venerdì 24 aprile 2009

Cobra Verde

Un film di ombre.

Ultima opera della premiata ditta Herzog-Kinski datata 1987. La collaborazione tra il regista bavarese e l’istrionico attore ha partorito 5 film (Aguirre, Nosferatu, Fitzcarraldo, Woyzeck, Cobra Verde), i cui titoli si rifanno in tutti e 5 i casi al protagonista principale: Klaus Kinski. Una centralità messa in risalto fin da subito che contribuisce a scolpire 5 personalità di 5 differenti personaggi che hanno però in comune lo stesso bagliore di follia negli occhi. A volte egocentrica come quella di Aguirre, altre volte malinconica come il vampiro Nosferatu, ma anche lucida e utopica in Fitzcarraldo, per finire con quella nevrotica di Woyzeck. Tutti personaggi solidi, veri, indimenticabili per chi li ha visti.
Forse il bandito Francisco Manoel Garcia Da Silva, detto Cobra Verde, esce sconfitto nel paragone con i suoi “fratelli” kinskiani. Non che l’attore si risparmi, o che sia sottotono, niente di tutto ciò. Ma questa volta lo sguardo impertinente di Herzog non riesce a destrutturare la fisionomia di Kinski/Cobra verde, che di tutti i personaggi citati prima è il più oscuro, contorto, amorale (anche più di Aguirre), “solitario tra i solitari” come annuncia un’improbabile violinista. E finisce per essere il meno emp(simp)atico.
È la ballata di un personaggio difficile che si muove in un film altrettanto difficile dove il tempo e lo spazio perdono di valore. Si apre in una miniera a cielo aperto, prosegue in una piantagione brasiliana e si conclude sulle rive di una spiaggia africana. Forse è il contrario, forse no. Non importa, l’occhio di Herzog rivela eserciti di schiavi neri che danzano all’unisono in un ballo violento, ipnotico, addestrati da Cobra Verde per una battaglia già persa. L’oceano di schiavi che calca la scena non serve però al negriero per avvertire un po’ di calore, il suo cuore è di ghiaccio in una terra infuocata. Non basteranno neanche 61 figli avuti con le sue servitrici a colmare la solitudine che lo attanaglia, e non basterà nemmeno l’illusorio potere datogli dal nipote del re per ritrovare l’uomo che è, che era, o che non è mai stato. Emblematica la scena iniziale in cui Cobra Verde discende una miniera a cielo aperto ricoperto di putrido fango che maschera i suoi lineamenti trasformandolo in un essere amorfo e oscuro, un’ombra. Un presagio di morte che sfiora soltanto con la decapitazione in cui il re gli dipinge di nero il volto, e che invece lo abbraccia per sempre nel finale.

Un finale grandioso.
Sulla battigia l’ex bandito si appresta a spingere una barca in mare per fuggire, forse, in quel regno di neve che uno storpio (triste profeta) gli aveva raccontato, mentre sullo sfondo un nero deforme si avvicina. Cobra Verde si dimena nel tentativo di spostare il barcone, ma la chiatta resta ancorata all’arenile. Nello sforzo disumano si lascia cadere nel ventre del mare che lo cinge con le sue onde fino a farlo sparire, intanto la creatura mefistofelica lo osserva svanire nell’acqua. Un essere tenebroso, amorfo, solitario. Un’ombra. È l’anima del negriero che si vede morire, un’anima senza cuore.
La ballata (l’ennesima di Herzog) finisce nella parole di alcune schiave, non sappiamo cosa dicono ma sembrano felici. Le parole che le precedono sono rivelatrici: "Un giorno gli schiavi venderanno i loro padroni e voleranno via, liberi".
Cobra Verde era schiavo di un male invisibile e la morte lo ha liberato, gli schiavi erano i servitori di Cobra Verde, e ora sono liberi.

Non lo consiglierei spassionatamente, ma potrebbe essere un’esperienza per chi vuole conoscere il cinema “che sta sotto”.

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