi potrebbe inciampare, io voglio vedere “solo” un buon film, e Soffio non lo è, almeno non del tutto.
Ciò che traspare è una staticità snervante in cui i protagonisti pur movendosi, parlandosi, baciandosi e quant’altro, restano calcificati sul set, trasmettendo la sensazione che in scena non stia accadendo un bel niente. Ad una freddezza dell’insieme si aggiunge la scelta di utilizzare soltanto due ambienti, la casa e la prigione, dando vita ad una struttura che ripetendosi diviene inesorabilmente stucchevole.
Se Kim non avesse girato Primavera… (2003) le sequenze del parlatorio acquisterebbero più valore di quello che hanno, un valore che, a parer mio, è abbastanza elevato in quanto si tratta soltanto di un autocitazione, e non di uno scopiazzamento. La scena possiede un significato differente rispetto al film del 2003 perché gli interpreti non cambiano con la ciclicità della natura, ma restano sempre uguali, con le stesse paure e disperazioni. Prova ne è che l’imponente paesaggio qui è ridotto ad alcuni poster appiccicati ad un muro come un illusione, una realtà posticcia, artificiale. Ma in questa deriva materiale, si perde anche il lirismo kimmiano che abbandona ogni tipo di figura retorica diventando poetico quasi quanto Moccia, il che è tutto dire.
La poesia scarica si avvale inoltre di dettagli poco preziosi, nonché immotivati.
La presenza (solo di riflesso) del regista come capo del carcere che guarda il film, divenendo, dunque, parte di esso, è una trovata futile ai fini della storia che ha il sapore del triste pretesto. Niente a che vedere con il vecchio Real Fiction (2000).

Poco chiara la relazione fra Chang Chen e l’altro detenuto che sembra mosso da un istinto di catulliana memoria, si riesce a carpire poco dai loro silenzi, e lo scenario in qui si muovono, o meglio stazionano, appare come la fotocopia scolorita del carcere chimerico in Ferro 3 (2004), qui è così concreto, così brutalmente realistico. Al pari della nevicata finale che in Birdcage Inn (1998) sembrava dipinta sulla pellicola, mentre in Soffio non assume altri significati se non quello di semplice fenomeno atmosferico. L’intenzione di caricare la neve d’una cifra collante per la famiglia rimane appunto un proposito filmico che non tocca minimamente lo spettatore.
Vista l’estrema sintesi dei suoi ultimi titoli (Time, Soffio, Dream), non vorrei che Kim Ki-duk stesse preparando il proprio epigramma funerario.

mercoledì 20 maggio 2009

Burden of Dreams

I sogni hanno un peso.
Herzog lo sa molto ma molto bene perché nel Novembre del 1981 trainò su per una montagna, nel mezzo della giungla, sulle rive di un fiume limaccioso, un sogno pesante tonnellate e tonnellate.
Les Blank c’era e lo ha filmato.
Burden of Dreams è il documentario sulla lavorazione di Fitzcarraldo (1982).
Blank segue passo passo la creazione del film partendo dalla genesi e giungendo alla realizzazione del sogno. Ma la storia contenuta fra questi due estremi ha dell’incredibile, e di seguito tenterò brevemente di riassumerla.
Innanzi tutto nella prima location l’intera troupe ebbe problemi con le tribù locali e così si dovette spostare a Iquitos, chilometri e chilometri più a sud; in seguito, il protagonista Jason Robards, dopo 5 settimane di girato, si ammalò gravemente e gli fu vietato il ritorno sul set. La sua spalla, Mick Jagger, a causa del prolungarsi delle riprese fu costretto a tornare nel vecchio continente per esigenze discografiche, così il suo ruolo fu cancellato. Al posto di Robards, come è noto, venne chiamato Klaus Kinski con cui il film venne ricominciato da capo.

Si comprende di come le riprese avvennero in un contesto di grande precarietà in cui Herzog si faceva letteralmente in quattro per riuscire a guidare gli indigeni e l’intero cast, soprattutto durante le scene di massa. Oltre agli ovvi problemi di comunicazione, anche se il buon Werner se la cava con lo spagnolo, Herzog dovette far fronte ad una discrepanza etnica fra la troupe occidentale e quella nativa. Fu deciso di separare i due accampamenti non per questioni “razziste”, ma semplicemente perché gli usi e costumi erano totalmente diversi. Come sottolinea il regista bavarese agli indios non sarebbe piaciuto il cibo occidentale e alla troupe quello locale. Inoltre, in seguito all’immobilità delle riprese, fra gli indigeni (e non solo, anche Kinski si lamentava) serpeggiava un certo scoramento condito da profusa noia. Per cercare di migliorare la situazione, Herzog, dopo il suggerimento di un prete missionario, ingaggiò una prostituta per evitare tensioni (cioè, una puttana nel backstage, non so se mi spiego, roba d'altri tempi). Come se non bastasse alcuni nativi vennero feriti quasi mortalmente da alcune frecce, uno di questi, per esempio, riportò una lunga ferita dal collo fino alla spalla.
Parecchio complicata fu la realizzazione della scena madre. Herzog inizialmente si avvalse di un ingegnere brasiliano che pronosticò una catastrofe se il regista non avesse cambiato idea. La catastrofe non ci fu, ma i cavi trainanti si spezzarono e la scena è proprio quella che si vede nel film. Successivamente l’ingegnere brasiliano fu sostituito da un team di professionisti peruviani e la barca fu finalmente portata sopra la montagna, ma nel frattempo la troupe, utilizzando un’altra nave girò la sequenza sulle “rapide della morte” dove il direttore della fotografia, Thomas Mauch, storico collaboratore del regista, si ferì gravemente ad una mano dopo che la barca urtò contro una parete rocciosa.

Va da sé che dopo la visione del film più epico di Herzog questo documentario acquista grande valore perché oltre a svelare il dietro le quinte dell'opera, accoglie le confessioni di un Herzog sconsolato dagli eventi: “Se credessi nel diavolo direi che il diavolo era qui ed è ancora qui”. Ma anche maledettamente tenace nel raggiungere il suo sogno.

lunedì 18 maggio 2009

The Fall

A fine visione è come se il mio cervello fosse stato lanciato su di un arcobaleno per poi cadere (!) in una latta colma di pittura multicolore, e qui venire shakerato ad oltranza per ritornare, infine, nella mia scatola cranica. Non so dire esattamente cosa sia successo, un po’ come un giro sulle montagne russe, si viene sballottati, capovolti, rovesciati, si perde il senso della realtà e il vuoto sembra impadronirsi del nostro stomaco. Finito il giro ti senti strano, ricordi soltanto i colori sfumati dalla velocità, e una tremenda, ma in qualche modo rassicurante, paura di cadere (!!).
The Fall è il secondo lungometraggio di Tarsem Singh. Sei anni dopo l’incompiuto The Cell (2000), il regista indiano si prende carico, oltre che di firmare la regia, di scrivere anche la sceneggiatura. Il prodotto finale è un film pazzesco.
Nella mia (breve, finora) carriera cinefila, mi era capitato solo una volta di trovarmi così inerme di fronte alla potenza delle immagini facendo sì che la mia bocca prendesse la forma della tredicesima lettera dell’alfabeto (nonché un’espressione da perfetto idiota), sto parlando di Jodorowsky, ma erano altri tempi, e un altro cinema.
Tarsem (ora si firma soltanto così) crea una vera e propria galleria d’arte su pellicola.
La bellezza delle riprese non ha eguali: deserti incandescenti e cieli blu lucente, un’isola bianca circondata da un mare che sembra di cristallo, labirinti di scale percorsi da fantasmi neri, addirittura un elefante che nuota nel mare. Un orgasmo per gli occhi.
E poi i 5 personaggi, silenziosi ma caratterizzati dagli splendidi abiti che indossano. Stoffe che esplodono di colore lasciando estasiati. Ma oltre alla parte del film fiabesca, vorrei sottolineare di come anche l’ospedale sia affrescato egregiamente: toni scuri alternati a tinte pastellose, calde, avvolgenti.
In questo scenario di incanto estetico c’è anche una storia.
Una storia poco innovativa se si pensa a quante volte è stato usato un algoritmo simile: X racconta una storia->Y la immagina->lo spettatore la vede, mi viene in mente, giusto per fare un esempio recente, Il curioso caso di Benjamin Button (2008) di Fincher che guarda caso è anche produttore insieme a Spike Jonze – e a proposito di Jonze, tenete d’occhio il suo ultimo lavoro che arriverà da noi il prossimo anno, Nel paese delle creature selvagge. Ma The Fall ha il pregio di essere una grande matrioska che contiene al suo interno altri racconti, in un allettante gioco di scatole cinesi. E la meraviglia sta nella delicatezza della narrazione che segue due binari paralleli: all’inizio ha i contorni della favola, ed anche la storia corrispondente ha il sapore della leggenda, ma quando Alexandria cade nuovamente, e si assiste al commovente dialogo con Roy preceduto dalla strepitosa sequenza in stop motion, anche il racconto parallelo perde quel magico disincanto, mantenendo intatta, però, l’affascinante fotografia.
Come sottolineato da Elvezio Sciallis (link), The Fall è un incontro di culture, un melting-pot di colori, idee geniali, di persone e luoghi sparsi per tutto il mondo.
Paradossalmente un film così importante, che credo (e spero) col passare del tempo assurgerà a capolavoro, in Italia non lo vedremo mai se non per vie traverse. Il dvd è acquistabile presso gli store on-line ovviamente in inglese. Il massimo sarebbe vederlo al cinema, ma anche un bel LCD da 50-60 pollici non sarebbe proprio da buttare.

Qui ci sono i titoli iniziali in alta definizione. Da paura.
Mentre qui una galleria di immagini.

domenica 17 maggio 2009

Viggo e Charlize sulla strada

The Road, di John Hillcoat, tratto dall'omonino romanzo post-apocalittico di Cormac McCarthy, quello di Non è un paese per vecchi. Uscita prevista per il 16 Ottobre nelle sale americane.

L'hype è moderato, ma 'ste ambientazioni mi affascinano sempre.

venerdì 15 maggio 2009

Birdcage Inn

“La porta blu” è la traduzione di italiana di Paran daemun, terzo film di Kim Ki-duk datato 1998, distribuito internazionalmente col titolo Birdcage Inn.

Marionette si muovono cercando alibi per le proprie vite.
In un mini bordello travestito da mini motel, si consumano le esistenze di 5 persone: la madre che tenta di racimolare qualche soldo con la prostituzione, il padre burbero che incrementa di nascosto gli affari della moglie, il figlio minore con le sue turbe adolescenziali, e le due ragazze, le vere protagoniste: Hye-Mi, figlia dei proprietari dell’albergo, in conflitto con se stessa e con la famiglia, e Jin-Ah, prostituta per scelta, non sua, ovviamente.

Giunto praticamente alla fine di questo lungo percorso kimmiano mi accorgo di come ogni sua opera sia legata a qualcun’altra come gli anelli di una catena. Volgendo lo sguardo al passato si rivede la tartarughina del suo primo film, volgendolo al futuro si scorge la prostituzione di Bad Guy (2001) o de La samaritana (2004). Ma forse stare qui a scrivere dei rimandi a quello o quell’altro film ha poco senso, si finirebbe a rimestare la stessa acqua come un pesce rosso in un acquario.

Ciò che più mi ha colpito di Birdcage Inn è l'ottima costruzione del rapporto fra Hye-Mi e Jin-Ah. C’è poco da girarci intorno, tutto il film si basa su questo legame di amore/odio, e quando il fulcro di tutto è rappresentato da solo due persone, il difficile è integrare il contorno con il resto della storia. Kim ci riesce grazie ad una sceneggiatura molto curata scritta insieme a Suh Jong-Min, dove i vari ingredienti sono dosati il giusto con qualche elemento fortemente stereotipato (vedere il protettore di Jin-Ah, nonché fratello se ho capito bene, che presenta tutte le connotazioni possibili di un magnaccio), che però riescono a reggere nel complesso. Ma questa è una costante nella filmografia di Kim Ki-duk, anche la scena più improbabile, mi viene in mente quella nella prigione in Ferro 3 (2004), fila via che è un piacere. In Birdcage Inn, tutti, ma proprio tutti (anche il fratello), i personaggi maschili fanno sesso con Jin-Ah, questa potrebbe apparire un po’ come una forzatura per lo sviluppo della storia, ovvero allargo ancora di più la forbice tra le due ragazze rendendo sempre più disinibita una ed insicura e pudica l’altra, però funziona, e non chiedetemi come è possibile perché non ne ho idea. Succede e basta.
Succede anche che in questo teatrino kitanesco Kim regala almeno due scene memorabili. La prima è quella dell’inseguimento che ri-allaccia il legame tra le due ragazze, e il tutto avviene senza una parola. Basta il riflesso di uno specchio. La seconda è la nevicata finale, un evento naturale impossibile visto il clima estivo, che non solo avvicina per sempre Hye-Mi e Jin-Ah, ma le identifica l’una nell’altra con quella palla di neve che rotolando cambia restando sempre la stessa.

Non indimenticabile, ma rispetto ai due film precedenti, Crocodile (1996) e Wild Animals (1997), questo è più completo, più maturo.

mercoledì 13 maggio 2009

Echi da un regno oscuro

L’ultima decade del ventesimo secolo si apre per Herzog con un documentario incentrato su Jean-Bedél Bokassa, dittatore della Repubblica Centro Africana dal ’66, e imperatore (autoincoronatosi) dell’Impero Centro Africano dal ’76 fino al ’79.
Nel film si alternano interviste a persone che direttamente o indirettamente hanno avuto a che fare con il despota nato a Bobangi, ad immagini di repertorio come la sontuosa cerimonia d’incoronazione avvenuta il 4 Dicembre del 1977 che costò più di 20 milioni di dollari prosciugando i fondi del paese.
Le interviste sono condotte da Michael Goldsmith, corrispondente dell’Associeted Press, che fu arrestato da Bokassa nel ’77 perché incolpato di essere una spia. Fu trovato un suo fax con sopra dei caratteri ambigui, così senza se né ma venne imprigionato. In realtà il telefax da lui usato era semplicemente difettoso. Probabilmente il soggiorno nelle prigioni bokassiane non fu un soggiorno, diciamo, di piacere, così, segnato nell’anima, il giornalista ha messo in piedi un’inchiesta che Herzog riprende in maniera asciutta, come un testimone silenzioso.
Dialogano con Goldsmith: una delle tante mogli del tiranno, alcuni dei suoi figli (ne ebbe 54), due avvocati (spesso appaiono frammenti del vero processo a Bokassa, che per la cronaca fu condannato all’ergastolo nell’88, per poi vedersi la pena ridotta a 20 anni poco dopo, e infine ricevere l’amnistia nel ’93), e David Dacko, ex presidente Repubblica Centro Africana.
Dalle testimonianze Bokassa non ne esce tanto bene: violento, egocentrico (si immaginava come il nuovo Napoleone), seviziatore, e come affermano TUTTI gli intervistati, anche un cannibale. Mangiava carne umana che teneva nella cella frigorifera della sua fortezza, o in alternativa donava generosamente corpi umani ai suoi alligatori, corpi umani vivi, ovviamente.

Parecchio interessante perché come avverte il titolo questo è un paese oscuro di cui non si sa niente e che a scuola non viene preso in considerazione. Da ricordare tra l’altro i segmenti onirici che aprono e chiudono il film, una spiaggia ricoperta da un esercito di granchi rossi (ritornerà in Invincibile, 2001), e una scimmia che fuma il cui sguardo ti scava dentro.
Edito in DVD dalla Ripley, nei circuiti p2p è rinvenibile una versione rippata da Fuori orario in cui c’è l’introduzione di Ghezzi che presenta il film guidando l’auto.

lunedì 11 maggio 2009

Kinski Paganini

Prima regia di Kinski, ed ultima interpretazione come attore in quanto morirà due anni dopo.
A dire il vero “la belva di Danzica” aveva messo lo zampino anche nella regia di Nosferatu a Venezia (1988), horror che avrebbe voluto ricalcare il Nosferatu di Herzog, ma parecchie incomprensioni fra Augusto Carminito, il produttore, e un paio di registi chiamati durante la realizzazione, contribuirono ad un misero fallimento. Così, Carminito, memore del flop, l’anno successivo affida tutto l’ambaradan a Kinski che firma regia e sceneggiatura a modo suo. Non solo, giusto per non farsi mancare niente antepone il suo nome a quello del violinista genovese, e arruola nel cast Deborah Kinski (alias Debora Caprioglio, al tempo moglie di Klaus), e il piccolo Nikolai Kinski figlio della terza moglie Minhoi Genevieve Loanic.
Un parola che potrebbe riassumere il tutto è caotico. Caotica è la regia con i continui stacchi sbriciolatori, caotica è la sceneggiatura senza un filo conduttore, caotico è Kinski che suona il violino in preda a crisi epilettiche, striscia inspiegabilmente sui muri e, ancor più inspiegabilmente, visto il suo aspetto non proprio da Adone, striscia sotto le gonne di giovani donzelle che sembrano apprezzare di brutto. Non appagato di questa megalomania su grande schermo decide anche di doppiarsi in italiano. Terribile, fortunatamente parla poco.
Infatti i dialoghi sono praticamente inesistenti e lasciano spazio alle musiche di Salvatore Accardo che forse restano la cosa migliore del film, il resto è un guazzabuglio audio-visivo senza capo né coda infarcito di scenette pseudo (ma molto pseudo) erotiche che riescono ad eccitare soltanto un cavallo.
Overture finale con Paganini che sputa sangue sul violino (in effetti morì per una laringite tubercolare) e il figlioletto che si dimena come un pazzo durante la sepoltura.
È un film biografico, ma non so esattamente se tratti della vita di Niccolò Paganini, o della vita di Klaus kinski.

Ecco cosa scrive Herzog ne La conquista dell’inutile (Mondadori, 2004) in riferimento a questo film:

Kinski mi ha dato il suo copione, un tomo di seicento pagine; vorrebbe che io facessi la regia del film. È bastata una prima occhiata al libro per capire che il progetto di Kinski è assolutamente insanabile. Su seicento pagine, ogni mezza si scopa e si suona il violino, si suona il violino e si scopa di nuovo, il tutto pervaso da quell’unica ossessione egocentrica di Kinski. Che se lo faccia da solo.

Herzog aveva capito tutto leggendo soltanto la sceneggiatura.

venerdì 8 maggio 2009

The Coast Guard

Scorrendo sul filo (spinato?) che si srotola lungo la prolifica carriera di Kim Ki-duk, The coast guard può essere inteso come la prosecuzione naturale del meraviglioso Address Unknown (2001): stessa rabbia incrementata da una disperazione folle. Come osservando in controluce il negativo di un rullino, ecco che dopo l’urlo disperato, ma, ahimè, muto, l’uomo distrutto percorre un sentiero di fucili e nuvole basse, senza più un filo di voce, ma con lo sguardo perso.

La trama è presto detta: in uno spicchio di costa fra le due coree una base militare sorveglia notte e giorno il confine per cacciare delle fantomatiche spie. Una notte il soldato Kang avvista dei movimenti sulla spiaggia, senza pensarci troppo compie il suo dovere: imbraccia il fucile e trivella di colpi un uomo per poi smembrarlo del tutto con una granata. Ma l’uomo ucciso non era una spia, bensì un semplice ragazzo che si era appartato fra gli scogli con la sua fidanzata. La ragazza devastata psichicamente dalla sua morte impazzisce, e insieme a lei anche il carnefice, Kang, che crolla in un limbo di follia divenendo un pericolo per il resto dei militari da cui era stato allontanato per i suoi squilibri.

Questo è l’ultimo film del “primo” Kim Ki-duk (suddivisione di cui mi prendo ogni responsabilità). Con il successivo Primavera… (2003) abbandonerà gli aspetti più crudi dei suoi esordi che avevano dato vita a opere dalle tinte forti, per acquisire un’angolazione lirica, onirica, estetica. Ma anche in queste opere più sfumate sono rintracciabili schegge di crudeltà assoluta (la mazza da golf di Ferro 3 (2004), o il suicidio della ragazza ne La samaritana, 2004), e così come in quelle precedenti a The coast guard è possibile scorgere frammenti di poesia illuminante (la scena conclusiva di Crocodile, 1996, o la nevicata di Birdcage Inn, 1998). Kim ha portato avanti un discorso cinematografico senza mai snaturarsi, sperimentando anche (Real Fiction, 2000), ma non perdendo mai di vista i topoi che hanno caratterizzato da sempre i suoi lavori.

L’acqua è un elemento sempre presente, un marchio di fabbrica inconfondibile. Ma se ne L'isola (2000) aveva la capacità di far “rinascere” i protagonisti che galleggiavano in una specie di liquido amniotico, qui l’acqua non arriva che alle caviglie dei soldati o alle ginocchia della fidanzata impazzita. Pozzanghere poco profonde che non riescono a placare la follia, o a tranciare di netto il passato come in Bad Guy (2001) dove la prostituta vede il fantasma della brava ragazza che era svanita nel mare. In The Coast Guard l’acqua riesce soltanto ad accogliere il sangue di un aborto, ingabbiando la madre mancata in una vasca piena di pesci destinati a finire su una padella. Forse la donna e quei pesci hanno un destino in comune.
Ritorna la follia (altro segno ricorrente) che diviene rabbia cieca e forse neanche troppo immotivata. Come sottolinea uno dei militari, il soldato Kang, primo soldato del battaglione, è stato alienato dalla vita nella base fatta di giorni e notti tutti uguali. L’omicidio del ragazzo ha spezzato la routine e sbriciolato la vita del soldato. Vita che, senza un uniforme addosso, non avrebbe avuto più senso. Notevole l'idea di sfumare il viso del soldato durante i suoi attacchi, incarna alla perfezione la paura dei militari verso un nemico che non ha un volto preciso.

Il film ha però alcune imprecisioni. In tutti i lavori del “primo” Kim c’è un certo compiacimento nell’immortalare reiterate volte scene di pestaggi con pugni e calci che si ripetono più e più volte appesantendo la visione, difetto principe, questo, di Wild Animals (1996). Oltre ad insistere su schiaffi e spintoni, a rendere più stucchevole la narrazione vi sono i continui tentativi di penetrare nella base da parte del militare impazzito. Un palese vuoto nella sceneggiatura.
Finale amarissimo.

mercoledì 6 maggio 2009

Genova

Joe (Colin Firth), professore universitario di Chicago, perde la moglie in un incidente stradale al quale sopravvivono miracolosamente le due figlie Kelly (Willa Holland) e Mary (Perla Haney-Jardine). Distrutta la famiglia, il padre cerca di ricomporre i cocci dell’anima portando le sue due ragazze a Genova per una vacanza estiva. Nel capoluogo ligure la piccola Mary ha delle fugaci visioni della madre morta, mentre il legame famigliare sembra sfilacciarsi sempre più.

Fabrizio De André diceva che Genova è la città dei rimpianti, quando ci sei la odi, ma quando vai via ti manca. Paolo Conte ha impresso nelle note il timore di un foresto che si reca nella Superba: “che ben sicuri mai non siamo/che quel posto dove andiamo/non c’inghiotte e non torniamo più.” Guccini, forse meglio di qualunque altro esponente del cantautorato genovese, ha reso la città in poche (e splendide) parole: “schiacciata sul mare, sembra cercare respiro al largo, verso l'orizzonte. […] c'è traffico, mare e accento danzante e vicoli da camminare.”

Winterbottom, durante la prima (e unica, non avendo il film a tutt’oggi una distribuzione) italiana, proiettata nelle sale del Cineplex genovese, ha sottolineato di come questa storia avrebbe potuto essere ambientata in qualunque altra città. Ma il labirinto di stradine del centro storico ha un’atmosfera particolare: un sottile senso di mistero affascinante, e al contempo sconcertante. È la trasposizione fisica della confusione mentale dei personaggi.
E in effetti il regista inglese ha ragione. Forse però sbaglia a dire che potrebbe essere ambientato in qualunque altra città, magari in qualunque altra città di mare, sì.

Per quanto mi riguarda il giudizio non può che essere sbilanciato per ragioni di cuore o zone limitrofe, e per questo devo fare un plauso a Winterbottom che presosi l’onere di intitolare la sua opera col nome della città, non la relega ai margini, ma con uno stile quasi documentaristico la rende parte integrante della storia dandole un ruolo terapeutico per la famiglia in crisi.
All’inizio, con le battute da guida della Michelin, temevo in una sequela di banalità del tipo: “Colombo era genovese e w la pasta al pesto.” Invece nel prosieguo viene abbandonata questa intenzione didattico-folcloristica, riprendendo Genova senza filtri, nella sua bellezza amara, angusta, ombrosa, ma a volte così solare: la sopraelevata, palazzo San Giorgio, via Garibaldi, e poi giù, nei vicoli, nel cuore della città. Padre e figlie, inglesi trapiantati nella fredda Chicago, si ritrovano nel dedalo inestricabile di vie e viuzze, tra puttane accaldate su sedie di vimini e odore di piscio che s’infila su per le narici. Le ectoplasmiche apparizioni della madre fungono da filo d’Arianna che guida le tre anime disperse a ritrovarsi. Ne vale la scena finale in cui il fantasma della mamma svanisce nell’esatto punto in cui Joe, Kelly e Mary si uniranno nell’abbraccio conclusivo.
L’aspetto soprannaturale non interessa a Winterbottom che si concentra più sul lato umano, interiore, psicologico. I turbamenti adolescenziali di Kelly, l’insicurezza di Joe diviso tra l’amore di una sua allieva e l’attrazione verso una vecchia amica e la disperazione della piccola Mary che urla il nome della sua mamma di notte, sono le “malattie” che affliggono i tre protagonisti, Genova sarà la loro “cura”.
Beh, l’ho detto. Non posso che sbilanciarmi verso un giudizio positivo perché è la città dove sono nato. Escludendo Giorni e nuvole (2007) non l’avevo mai vista sul grande schermo, e devo ammettere che fa un certo effetto rivedere le strade che tante volte ho percorso. Non so se sia realmente un luogo speciale perché la mia considerazione è per forza di cose faziosa, ma l’opinione di quei tre signori citati all'inizio, e quella di Winterbottom, mi fanno propendere per un obiettivo sì.

lunedì 4 maggio 2009

Segni di vita + 5 cortometraggi

Lodevole iniziativa della Raro Video che nel 2005 ha distribuito questo cofanetto contenente il primo lungometraggio di Herzog, Segni di vita (1968), e 5 rarissimi cortometraggi, in ordine cronologico: Ercole (1962), La difesa esemplare della fortezza di Deutschkreutz (1966), Ultime parole (1967), Provvedimenti contro i fanatici (1969), Nessuno vuole giocare con me (1976).

SEGNI DI VITA (Lebenszeichen)

Grecia, un periodo imprecisato della seconda guerra mondiale.
Il soldato tedesco Stroszek (un nome che ritornerà nell’omonima ballata di qualche anno dopo) viene ferito quasi mortalmente. Per agevolare il suo periodo di riabilitazione gli viene affidato un compito semplice semplice: custodire un deposito di munizioni situato all’interno di un vecchio forte sull’isola di Kos insieme alla sua moglie greca Nora, ed ai soldati: Meinhard (interpretato da Wolfang Reichmann che avrà un ruolo simile in Woyzeck, 1979) e Becker. Le giornate sotto il sole cocente passano nella noia più totale, Meinhard caccia insetti e tenta di ipnotizzare una gallina, Becker cerca di tradurre antichi scritti ritrovati nel forte. Così Stroszek chiede al suo superiore di ricevere un incarico più impegnativo, viene perciò mandato insieme a Meinhard in un giro di pattuglia nella parte meridionale dell’isola. Qui, oltrepassata una collina, i due si trovano di fronte ad una distesa di mulini a vento. Stroszek, che già aveva dato segni di un certo squilibrio mentale, di fronte a questa visione impazzisce del tutto, prende possesso del forte e minaccia di far saltare in aria il deposito di munizioni, ma, come sottolinea la voce narrante, fallisce miseramente, come tutti i suoi simili.

Il film riprende in parte il cortometraggio La difesa esemplare della fortezza di Deutschkreutz, ma qui sul bilancio complessivo pesa la meravigliosa location greca. Se nel corto, anch’esso in b/n, l’atmosfera è piuttosto fredda, qua le colline brulle, le strade polverose, il frinire dei grilli, le rare ombre a ridosso delle casette bianche, trasmettono una rassicurante sensazione di calore, di pace ultraterrena.
La scelta di affidare ad una voce fuori campo (che credo sia quella di Herzog) il ruolo di narratore, appare fuori moda nel nostro tempo, eppure è molto efficace perché risparmia sequenze inutili, esempio: la voce dice che Stroszek nella sua follia riesce ad uccidere solo un somaro, non vediamo il momento in cui accade ciò, ma, poco dopo, appare l’animale accasciato a terra.
Stroszek è solo il primo di una lunga serie di eroi herzoghiani folli (e perdenti) che arriverà fino a Timothy Treadwell in Grizzly Man (2005). In questo caso l’elemento scatenante è la visione dei mulini a vento che rompe la monotonia della vita normale e fa riemergere in maniera definitiva uno squilibrio latente. L’episodio è in parte biografico perché nel documentario Il mondo contemplativo di Werner Herzog (1989), il regista racconta che anche lui si trovò di fronte ad una distesa di mulini e ne rimase folgorato.
Eccellenti alcune inquadrature ariose che esaltano il paesaggio. Stupendo il campo lungo in cui Stroszek insegue col fucile sua moglie e i due soldati; ma come non citare la spiaggia infinita dove pesca Meinhard, o i fuochi d’artificio sparati dall’ormai folle soldato che graffiano la notte. E poi gli incontri surreali con il pianista (futuro membro dei Popol Vuh, gruppo che compose le musiche di molti suoi film successivi), e la famiglia dispersa nelle terre aride. Il tutto accompagnato dalle malinconiche corde di una chitarra.
Fantastico, lunga vita a quest’uomo.

ERCOLE (Herakles)

In assoluto il primo lavoro di Herzog.
Trattasi di una rivisitazione delle dodici fatiche di Ercole (ne vengono prese in considerazione soltanto sei) condensate in 9 minuti scarse di proiezione. Il corto è strutturato così: una musica jazz fa da sottofondo all’allenamento di un culturista che pompa bicipiti e pettorali in palestra.Ogni tanto appare una scritta, che corrisponde ad una delle fatiche, accompagnata da immagini diverse. Esempio: ripulirà le stalle di Augia? E subito appare una discarica a cielo aperto. Oppure: ucciderà l’idra di Lerna? Ed ecco una fila di automobili.
Curioso (per quanto possa esserlo un filmato così breve) perché non tratta temi particolarmente cari al regista, ma all’epoca Herzog aveva solo vent’anni, e probabilmente neanche lui si sarebbe immaginato che carriera avesse davanti.

LA DIFESA ESEMPLARE DELLA FORTEZZA DI DEUTSCHKREUTZ (Die beispiellose verteidigung der festung Deutschkreuz)

Quattro uomini entrano in un forte abbandonato e si appropriano di alcune armi e divise militari lasciate probabilmente dai russi durante la guerra. Iniziano così una strenua difesa da un nemico che non c’è. Convinti di un tentennamento dell’avversario escono in avanscoperta in quanto come afferma la voce fuori campo: “Le guerre sono più necessarie che mai, perfino una sconfitta è meglio di niente”.
Forse il corto più complesso del lotto, vuoi per la mancanza di coordinate (non sappiamo dove e quando si svolge precisamente la vicenda), vuoi per l’assenza di riferimenti ai quattro ragazzi di cui non si sa assolutamente nulla. L’idea della voce narrante verrà ripresa in Segni di vita, anche se qui a parlare è uno dei 4 soldati e non un esterno. E come in Lebenszeichen, si nota una certa satira di Herzog nei confronti della casta militare, in entrambi i lavori i soldati devono difendere/custodire un luogo che nessuno attaccherà, in Segni di vita perché è circondato da una piccola isola semideserta, e qui perché intorno ci sono solo contadini.

ULTIME PAROLE (Letzte worte)

Girato a Creta e sull’isola di Spinalonga durante la lavorazione di Segni di vita, questo corto pseudo documentaristico racconta la storia di un vecchio suonatore di cetra che per anni aveva vissuto sulla piccola isola una volta usata come lebbrosario. Ritrovato da due poliziotti viene portato a forza nel paese dove continua a suonare il suo strumento, e a ripetere un ossimoro: “Non dirò niente di niente, non voglio dire nemmeno no, è la mia ultima parola.”
Ciò che risalta è la scelta di Herzog di far pronunciare più volte agli intervistati una stessa frase, compiendo un’astrazione della realtà “falsificandola”, o forse, è meglio dire, intensificandola.
Oltre al citato Segni di vita c’è un richiamo delle ambientazioni di Anche i nani hanno cominciato da piccoli (1970).

PROVVEDIMENTI CONTRO I FANATICI (Maßnahmen gegen fanatiker)

Una sorta di finto documentario dove vengono intervistate varie persone in un ippodromo. Gli argomenti di discussione ruotano intorno ai modi in cui queste persone proteggono i cavalli dai fanatici, impersonati da un vecchio bavarese che interrompe spesso i loro monologhi alla camera. Le figure che accudiscono i cavalli sono, forse, la personificazione di un movimento pacifista, mentre il vecchio rappresenta il lato conservativo di una nazione.

NESSUNO VUOLE GIOCARE CON ME (Mit mir will keiner spielen)

Un bambino viene escluso dai suoi compagni di scuola che lo additano come un puzzone, uno scemo e via dicendo. Martin, questo è il suo nome, se ne sta rintanato in disparte e guarda gli altri bambini giocare. Solo una sua compagna, dopo essere stata a casa sua e aver fatto conoscenza con il suo corvo, diviene sua amica e scopre di come Martin sia così chiuso a causa di una famiglia difficile, con la madre malata di cancro che immobilizzata a letto non riesce neanche a cucinare, costringendo Martin a nutrirsi di pop-corn. Una volta tornati a scuola, la compagna fa una piccola colletta insieme agli bambini per comperare due porcellini d’india che vengono donati a Martin, il quale, per la prima volta viene accettato dal resto del gruppo.
Interessante la figura del bambino che sembra un po’ la miniatura dei personaggi interpretati da Kinski e da Bruno S. in conflitto con la società, e stabilmente ai confini di essa.
Camera a mano con movimenti un po’ incerti.

venerdì 1 maggio 2009

Real Fiction

Realtà:
Un giovane ritrattista di strada viene disprezzato dai passanti e vessato da un gruppo di malviventi. Un giorno appare una ragazza che lo riprende da vicino con una telecamera. Si mette in posa per un ritratto ma non avendo i soldi per pagare offre in cambio al giovane qualcosa di molto prezioso. La segue così in un teatro dove va in scena uno spettacolo dal nome emblematico: Altro me. Sul palco un uomo misterioso sembra conoscere molto sul passato del ragazzo, sul suo presente e sul suo futuro. Il giovane artista esce dal teatro e inizia una vendetta silenziosa. Infilza con la punta di una matita una cliente che gli aveva stracciato il ritratto, becca la sua fidanzata fioraia con un altro e la uccide ricoprendola di fiori, chiude la testa di un suo vecchio amico che gli aveva fregato la ragazza in un sacchetto contenente un serpente, fracassa a colpi d’estintore un poliziotto che tempo prima l’aveva torturato, rinchiude nella cella frigorifera il militare, ora macellaio, che gli aveva provocato la ferita sul collo, ammazza a pistolettate i tre aguzzini che lo tormentavano in strada.

Finzione:
La donna con la telecamera lo ha seguito come un’ombra nella sua rivalsa. Ma stufo di essere continuamente ripreso la strangola per poi rifugiarsi nell’atelier di una pittrice dove si addormenta in un angolo.
Uno stacco ed ecco che il giovane ritrattista ritorna in strada a fare il suo lavoro. Appaiono nuovamente i tre delinquenti che molestano un venditore di bambole, quest’ultimo reagisce e accoltella uno di essi. Scatta un parapiglia, poi c’è una dissolvenza. Ritorna la stessa scena, una voce fuori campo urla “stop”. Il set si popola velocemente di persone. Fine.

Realtà e finzione, oppure era il contrario?
Il Kim Ki-duk più sperimentale compie un autoriflessione sul mondo del cinema creando una “fiction” che riflette su se stessa senza smettere di essere “fiction” (discorso, questo, toccato in qualche modo anche da molti registi illustri, vedi INLAND EMPIRE, 2006 e Storie, 2000). E come Lynch, Kim utilizza il digitale legittimando la dimensione di realtà, ma rendendo più scadente la fotografia che risulta ai minimi storici nella carriera del regista a pari (im)merito con Wild Animals (1997).
Real Fiction (film al quale, tra l’altro, Kim tiene molto) è stato girato in 200 minuti con un sacco di videocamere e cineprese che immortalano da vicino il protagonista nel suo percorso di vendetta, protagonista che appare come una figura embrionale di Bad Guy (2001): stessa rabbia, stesso sguardo chino, stessa cicatrice.
Un po’ maldestro l’incontro, dal lynchiano sapore, con la propria coscienza nel teatro, però abbastanza innovativo come punto d’inizio per il dipanarsi della vicenda.
Credo che ogni volta in cui si presenta una situazione di “film nel film” i primi a perderci sono gli spettatori perché un discorso del genere lo sento più appannaggio del regista o di chi comunque utilizza i ferri del mestiere. Resta comunque della “roba” fuori dagli schemi che possiede un certo tipo di fascino.

Un po’ al pari di Vero come la finzione (2006), l’autore si chiede cosa accadrebbe se il personaggio da lui plasmato prendesse vita propria, Kim sembra avere le idee chiare: il regista verrebbe ucciso dalla sua creatura.
Non male, più interessante come racconta, che il cosa.