mercoledì 29 aprile 2009

The Seventh Continent

Il settimo continente (1989), Benny’s Video (1992) e 71 Fragments of a Chronology of Chance (1994) compongono la cosiddetta trilogia della glaciazione di Michael Haneke.

È incredibile di come Haneke al suo esordio assoluto (aveva girato soltanto alcuni film per la TV) possegga una tale dimestichezza con il linguaggio cinematografico, e una tale cifra stilistica del tutto personale, che Der siebente Kontinent potrebbe essere tranquillamente il suo film che presenterà a Cannes 2009 (Il nastro bianco).
Anche per questa pellicola non poso fare a meno di tirare in ballo quelle due magiche paroline che sono presenti nel 90% delle recensioni riguardanti il cineasta austriaco: regia distaccata. Ovvero lo stile più vicino a quello documentaristico, uno stile freddo, sordo, insensibile, in totale antitesi con ciò che accade sullo schermo: una lenta cronistoria di situazioni disperatamente drammatiche senza alcuna via di uscita. Eppure, e qui sta secondo me la vera forza del cinema di Haneke, in questa atmosfera glaciale quanto un obitorio, lo spettatore si sente totalmente coinvolto, ed è spinto ad un naturale sforzo ermeneutico degli eventi, perché Haneke non dà nessuna risposta, ma “soltanto” domande.

Un marchio di fabbrica inconfondibile è l’immobilità della macchina da presa che dà vita a sequenze che sembrano eterne ed inutili, ma nelle quali si nascondono i lati più profondi, più nascosti.
Perché una famiglia composta da padre, madre e figlioletta, che apparentemente ha tutto: denaro, lavoro, una bella casa e un auto, decide di barricarsi in casa e uccidersi lentamente?
Forse la risposta risiede in queste parole di Haneke: “La nostra percezione è frammentaria. È impossibile rappresentare tutta la realtà in cento minuti di film, allora voglio mostrarne brevi frammenti.” Non si può, dunque, secondo lui descrivere in un lasso di tempo così ristretto la portata emotiva che ha lo sgretolamento di una famiglia. E allora il regista inserisce dei frammenti: la madre che scoppia a piangere nell’autolavaggio è l’emblema di tanti altri piccoli pezzetti disseminati nella pellicola. Non sappiamo le origini di questo pianto, le motivazioni si possono soltanto supporre, problemi al lavoro?, problemi col marito? Non si sa, di certo sotto quel sepolcro imbiancato fatto di beni materiale c’è del marcio. L’identificazione con gli oggetti della casa, con l’auto, e con il denaro, aliena a tal punto la famiglia dalla realtà, e da se stessi, che sceglie drasticamente di suicidarsi.

Il film nei primi minuti indugia intelligentemente sugli oggetti di uso quotidiano: una sveglia, un paio di pantofole, uno spazzolino, del dentifricio, il tavolo imbandito per la colazione. Tutto questo verrà distrutto da una rabbia cieca. Padre madre e figlia, armati di forbici e martelli, taglieranno vestiti e tende, distruggeranno mensole e tavolini, riducendo la loro casa ad un cimitero di frammenti che ormai non hanno più valore, perché rappresentavano l’essenza del nucleo famigliare. Haneke capisce già nell’89 che nella nostra epoca l’uomo vale per quel che HA e non per quel che È, la sua professione determina la sua posizione sociale. Una volta divenuti consapevoli di questo vuoto interiore, alla famiglia non resta rinnegare ciò che per loro è sempre stato importante (sono strasicuro che vi farà più male vedere i soldi gettati nel cesso che l’acquario distrutto a martellate), ma senza queste cose per loro la vita non ha senso e non resta che una lenta e inesorabile morte. Ricorderò per molto molto tempo i rantoli fuori campo della madre agonizzante per i farmaci ingeriti, il preludio di alcune devastanti sequenze successive (Funny Games, 1997, su tutte).

Se non avete mai visto nulla di Haneke (uscite immediatamente da questo blog), Il settimo continente è il film giusto per iniziare. Lo reputo uno dei suoi migliori lavori, nonché uno dei film più duri che i miei occhi abbiano visto. Senza una goccia di sangue, senza una parolaccia, senza un pugno o una pallottola.
Stimola il Pensiero.

10 commenti:

  1. E' un film che si può vedere anche in lingua originale e senza sottotitoli senza conoscere il tedesco. Arriva comunque addosso come uno tsunami sul frangiflutti. Non c'é alcuno scampo per lo spettatore, che nella sua "resistenza" alla visione diventa parte del dramma e ne condivide il dolore insopportabile.

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  2. Oh sì è proprio così! Ed ora Il nastro bianco, manco a dirlo sarà un altro capolavoro.

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  3. (sono strasicuro che vi farà più male vedere i soldi gettati nel cesso che l’acquario distrutto a martellate)

    io stavo per piangere per i pesci! Alla fine non meritavano di morire, erano esseri viventi, se pur vissuti in cattività.
    Il film è sconvolgente parecchio, certe inquadrature ricordano gli ultimi filmoni di Bresson.
    Devo ancora metabolizzarlo, il dolore credo che sia abbastanza intuibile e rintracciabile, come dici tu, nella funzione della società borghese. La scena dell'autolavaggio è scioccante, è una delle più riuscite.

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  4. La scena dell'autolavaggio è quando la madre scoppia a piangere, giusto?

    Anche se 71 frammenti e Benny's Video li ho visto parecchio tempo fa, mi viene da dire che questo sia il capitolo migliore della trilogia. Gli altri sono più lenti (ancora di più, sì) e forse più ostici. O forse, cosa probabilissima, al tempo non avevo ancora la mente sufficentemente elastica per receperli. Ed infatti non tenere troppo conto di quello che c'ho scritto sopra perché è parecchio superficiale.

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  5. si era quella la scena. Quella reazione di pianto incontrollabile, con quella determinata luce, quella determinata fotografia, quella determinata recitazione, è disturbatissima.
    Poi questa è un'altra che mi ha proprio lacerato il cuore, il contrasto tra il calore umano esterno che esce fuori dalla tv con le note di "The Power of Love" con la freddezza della mortificante e deprimente rassegnazione alla morte dei tre protagonisti:
    http://www.youtube.com/watch?v=qC0HJHEY3Cc

    Credo che siano film che un pò vanno revisionati, io infatti ho dovuto rivedere alcuni passaggi per cogliere alcune sfumature.

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  6. seguo il tuo blog da un bel po' ma non ho mai commentato. Però ho appena visto il film, sono ancora molto scossa e forse è per questo stato emotivo che mi viene da lasciare un segno qui.

    Splendido film, forse il migliore del regista (ma devo ancora vedere Benny's video,già recuperato e in programma).

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    1. ops alice, mi sa che il tuo commento mi era sfuggito. Anche se è passato un anno, spero che tu possa ripassare di qua e vedere che il tuo "segno" è stato raccolto.

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  7. un commento veloce perchè ho appena finito-o incominciato- questo struggente haneke. io ho invertito la rotta,nel senso che è l'ultimo che vedo di questo poeta del perturbante nel mio personalissimo ordine cronologico,ed è invece il suo primo.chapeau.
    ottima recensione eraserhead,mi ci sono rispecchiata molto.
    sì è vero fa quasi più male la scena lunghissima dell'ingozzo dello scarico del bagno che quella dei pesci,però non ho potuto fare a meno di empatizzare con quegli esseri convulsivanti al suolo.fino all'ultima inquadratura.
    ecchecazzo haneke sembra proprio non smettere di torturare anche altri animali-non spettatori- sembra sia anche così nell'ultimo film appena premiato a cannes.la vittima sul set è un piccione.
    il malessere sociale come pochi altri avevano filmato.
    goduria dei dettagli e dell'inquadrature sghembe.
    la distruzione catartica della casa l'ho vissuta, in queste sere da terremotata, come un esorcismo rigenerante.in barba alle scosse.
    mi ha ricordato un pò zabriskie point.
    l'autolavaggio dal di dentro non può che farmi ancora più orrore di prima.
    e così sia.

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    1. Solo che a rileggere le tue parole, Tarantola, una ventata di epifanie mi scuote. Di tempo dalla visione ne è passato, ma certe immagini non si cancellano (tipo quella nell'autolavaggio), e credo che capiterà la stessa cosa anche a te.
      Splendida la tua reazione al terremoto, il cinema può essere più forte della paura.
      E così sia, sì.

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  8. Quando vedo questo genere di film mi trovo di fronte ad un dilemma senza soluzione. L’autore rappresenta una realtà orrenda e raccapricciante, senza alcuna volontà di indagine emotiva o psicologica. Ci sono due possibilità: o l’autore ama ciò che rappresenta e lo fa in modo apologetico, oppure rappresenta qualcosa che odia e lo fa per provocare una reazione nello spettatore il quale dovrebbe in questo modo essere spinto verso una realtà opposta a quella rappresentata. Il primo caso si commenta da sé: se fosse così, l’autore sarebbe altrettanto esecrabile di ciò che rappresenta nei suoi film. Nel secondo caso, se immaginiamo una realtà opposta a quella rappresentata, sarebbe più o meno il mondo tenero e fatato dei film di Walt Disney. Ma allora, perché l’autore non salta direttamente al passo successivo, e non si impegna a costruire una realtà alternativa, a rappresentare un mondo giusto che lotta per il bene (quindi Walt Disney), nella speranza di diffondere simili sentimenti nella società? Se disprezza così tanto quello che rappresenta, allora perché lo fa?
    Quindi ritorno al punto uno e mi chiedo: forse lo fa perché il mondo che vuole creare, l’obiettivo a cui vuole arrivare è un mondo uguale a quello dei suoi film? Ma allora, quale valore artistico possiamo attribuire a un’opera se il suo fine è così meschino?
    E poi affiora un dubbio ancora più inquietante: e se in realtà questi film non avessero alcuno scopo, se non quello di provocare gratuitamente lo spettatore “intellettuale” che annoiato dalla vita, ama essere disgustato per il piacere di essere disgustato?
    Beh … se fosse così devo ammettere che non riesco ad immaginare niente di più squallido, mediocre ed insignificante.
    Quindi?

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