mercoledì 1 aprile 2009

Fitzcarraldo

Guardate quest’uomo: Lo seguireste in una spedizione nella foresta amazzonica a bordo di un vecchio battello con un capitano mezzo orbo ( per sua stessa ammissione), un cuoco ubriacone e una ciurma di indigeni?
Probabilmente indugerete. Quegli occhi, quello sguardo, sembrano velati di follia. Se poi verrete a sapere che lo scopo di questa missione è di prendere del caucciù per costruire un teatro d’opera nel piccolo villaggio di Iquitos, allora farete come i diplomatici della città, tratterete Fitzcarraldo soltanto come un povero pazzo, un fabbricatore di ghiaccio all’equatore, un uomo che vuole costruire una ferrovia che taglia il cuore della giungla.

Ora guardate quest’uomo: Di mestiere fa il regista. Ha scalato l’Himalaya, sorvolato in Iraq pozzi petroliferi in fiamme, ipnotizzato i suoi attori (Cuore di vetro, 1976), è andato a piedi da Monaco a Parigi per trovare una sua amica malata.
Per girare Fitzcarraldo ci sono voluti più di tre anni in cui si sono susseguiti divieti burocratici, assalti alla troupe, morti vere o presunte tali, cambio di attori, una barca arenata per mesi e un’altra che (a fatica) risale un monte, finanziamenti, anche personali, ridotti all’osso.
Ma alla fine il film uscì, e al Festival di Cannes del 1982 vinse il premio per la miglior regia.

Scontato sottolinearlo, ma l’ostinazione del regista si rispecchia nel personaggio di Brian Sweeny Fitzgerald, detto Fitzcarraldo perché i nativi del posto non riescono a pronunciare il suo nome, che si spella le mani a furia di remare pur di arrivare in tempo a Manaus per sentire il tenore Enrico Caruso. Vestito di bianco in un villaggio di fango e sudore, ha come migliore amico un maiale di fiume e per fidanzata una splendida Claudia Cardinale. Eccentrico, audace, magnetico grazie all’interpretazione di Kinski, coltiva la passione della lirica.
Difficile non utilizzare il termine “sogno” perché il lungometraggio è un crocevia di sogni, speranze, utopie.
Caludia Cardinale dirà che “chi sogna può smuovere le montagne”, si potrebbe aggiungere che chi sogna può dare la vita, al pari degli indios che identificano la vita con l’illusione, ed il sogno con la realtà.

La realtà, un buon punto di partenza.
Herzog non ha mai tradito la sua anima documentaristica, nemmeno nei suoi film a soggetto. Guardando Aguirre (1972) si aveva la sensazione di essere sulla zattera insieme al conquistadores, in Nosferatu (1979) il brulicare dei topi usciva dallo schermo, ma con Fitzcarraldo il regista supera se stesso. L’avventura diviene vera, non ci sono effetti speciali o altre diavolerie, la barca trainata su per il monte è stata realmente trascinata da un sistema di carrucole progettato da un team di ingegneri peruviani. Ed è altrettanto vero il primo tentativo fallito con la rottura di alcuni tiranti, e la furia delle rapide che sballonzolavano il battello da una parte all’altra del fiume fino ad incagliarsi per alcuni mesi negli scogli.
Fitzcarraldo come Davide, di fronte al gigante Golia che è la natura selvaggia, impervia. La missione di quest’uomo assume fin da subito i toni dell’impresa, disperata.
Eppure Dio non viene mai nominato. A differenza di Aguirre che sentiva dentro di sé una potenza divina, Fitzcarraldo è lo specchio sì di una follia, però lucida, razionale, anche spregiudicata, ma intraprendente. E che ha una fede incrollabile nella musica.

La musica, quindi.
Fitzcarraldo sogna di diffonderla come un virus benevolo.
È memorabile la scena in cui gli indigeni ascoltano lungo il fiume il grammofono ( o un aggeggio simile) diffondere la voce melodiosa di Caruso. Ostinatamente, al pari di Herzog nel voler portare a termine questo film ad ogni costo. Io, in qualche modo, ci ho visto un messaggio di pace, l’arte come “collante” fra popoli diversi. Non per niente nel finale,mentre il buon Fitzgerald passa a bordo del suo battello con lo sguardo fiero di chi ha compiuto un’impresa, gli abitanti del villaggio impazziscono di gioia nel sentire, e vedere, accalcati sulle rive, I puritani di Bellini sul vecchio barcone. È un finale diametralmente opposto alle sue opere precedenti dove c’era, ad esempio, una non-fine in Anche i nani hanno cominciato da piccoli (1970), o una fine senza speranza ne La ballata di Stroszek (1977). Qui, invece, la volontà di un uomo riesce a portare una barca sopra una montagna. È il trionfo dell’ambizione, dell’aspirazione, del sogno.

Bello? Brutto? Credo che a volte bisognerebbe sfuggire da queste etichette che sviliscono il valore di un’opera ingabbiandola in un sintetico giudizio. Fitzcarraldo è un’avventura estenuante, a tratti noiosa (la traversata del fiume dura quasi un’ora) a tratti coinvolgente ed entusiasmante. È un film epico.

Note a margine: esiste un documentario di Les Blank, intitolato Burden of Dreams (1982), che racconta la faticosa lavorazione del film. Inoltre Mondadori ha pubblicato per l’Italia il diario che Herzog tenne in quegli anni passati nella giungla. Il titolo del libro è La conquista dell’inutile (Mondadori, 2004).

1 commento:

  1. "È un film epico".

    sintesi perfetta.

    "La conquista dell'inutile" è eccezionale, lo leggi anche senza il film, è un'avventura.

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