venerdì 10 aprile 2009

Time

Guarda caso Roberto Recchioni, autore di fumetti come Dylan Dog e John Doe, ha scritto poco tempo fa un pezzo molto interessante sul suo blog (LINK).
L' intervento riguarda il mondo dei videogiochi, ma in qualche modo tocca anche il cinema. Riporto uno stralcio:

La sospensione dell’incredulità è un meccanismo semiotico che consiste nella volontà da parte di chi fruisce una storia, di sospendere le sue facoltà critiche allo scopo di godere di una vicenda di fantasia, ignorando le incongruenze secondarie che questa potrebbe avere rispetto al mondo reale.

E poi ancora:

Chiariamo un punto però: la sospensione dell’incredulità non è una bacchetta magica che rende accettabile qualsiasi stupidaggine salti in menta ma, piuttosto, si tratta di un patto che si instaura tra chi la storia la racconta e chi la fruisce. Una volta che il narratore avrà illustrato le regole del suo universo narrativo al suo pubblico, spetterà al pubblico decidere se sono accettabili o meno.

In Time (2006) questo patto non si crea.
Eppure la storia è più verosimile di Ferro 3 (2004): Lui e LEI sono fidanzati da due anni. LEI, gelosa e follemente innamorata del suo lui, decide di sottoporsi ad un intervento di chirurgia per cambiare il viso che secondo la ragazza non era più abbastanza interessante per il fidanzato. Così LEI sparisce all’improvviso per poi ritornare mesi dopo con un altro volto-un’altra lei, dunque-che però, dentro, è sempre LEI. Seduce lui che per mesi l’ha aspettata, ma non gli dice niente, quando decide finalmente di rivelarsi con un biglietto, lui vuole tornare da LEI (che è sempre lei, ma non è più LEI). Ma il suo viso non si può staccare come una maschera, e allora anche lui decide di cambiare faccia.
Questa volta le regole di Kim Ki-duk non si possono accettare.
La monotonia che scaturisce dopo una lunga relazione è materiale fertile per un’attenta disamina. E lo spunto iniziale, ovvero il cambiamento di forma per essere accettati, è anche interessante perché mette in luce la superficialità della nostra società.
Ma quel patto di cui si diceva prima non può sussistere. Privo di ogni lirismo per cui anche in un singolo fotogramma si addensavano significati geniali, la debolezza di Time sta in una narrazione ambiziosa ma velleitaria che a lungo andare si ripete in situazioni identiche, popolando la scena di macchiette che restano appiccicate allo sfondo. Il punto più basso è quando la ragazza parla dritta in camera dicendo che le cose non sono andate come si aspettava. C’era bisogno che lo dicesse? Assolutamente no. Una confessione fuori luogo che testimonia l’involuzione del regista (iniziata, forse, con La samaritana, 2004) il quale nelle sue opere passate è stato un maestro proprio nello spiegare… senza mostrare. Invece qui ci viene sbattuta in faccia la spiegazione. Pessima pessima idea.
Ma la cosa che mi ha fatto davvero incazzare è il fatto che bisogna credere ad un uomo che non riconosce la donna con cui è stato per ben due anni solo perché ha cambiato faccia. Posso capire i tratti somatici, e forse anche il timbro vocale, ma cristo santo gli occhi, lo sguardo, la pelle, l’odore! Quelli restano per sempre. Provate a chiedere ad una persona se non riconosce anche soltanto da un centimetro quadrato di pelle l’uomo o la donna, con cui ha condiviso una parte della sua vita, piccola o grande che sia.
Anche il finale circolare puzza di stantio, soprattutto perché immotivato in un film in cui il tempo è considerato in continua progressione.

Secondo me il miglior Kim Ki-duk resta quello che usa poco le parole.

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