Il titolo di un film possiede sempre una forza ostensiva: ossia palesa, indica e circoscrive un argomento la cui trattazione viene sviluppata durante la proiezione. Spesso può fungere da incentivo ammiccando al fruitore dell’opera, altre volte esplica in maniera sintetica ciò che ci si appresta a vedere. È in questi casi che il regista ( e la troupe in toto) deve riuscire a stupire lo spettatore che seduto sulla comoda poltroncina del cinema, o della sua casa, è a conoscenza del fatto che,ad esempio in questo caso, in qualche modo, una storia d’amore finirà.
Gli indizi di una deriva sentimentale fra due persone ci sono tutti sin dalle prime parole battute a macchina dallo scrittore Maurice Bendrix (Ralph Fiennes): “questo è il diario di un odio.” In maniera rapida, ma NON frettolosa, si delineano i personaggi di questa liaison: Sarah Miles (Julianne Moore) moglie insoddisfatta, ed Henry Miles marito assente (Stephen Rea). Quello che accade è banale: lo scrittore e la moglie iniziano una relazione clandestina in cui si amano perdutamente. Ma pur mancando di originalità, la storia regge splendidamente grazie all’interpretazione attoriale, la Moore giganteggia: fragile e disperata. Fiennes segue a ruota arrancando un pochino, ma soprattutto regge per la scelta di effettuare un montaggio colmo di frammenti da ricomporre che ha nel diario di Maurice il proprio filo conduttore. Salti all’indietro controbilanciati da spinte in avanti, in un gioco coinvolgente, intrigante, merito anche di una messa in scena curata fino al dettaglio e della delicata fotografia che esalta la luce creando auree magiche intorno agli interpreti.
Ma questo, come citato poc’anzi, è il diario di un odio. Dopo la scena madre del bombardamento, la vicenda arriva ad un punto di svolta. Sarah abbandona senza un motivo Maurice incredibilmente sopravvissuto alla deflagrazione dell’ordigno. Viene facile, quasi naturale, credere che l’odio dello scrittore sia diretto alla donna che ama ma che lo ha piantato in asso.
Qui avviene il ribaltamento narrativo.
Entra in scena un altro diario, quello di Sarah. Cambia repentinamente l’angolo di visuale, e alcuni punti oscuri vengono illuminati. Ecco che in un “semplice” triangolo amoroso, un lato della figura viene occupato dalla fede. La donna è disposta a barattare la sua relazione con la vita di Maurice. Prega Dio, e Dio esaudisce il suo desiderio. Svuotata e smarrita in un deserto, trova così la pace nella religione. Venuto a conoscenza di questo patto con Dio, Maurice ritorna da Sarah per passare gli ultimi momenti con lei prima della sua morte. E solo alla fine si comprende di come quest’odio non sia rivolto ad una persona: “ho scritto all’inizio che questo era il diario di un odio, ti ho odiato come se esistessi veramente, ora sono stanco di odiare, ma tu sei ancora lì. Certo la tua astuzia è senza fine, hai suscitato il mio odio per costringermi ad ammettere la tua esistenza. Mi resta solo una preghiera adesso: mio Dio, non pensare più a me, abbi cura di lei e di Henry, e lasciami in pace per sempre.”
Ottimo, sotto tutti i punti di vista. Di ciò che ho visto di Jordan, questo è il suo lavoro migliore.
Fine di una storia, tra l’altro, anche tra me e il regista irlandese. Volevo ricomporre la sua filmografia completa, ma Kim Ki-duk ed Herzog recriminano il loro spazio che è molto, anche in termini di impegno che nel mio piccolo tento di non far mai mancare. Lo sostituirò con alcune opere più “leggere.”
O forse no.
Gli indizi di una deriva sentimentale fra due persone ci sono tutti sin dalle prime parole battute a macchina dallo scrittore Maurice Bendrix (Ralph Fiennes): “questo è il diario di un odio.” In maniera rapida, ma NON frettolosa, si delineano i personaggi di questa liaison: Sarah Miles (Julianne Moore) moglie insoddisfatta, ed Henry Miles marito assente (Stephen Rea). Quello che accade è banale: lo scrittore e la moglie iniziano una relazione clandestina in cui si amano perdutamente. Ma pur mancando di originalità, la storia regge splendidamente grazie all’interpretazione attoriale, la Moore giganteggia: fragile e disperata. Fiennes segue a ruota arrancando un pochino, ma soprattutto regge per la scelta di effettuare un montaggio colmo di frammenti da ricomporre che ha nel diario di Maurice il proprio filo conduttore. Salti all’indietro controbilanciati da spinte in avanti, in un gioco coinvolgente, intrigante, merito anche di una messa in scena curata fino al dettaglio e della delicata fotografia che esalta la luce creando auree magiche intorno agli interpreti.
Ma questo, come citato poc’anzi, è il diario di un odio. Dopo la scena madre del bombardamento, la vicenda arriva ad un punto di svolta. Sarah abbandona senza un motivo Maurice incredibilmente sopravvissuto alla deflagrazione dell’ordigno. Viene facile, quasi naturale, credere che l’odio dello scrittore sia diretto alla donna che ama ma che lo ha piantato in asso.
Qui avviene il ribaltamento narrativo.
Entra in scena un altro diario, quello di Sarah. Cambia repentinamente l’angolo di visuale, e alcuni punti oscuri vengono illuminati. Ecco che in un “semplice” triangolo amoroso, un lato della figura viene occupato dalla fede. La donna è disposta a barattare la sua relazione con la vita di Maurice. Prega Dio, e Dio esaudisce il suo desiderio. Svuotata e smarrita in un deserto, trova così la pace nella religione. Venuto a conoscenza di questo patto con Dio, Maurice ritorna da Sarah per passare gli ultimi momenti con lei prima della sua morte. E solo alla fine si comprende di come quest’odio non sia rivolto ad una persona: “ho scritto all’inizio che questo era il diario di un odio, ti ho odiato come se esistessi veramente, ora sono stanco di odiare, ma tu sei ancora lì. Certo la tua astuzia è senza fine, hai suscitato il mio odio per costringermi ad ammettere la tua esistenza. Mi resta solo una preghiera adesso: mio Dio, non pensare più a me, abbi cura di lei e di Henry, e lasciami in pace per sempre.”
Ottimo, sotto tutti i punti di vista. Di ciò che ho visto di Jordan, questo è il suo lavoro migliore.
Fine di una storia, tra l’altro, anche tra me e il regista irlandese. Volevo ricomporre la sua filmografia completa, ma Kim Ki-duk ed Herzog recriminano il loro spazio che è molto, anche in termini di impegno che nel mio piccolo tento di non far mai mancare. Lo sostituirò con alcune opere più “leggere.”
O forse no.
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