giovedì 30 settembre 2010

Entr'acte


Prima di riprendere con ritmi più umani la scrittura del blog, piccola parentesi musicale con un video che ho visto passare alla tele e che mi è parso immediatamente adorabile.
Non abituatevi troppo bene, domani o dopo si parla di un serial killer…

mercoledì 29 settembre 2010

Mr. Nobody

Ad un certo punto Nemo Nobody (N. N., No Name) osserva su uno schermo l’accelerato decomporsi di un cesto di frutta; poco prima, o forse poco dopo, si era visto un topolino morto che progressivamente veniva mangiato da un ammasso di vermi nati dal suo deterioramento.
Decomposizione e ricomposizione. Il film del belga Jaco Van Dormael vive, muore e rivive in un loop senza uscita all’interno di questi due estremi.
Attraverso la stessa matrice nostalgica de L’uomo bicentenario (1999) coadiuvata da una forza dirompente nel voler costruire e ripercorrere un racconto come ne Il curioso caso di Benjamin Button (2008) supportata da un’eguale tendenza a decostruirlo similmente a Synecdoche, New York (2008), riprendendo l’assunto di Sliding Doors (1998), ovvero: UNA scelta comporta sempre UNA conseguenza diversa, ma potenziandolo esponenzialmente con una struttura che richiama il più elementare Lucía y el sexo (2001), Mr. Nobody (2009) è un film che si espande su se stesso come l’universo.

Non c’è una storia, ce ne sono tante. Il big bang che dà origine a tutto è una scelta epocale: stare con la mamma o con il papà. Nello scenario di una soleggiata stazione sta per scriversi il destino di un uomo che è ancora un bambino, e combattuto su quale scelta prendere, Van Dormael, attraverso il cinema, gli permette di scrivere il futuro, o meglio, tanti futuri possibili in cui è nelle possibilità di tornare continuamente indietro, di rifarsi, di ricomporsi, anche dalla morte.
Gli innumerevoli futuri sono guidati da tre direzioni che corrispondono a tre donne diverse, o probabilmente da una sola: Anna, con le quali Nemo divide tre singole vite diverse, ma che a causa di passaggi temporali (dimensionali?) si mescolano inevitabilmente tra di loro come il purè con la salsa. Manifestazioni di spazio e di tempo incerte che dipendono dalla stringa (geniale ed ironico rimando alla Teoria delle suddette) di una scarpa; e in ogni bivio, scorciatoia, ritorno o passaggio al via si incastrano epifanicamente le ossessioni amorose dell’uomo(bambino)-Nemo rese con un palese didascalismo che però non prescinde da una certa ironia di base supportata da una freschezza narrativa che raramente ho incontrato in altri film.
Ma se questa storia si espande come l’universo, allora dovrà avere una fine, un big crunch. E tale data fatidica riecheggia più volte: 12 febbraio 2092. Ovvero l’unico momento di spazio e di tempo che parrebbe certo; non è così. Quando l’ormai ultracentenario Nemo chiude gli occhi, tutto improvvisamente si riavvolge (il fumo torna alla sigaretta, il foglio ritorna bianco) di nuovo al big bang, a quella stazione ferroviaria teatro di una scelta fondamentale. E così anche quello che sembrava l’unico momento certo non era altro che una delle infinite possibilità, delle molteplici pieghe partorite dall’architetto, dalla mente di Nemo bambino che nell’istante prima di scegliere ha composto e decomposto un vortice di mondi differenti.

Mr.Nobody è ben lungi dall’essere perfetto dati i contenuti traboccanti di cui è costituito. Tracimando la sua dedalica essenza segna però un tentativo di cinema a cui è doveroso volgersi, assolutamente.

martedì 28 settembre 2010

Dogtooth

Il seguente commento è ampiamente tratto da Trattato di Pedagogia Generale (Bompiani, 2006).

SULLA FORMAZIONE

In Kynodontas (2009) si parla dell’addestramento di un cane in termini formativi, suddividendo le tappe della sua crescita in vari stadi. Parallelamente il padre attua un processo similare con i suoi 3 figli; attraverso una sorta di perverso imprinting dimensiona a suo piacimento la personalità dei ragazzi. La formazione di un essere umano è invece lontana da essere un percorso lineare, bensì si tratta di un avanzamento saturo di arresti, arretramenti, spinte in avanti controbilanciate da sconfitte o stasi. Molto si gioca nell’indeterminatezza del caso, un elemento totalmente bandito dalla famiglia dove la vita è controllata da una regole ferrea: non si può uscire dalla casa finché il canino non cade. A grappolo si snodano altre imposizioni (le barriere fisiche e non solo intorno all’abitazione, il potere sessuale ad appannaggio esclusivo del maschio, l’isolamento totale da qualunque canale comunicativo, perfino l’etichetta delle bottigliette!) fino all’anonimia, deflagrante metodo per annullare l’identità dei figli che se non fosse per la declinazione patriarcale sarebbero come un unico essere trino senza coscienza. E quando queste regole vengono violate scatta la punizione fisica.
Così la formazione diventa una de-formazione. I ragazzi non si riconoscono in se stessi ma nelle cose messe a disposizione dai genitori. Vincere tanti adesivi significa fare buona impressione agli occhi del padre, raccogliere gli aerei che “cadono” rappresenta un trofeo da esibire, guardare i video amatoriali del focolare è un momento di gioia. Di tutte le categorie che costituiscono la formazione intima dell’uomo (armonia/esperienza/amore/civiltà) non vi è traccia perché non esiste libertà. Questi ragazzi non sono soltanto imprigionati dagli steccati del giardino ma da un sistema che mira all’appiattimento e a prevenire la nascita di qualsiasi individualità discordante, in favore di una con-formazione attinente al modello imposto.

SULL’EDUCAZIONE

Non è un mistero che la famiglia sia dopo la scuola (o prima?) il più importante ambiente educativo. La dimensione dell’educazione ha una peculiarità: è etero. Ovvero pone di fronte un educatore e un educando il quale si rende destinatario dei percorsi posti in essere dal soggetto educatore. Va da sé che educazione e formazione sono due tempere di uno stesso quadro, quello umano. Ma cosa accade quando una famiglia come questa costituisce l’unico punto di riferimento per i propri figli? Accade che essi diventano i protagonisti di una educazione sbagliata, fanatica, razzista. Ma di questo loro non possono accorgersene, e ciò fa male davvero durante la visione del film, perché percepiscono l’alterità del padre-insegnante (d’altronde la parola in-segnare ha un significato lampante: lasciare segni) come giusta, necessaria, autentica al pari del microuniverso in cui vivono, ovviamente fittizio, costruito ad arte malvagia per i nostri occhi. Sottostando a queste logiche del potere i ragazzi fanno proprie delle scale valoriali aberranti: non esistono leggi biologiche – la madre può partorire un cane – né leggi naturali – i pesci vivono dentro ad una piscina –. Inoltre non avendo la benché minima struttura morale sono disposti a scendere a compromessi senza risentirsene, sesso orale in cambio di un oggetto, e accettano l’incesto senza provare disgusto, ma di certo nemmeno amore perché di quello non ne conoscono il significato. Dunque, si avverte che la riflessione di Lanthimos include contenuti sottotestuali decisamente prossimi alla nostra contemporaneità, un manifesto di come l’educazione sia una vera e propria arma sociale in grado di guidare le condotte, morali e non.

SUL LINGUAGGIO

Il linguaggio non si parla da solo, chi lo parla è l’uomo. La forma del linguaggio esprime un bisogno, quello di dare vita a una struttura discorsiva con la quale parlare a sé e parlare di sé, parlare all’altro e parlare dell’altro. Parlare del mondo esterno, sopratutto. La lingua è perciò uno strumento fondamentale per conoscere, imparare e anche amare. La dialettica imposta dai genitori è costituita da un travisamento semantico atto ad alienare i figli dal vero mondo. L’incipit mostra infatti il registratore che insegna le nuove parole del giorno; il mare diventa una poltrona, l’autostrada è un vento, l’escursione è un materiale per pavimenti, la carabina è un uccello. Tutti gli oggetti che non trovano posto nel mondo dei genitori, vengono falsati di significato per poter essere ricondotti nella quotidianità della casa. È una folle protezione da ciò che esterno, che è altro, la coppia rinchiude i figli sotto una cappa anestetizzante inventando per loro una lingua fasulla per un mondo fasullo. Paradigmatica della coercizione con cui i genitori controllano i ragazzi è la subdola traduzione che il padre fa di una canzone in inglese mentendo sul fatto che a cantare fosse il nonno, proprio per stringere ancora di più il laccio attorno alla famiglia, costruendo un passato (il nonno cantava che bisogna restare in casa) che annienta il futuro (se il nonno parlava così sarà stato giusto).

Il puro esercizio stilistico di Kinetta (2005) viene doppiato dalla sconvolgente verità di Dogtooth. Lanthimos, cattivo come Seidl, ironico come Solondz ed esteta come Haneke, trasla in scala ridotta nella casa-mondo di questa famiglia le dinamiche dispotiche che sottomettono, assoggettano, spaventano, illudono, hanno illuso e illuderanno l’uomo. Un film tanto importante per le tematiche considerate quanto splendido da ammirare per la sua cura visiva.
Impossibile dimenticarlo, e impossibile non vederlo.

lunedì 27 settembre 2010

La Jetée

La Jetée è un film del ‘62 di nemmeno mezz’ora che parla di e con frammenti.
Frammentata è l’impostazione che vede un susseguirsi di fotografie in bianco e nero commentate da una voce narrante, ma frammentato è anche e soprattutto il livello concettuale in cui si sviluppa il corto (più che sviluppo si potrebbe parlare di un “passo da gambero” dove il protagonista, semplicemente Un uomo, viene spostato indietro o in avanti nel tempo).

Evitando di impelagarsi in costose scenografie post-atomiche, Chris Marker riesce ad essere molto più efficace affiancando delle semplici immagini (lui è anche un fotografo) che costruiscono una storia in bilico fra fantascienza e (foto)romanzo sorretta da una palpabile malinconia di fondo.
I volti dei dottori implementati dalla plasticità delle loro pose hanno un riverbero diabolico, di contro i primi piani della donna – semplicemente Una donna – sono solari, amorevoli, pregni.
Il contrasto fra il presente radioattivo e il passato dell’infanzia è netto, una contrapposizione dicotomica eccellente che non perde fluidità sebbene venga raccontata attraverso tanti piccoli pezzetti.

La Jetée cita La donna che visse due volte (1958), altro film in cui lo spazio e il tempo si annodano su stessi in una spirale mortale, con la scena del tronco tagliato. Ma La Jetée a sua volta è la principale fonte di ispirazione de L’esercito delle dodici scimmie (1995). Gilliam “ruba” a Marker l’idea dell’uomo in viaggio nel tempo per riparare il presente, e vi immette le medesime ossessioni: un ricordo lontano, la presenza di una donna, un aeroporto, fino a ricalcarne anche il finale. Ma tutto 33 anni dopo e con mezzi maggiormente adeguati, il che mi sembra giusto dirlo. Ma è parimenti lecito dire che l’effetto complessivo di The Pier non perde un colpo in questo lungo lasso di tempo. D’altronde è di questo che il film parla, non è solo un uomo a viaggiare nel futuro, ma la pellicola stessa, riuscendo ad essere originale e affascinante tutt’oggi.

domenica 26 settembre 2010

The Story of Mr. Sorry

Non poteva che arrivare dalla Corea del Sud questo cartone animato (quanto è riduttivo definirlo così?) geniale per contenuti e… contenitore. Già perché la tecnica di animazione utilizzata, di cui non sono riuscito a trovare informazioni in rete e perciò vi dovrete accontentare delle mie ignoranti parole, è originalissima. Ad occhio profano sembrerebbe che i registi, ben 5!, abbiano disegnato su dei cartoncini poi opportunamente collegati, sovrapposti, ritagliati fra loro. Il risultato è esteticamente brutto, strano e straniante, ma anche e soprattutto convincente.Dei contenuti è semplice: una trovata migliore dell’altra.
In pratica c’è questo Mr. Sorry, un omino triste trattato a pesci in faccia, che svolge un lavoro oltremodo ignobile, quello di pulire le orecchie. Il capo dell’azienda ed un medico approfittano della sua debolezza per sottometterlo ad un esperimento che arricchirà l’odioso boss e farà diventare piccolo come una formica il povero protagonista.
Mantenendo una concezione spirituale della vita che spesso ho rintracciato nelle opere dagli occhi a mandorla, anche qui si avverte una verticalità di pensiero, una sublimazione dell’oggetto preso in considerazione sebbene attorniato da un concentrato di cattiverie squisitamente (dis)umane. Ovvero: se da una parte Mr. Sorry è costretto a spalare cerume negli apparati acustici delle persone e venga deriso, umiliato, preso in giro, dall’altra il film si innalza con prepotenza nei territori eterei dell’inconscio, elevando la propria riflessione.
Il non plus ultra della pellicola si sostanzia con la scoperta di quel passaggio jonziano nella testa delle persone che porta all’anima, alle zone imperscrutabili tanto care a Freud. Delizia per gli occhi, dal retrogusto malinconico con paesaggi/passaggi che piacerebbero di brutto a Tim Burton o a Švankmajer.

Altra forza che dà nerbo alla vicenda è la figura della sorella scomparsa che si tramuta in ossessione col passare del tempo. Con un corretto bilanciamento tra la “questione lavoro” e la “questione famiglia” si arriva ad una conclusione in cui i due aspetti si incontrano e precipitano così come doveva essere; in un finale dove mi sento di puntare il dito contro un’eccessiva deriva jappo con qualche eco tsukamotiana nella quale viene mostrata con eccessiva enfasi la bestiale mutazione, ma sono gusti personali, c’è chi potrà apprezzare.
Il pubblico del programma televisivo non dà nessuna possibilità al Mr. Sorry trasformato senza capire che sono stati loro a farlo diventare così, perché come diceva qualcuno: “Chi lotta contro i mostri deve fare attenzione a non diventare lui stesso un mostro.”
Voi invece date una chanche a questo alter ego di noi stessi, ne ha, ne abbiamo bisogno.

Incredibile a dirsi ma a meno di una mia comunque possibile deficienza, per IMDb The Story of Mr. Sorry non esiste.

sabato 25 settembre 2010

Il gusto dell'anguria

Inaspettatamente nell'universo tsaiano smette di piovere. I/l cinema sono/è chiusi/o dopo Goodbye, Dragon Inn, e a Taipei è periodo di grande siccità che la tv suggerisce di sconfiggere con il succo d’anguria. Sembrerebbe, dunque, che qualcosa sia cambiato davanti alla mdp di Tsai. Ma è solo apparenza; perché sebbene la sua filmografia si mostri liquida in superficie, nel profondo i suoi film sono gelidi quadretti di cristallizzata solitudine, e Il gusto dell’anguria (2005) non sfugge a questa amara visione. La presenza del cocomero, che ricordo essere un frutto costituito dal 90% di acqua, si presenta fin da subito come una divisione, un ostacolo tra le persone. La prima sequenza è sintomatica perché Hsiao-Kang, ora porno attore, “masturba” l’anguria posta tra le gambe della donna come se fosse un sesso femminile. Si palesa subito una distanza, più fisica di quella in Che ora è laggiù?(2001), ma non per questo più semplice da ridurre, anzi proprio per essere caratterizzata da una (falsa) vicinanza corporale appare oggettivamente impossibile da diminuire. L’insistenza su questo frutto unita all'improvvisa allegria dei balletti, per i quali ci sarebbe voluta una sottotitolatura, parrebbero versare un goccio di positività nella conca nera di Tsai. Anche qui è solo apparenza.

Se da un lato si ha questa leggera predisposizione al sorriso, dall’altro non si può che fare ammenda della lontananza tra gli uomini che si consuma sullo schermo dentro profondissimi campi lunghi che sembrano risucchiarli. Lui fa il bagno nella cisterna del palazzo e poco dopo dal rubinetto di lei fuoriescono bolle di sapone che vanno a cozzarle addosso senza riuscire a svegliarla (scena da applausi); lei offre un bicchierone di succo d'anguria, di nuovo il cocomero che divide, e lui fa finta di berlo per gettarlo, appena riesce, in un angolino. Lei espelle un’anguria da sotto la canottiera, lui si fa una sega spiando la collega che si trastulla con una bottiglia vuota. Anche nei momenti in cui riescono a stare insieme faticano a trovarsi: dopo mangiato si aggrovigliano sotto il tavolo fumando una sigaretta, nell’istante di massimo contatto sono rinchiusi in uno sgabuzzino con scaffali e scaffali di dvd porno, ma pure qui, un secondo prima del passo decisivo, qualcosa sembra bloccarli.
E così tra i sorrisi, comunque pochi e spesso amari in particolare per ciò che riguarda i siparietti erotici di Hsiao dove la potente pioggia del passato è ridotta in scala ad una bottiglietta bucherellata tenuta in mano dall’assistente tecnico, si arriva alla conclusione. Inaspettatamente, o forse no visto il suo curriculum, Tsai si rivela micidiale con una sequenza che ha un carico lesivo potentissimo, dolorosamente indimenticabile, nel quale si innestano riflessioni profilmiche, ecco che ritorna IL distacco: all’inizio un’anguria adesso un separè che tenta di essere goffamente oltrepassato con la fellatio soffocante evidenziata dal sinistro primo piano della ragazza che quasi affoga nell’atto, ed extrafilmiche, dove una donna è solamente il suo corpo svuotato che a sua volta è un oggetto utilizzato come mezzo per raggiungere uno scopo nella totale indifferenza del regista e dei suoi collaboratori (“mettila di qui, no girala di là”).
Voto 8 al film e 10 alla sua funerea chiusura.

Nota a margine.
Io avevo già visto Il gusto dell’anguria circa un anno fa. O meglio, avevo provato a vederlo, ma dopo quaranta minuti avevo staccato perché lo trovavo pesante. Mi viene da pensare che l’unico limite di Tsai Ming-liang sia quello di aver creato un continuum talmente autoreferenziale da non poter essere scorporato. O lo si vede tutto o è meglio non vederlo, perché penetrare nel suo mondo guardando un solo film diventa praticamente impossibile.

venerdì 24 settembre 2010

Il corpo dell'anima

Un’opera in cui lo spazio e il tempo contano molto.

Raccontato sottoforma di diario, Il corpo dell’anima (1999) è un film che a dispetto di parecchi fattori – vedi la controproducente etichettatura erotica o la paternità tutta italiana che in tempi di esterofilia acuta può risultare un aggravante – riesce a sorprendere.
In un quadro in cui affiorano reminiscenze moraviane (La noia, 1960) e buzzatiane (Un amore, 1693) Salvatore Piscicelli narra della passione del signor Ernesto, uomo benestante e acculturato ex sceneggiatore cinematografico, nei confronti della procace Luana, giovane e disinibita cameriera alle dipendenze dell’uomo.
Privo di una originalità a livello dei contenuti, la pellicola vince nel territorio più difficile da conquistare, quello della forma. Che è dignitosissima, misurata, regolata così come l’esistenza di un anziano vedovo che non può chiedere più niente alla vita.
La voce off di Roberto Herlitzka, teatrante straordinario, con le sue dotte dissertazioni ontologiche, artistiche e in molti casi semplicemente umane, creano un netto contrasto con la sua avventura (perché questo è) nell’agitato mare di un amore impossibile. Da ciò ne deriva una compassione solida nei suoi confronti, reale empatia per quello che in fondo non è altro che un vecchietto con gli acciacchi dell’età.

Si staglia semplice la contrapposizione fra Teresa d’Avila, mistica religiosa spagnola santificata nel 1622, e Luana, l’inafferrabile giovinezza. La prima è il passato, una figura muliebre che Ernesto identifica con il lavoro, la dedizione, la voglia di non deludere l’amico regista. La seconda è un presente che non sarà mai futuro perché esso è l’unica cosa che Ernesto non ha; Luana è mistero, voglia di scoprire, estasi. L’anziano è combattuto fra queste due donne.
Nel corso della pellicola si potrà notare di come il disamoramento verso il film sulla santa corrisponda al cieco innamoramento con relativa perdita di dignità (si fa pisciare addosso) nei confronti della giovane ragazza. Con l’abbandono del progetto cinematografico, difatti, l’occhio di bue si concentra esclusivamente sulla coppia impossibile lasciando da parte gli sporadici incontri con l’odiosa nipote, Mauro il regista e l’amico montatore. Lo spazio per loro non esiste più, perché adesso l’unico spazio è occupato da Luana.
La vacanza a Ischia è il punto di non ritorno. Lontani dall’alcova che li aveva celati al resto del mondo, Luana ed Ernesto si trovano nudi in una realtà troppo stretta per la ragazza. Ischia è la personificazione dello sceneggiatore: un luogo fatto di ripetizioni, giorni e notti troppo uguali gli uni agli altri, ma allo stesso tempo è un luogo splendido, profondo, delicato. L’equilibrio, o la parvenza di esso, si spezza qui, e mette in evidenza la lontananza irriducibile fra due persone che comunque, in qualche modo, si sono volute bene.
L’incontro dopo due anni al tavolino di un bar è un momento intenso di cinema, semplice, non banale. Un tuffo nel ricordo scevro di quel dolore che il tempo ha sapientemente medicato, ma ancora vivido di rimpianti che Ernesto sa di non poter dire. E la conclusione della storia, una buona conclusione come il protagonista asserisce, assomiglia di più ad un congedo alla vita con quel campo lungo di spalle nel viale alberato.

Herlitzka è fenomenale. Raffaella Ponzo un po’ sopra le righe nel voler (o dover) “burineggiare” a tutti i costi.
Una visione che sorprende perché ribalta la percezione erotico-sempliciotta che si potrebbe avere leggendo la trama. Sentirete parlare ancora di Piscicelli da queste parti, statene certi.

giovedì 23 settembre 2010

PVC-1

Siamo abituati ormai a vedere il (e nel) cinema la mediazione con la realtà. Ovvero: ci sediamo ad un tavolino di fronte a lui, e se vuole raccontare cose realistiche ci deve convincere di questo. Tanto più esso si avvicina al concetto che abbiamo di reale, tanto più ne veniamo coinvolti, almeno in linea teorica. Si tratta in ogni caso di un’illusione a cui lo spettatore si assoggetta consapevolmente poiché anche nell’opera più realistica potrà rintracciare una tecnica, un metodo, un qualcosa che segni in ogni caso il confine fra verità e fiction.
PVC-1 no.
PVC-1 è un film eccezionale perché assottiglia come nessun altro aveva mai fatto la linea di demarcazione fra ciò che appare reale e ciò che non lo è. Merito del piano sequenza (non ricordo dove ho letto che è la tecnica registica più vicina alla vita. Vero. Ma qui lo è molto di più alla morte) che costituisce tutta la pellicola: dall’inizio alla fine. Come Sokurov e se volete anche Hitchcock, Stathoulopoulos pone la propria cinepresa come sguardo unilaterale, esclusiva fonte di conoscenza possibile. Non esiste il montaggio o altri artifizi, è come essere realmente lì, dentro la fattoria colombiana in cui la percezione della sofferenza di quella mamma-bomba è a prova di tatto (si sente un fastidio intorno al collo durante la proiezione), di vista (non essendoci campi/controcampi tutto si allontana o si avvicina a seconda della mdp), di udito (i bip-bip dell’ ordigno strozzano il fiato), di gusto (il metallo della pistola puntata nella bocca del figlioletto), di olfatto (non ho la più pallida idea di che odore abbia una bomba ma quando l’artificiere si è messo ad annusare il collare io HO sentito).
Tale cinema, che credo mai come in questo caso vada classificato sotto la categoria di esperienza e non di visione, riesce ad empatizzare così tanto perché utilizza le medesime coordinate del nostro vivere. Noi vediamo, sentiamo, avvertiamo, percepiamo, tutto quello che se fossimo invischiati nella vicenda sentiremmo, avvertiremmo, percepiremmo. Si presenta e prosegue allora come un cinema che riduce la distanza fra l’osservatore e l’osservato, poggiando le fondamenta su un substrato fatto di angoscia che tende il filo del film non in una sola scena ma per tutta la sua durata.
Dei delinquenti hanno messo un collare esplosivo addosso ad una donna e noi siamo lì con lei e la sua famiglia. Punto.

Dato lo sforzo tecnico richiesto non solo per la regia ma anche per gli attori, era pressoché inevitabile inciampare in qualche buca. Dopo il fulminante inizio opportunamente privo di qualsiasi spiegazionismo, la tensione resta decisamente palpabile nei primi tre quarti d’ora per poi diminuire durante il tentativo di disinserire l’ordigno. Sebbene il taglio con cui viene raccontato il disinnescamento rimanga estremamente godibile con quello sguardo (non mi viene da chiamarlo in altro modo) che fa vivere tutta l’angoscia del set, il pathos si disperde negli allungamenti da brodo come il taglio del dito da parte dell’artificiere e lo svenimento improvviso della madre.
Anche il finale che vede per la prima e ultima volta il tocco del regista con un leggero sbiadimento della pellicola si poteva intuire. Detto ciò è strepitosa l’ultima scena accompagnata da un fischio sordo (ci siamo dentro fino alle… orecchie) in cui l’occhio (il nostro) si avvicina alla figlioletta inginocchiata che disperandosi stringe in mano un salvadanaio.

Non è perfetto PVC-1, e che importa in fondo. Come suggerisce la tagline viene mostrata la vita in un solo colpo. Un colpo che da un lato picchia forte allo stomaco e dall’altro non fa smettere di applaudire.
Questo cesso di blog si arricchisce di un’altra perla di cui non è degno, una delle più brillanti ma anche una delle più splendidamente sporche.

Un grazie infinito ai ragazzi di Asian World.

martedì 21 settembre 2010

Still alive

Come va?… Uff, domanda di circostanza che genera sempre una risposta d’eguale caratura, non ho mai sentito rispondere qualcuno “sto male”. Comunque, un po’ di tempo dal mio ultimo post è passato, e per cercare di recuperarlo il blog sarà teatro per una settimana di una mini rassegna che definirei ghezzianamente Magnifica ossessione. Da questo giovedì fino al prossimo ogni giorno sarà scandito dalle mie parole su un film degno d’attenzione. C’è della roba parecchio interessante.
Nel frattempo, come avrete notato, Oltre il fondo si è rifatto l’abito, è sempre un posticino allegro questo eh.

mercoledì 8 settembre 2010

Diario di una fine

Vivo in una casetta a due passi dal bosco. Me l’ha lasciata mio padre facendomi promettere che non l'avrei mai venduta a nessuno. Ho mantenuto la promessa. Sono alto un metro e novantuno per ottantanove chili, faccio il taglialegna. Al mattino mi alzo che ancora non è l’alba, lavoro fino al pomeriggio tardi, a volte prima di rientrare mi fermo in paese a bere qualcosa, a volte no. Alla domenica vado a messa, non mi piace molto però papà ci teneva tanto che io ci andassi, così ci vado che non vorrei mai dargli un dispiacere da lassù. E poi ultimamente prego tanto Gesù perché è sparito il mio gatto rosso Gogol. Il babbo diceva sempre che Gogol era un gatto speciale perché sa parlare con gli occhi, io non lo so, ma mi sembra che tutti gli animali sono capaci di dire con lo sguardo, siamo noi che mica riusciamo a capirli. Comunque a Gogol ci voglio tanto tanto bene perché mi fa compagnia di notte, solo che saran quattro giorni che è scomparso. Sì, a lui piace un sacco gironzolare per il bosco, ma appena c’ha un po’ di fame viene a miagolare dalla porta. Spero che torni presto perché mi manca molto.

Oggi sono successe due cose strane.
La prima un po’ mi ha spaventato. Ero sul trattore che portavo della legna al deposito quando ho sentito un male cane alla schiena. Ho dovuto fermarmi sul bordo della strada per vomitare. Mi è girata la testa per un’oretta, poi sono stato meglio. Anche la seconda devo dire mi ha fatto paura. Saranno state neanche le nove di sera, mangiato poco per via dell'inconveniente di prima, che mi sono sdraiato. Nel dormiveglia avverto un lamento lontano, Gogol!, penso. Sembrava proprio il suo miagolio, apro la porta: niente. Resto immobile e come dei passi veloci si allontanano nel buio delle frasche. Lo chiamo per nome, mi risponde il vento.

Sono tre giorni che non sto mica bene, sempre 'ste fitte alla schiena, devo dirlo al Dottore poi. Stamattina avevo deciso di non andare al lavoro, ma verso le dieci bussano alla porta: era il postino con una lettera. Mancava il mittente, la apro e dentro c'era un foglio che diceva: se vuoi il tuo gatto vieni stanotte all'una sul Ponte Vecchio con cinquecento denari, DA SOLO, o la bestia farà una brutta fine. Dentro anche un ciuffetto di peli arancioni.
Ci sono andato al Ponte, però non ce li avevo tutti quei soldi, non ce li ho proprio! Vabbè, arrivato lì mi sono messo ad aspettare. Passano due tre ore e niente, poi ha cominciato a piovere che il Signore la mandava, ho continuato ad aspettare sotto l'acqua per tutta la notte ma non si è visto nessuno. Con le prime luci sono tornato a casa.

Ho ripreso il lavoro.
Mentre mangiavo il mio panino a pranzo seduto su un tronco, è comparsa la prima elementare al completo con il Maestro. Erano tutti interessati all'impollinazione delle api, ed anche io un po' ascoltavo perché mi piacevano quei discorsi. Poi senza quasi che me ne accorgessi uno dei bimbi si è avvicinato a dove stavo, guardandomi appena mi ha detto di stare attento perché ce l'hanno con me, un secondo dopo il Maestro lo ha richiamato. Non ho capito bene cosa volesse dire, sarà stato uno scherzo.
Terminato di lavorare sono finalmente andato dal Dottore. Mi ha messo sul lettino e ha iniziato a toccarmi la schiena chiedendomi se sentivo dolore... ne sentivo eccome! Dice che tra un paio di giorni andiamo in città per fare dei raggi all'ospedale. Sono contento!, la città è bellissima, ci andrei a vivere se non avessi la casetta di papà.

Domenica.
Al mattino messa. Il Prete parlava che non stavo tanto attento, per poco dormivo. Nel pomeriggio ho fatto una passeggiata nel bosco, adoro camminare sotto le fronde degli alberi che fanno passare i raggi del sole. Magari incontro Gogol, ho sperato. Sono arrivato al Laghetto delle Oche, ci venivo spesso con mio papà. Sotto il sole caldo mi sono addormentato sopra una roccia piatta, devo anche aver sognato, ma non ricordo cosa, spero cose belle.
Alla sera poco appetito, letto presto.

Festa in paese.
Quanta gente c'era! Sono venuti anche da fuori, molti non li conoscevo, molti altri sì. Ad un certo punto sono cominciate le danze, ed io mi sono messo tranquillo a guardare la gente che ballava perché non sono molto bravo in effetti. Però mi sento toccare la spalla, mi giro e vedo la mano tesa di una donna verso di me, era la moglie del Sindaco. Io c'ho provato a dirle che era meglio di no che le avrei pestato i piedi, ma lei niente, mi ha portato in mezzo sussurrandomi di chiudere gli occhi. E così ho fatto, con tanta paura mi sono lasciato guidare dalla Signora, che buon profumo aveva! Oh, avrei voluto ballare all'infinito perché mica le sentivo le altre persone intorno, nono, ero leggero, quasi volavo. Quando la musica è finita ho riaperto e gli occhi e di fronte a me c'era immobile il bambino dell'altro giorno, gli ho sorriso, non mi ha risposto.
Felice com'ero sono tornato verso casa come danzando, però poi è successa una cosa bruttissima. Sul muro della mia casetta era apparsa una scritta in rosso: UCCIDEREMO GOGOL. Mi sono pietrificato dallo spavento. Domani in città comprerò una latta di pittura.

Il Dottore mi ha offerto un gelato dopo l'ospedale. Dice che i risultati dei raggi glieli danno fra una settimana nemmeno, dice che non devo essere preoccupato, e infatti non lo sono! Durante la visita mi sono un po' vergognato perché ero a dorso nudo e c'era un'infermiera bionda con degli occhi azzurrissimi che metteva a posto delle cose, evitavo il suo sguardo ma non so perché. Dopo un giro per la Via Centrale ho chiesto al Dottore di portarmi dove vendono la pittura, mi ha fatto tante domande e io gli ho detto tante bugie. Papà non sarebbe contento.

Dolori fortissimi anche alla pancia.
Appena in tempo di riverniciare la parete che ho iniziato a vomitare sangue. Mi gira sempre la testa e sto bene solo con gli occhi chiusi. Per far passare il male penso a quando trovai Gogol sul ciglio della strada sotto il diluvio. Era un batuffolo arancione che tremava tutto, io ho chiesto al babbo se potevo tenerlo e lui mi aveva risposto solo se promettevo di volergli bene. Io mantengo sempre le promesse. La stessa sera ricordo che mi addormentai al suo fianco, e sentendo il suo cuoricino battere piano mi sentivo felice. Domani vado dal Dottore che sto male, spero di non disturbarlo.

Oggi è il secondo giorno più brutto della mia vita.
Sono uscito poco prima di pranzo che mi sentivo meglio, per sicurezza sono voluto andarci comunque dal Dottore, ma sulla porta c'era un cartello che diceva che stava via tutto il giorno per lavoro. Poco male, penso, il dolore è passato abbastanza.
Contento per un sole caldo sebbene l'inverno fosse alle porte, mi sono incamminato a casa. A 50 metri dalla porta ho visto chiaramente una macchietta rossa accucciata sui gradini. Era Gogol, era lui, si metteva sempre lì quando mi aspettava! Così ho aumentato il passo, e correvo e lo chiamavo, però a neanche un metro se ne stava fermo. Poi ho visto. Era tutto insanguinato, la coda mozzata, il pelo bruciacchiato, una zampetta da cui spuntava l'osso nudo, dalla bocca usciva fuori una bolla quando respirava. Ho capito che stava morendo perché me lo ha detto con lo sguardo. L'ho accarezzato per l'ultima volta sotto il muso che gli piaceva tanto, poi ha chiuso gli occhi.
Non sono riuscito a dormire niente, pianto tutta la notte di fila, non sentivo neanche il male alla pancia, no. Ho seppellito Gogol sotto il castagno dove riposava sempre, quando sto meglio faccio una croce con un ciliegio che è bello resistente.

Penso sempre a Gogol. Penso al male che deve aver sentito poverino, il mio dev'essere nulla a confronto. Io sono alto e grosso, lui era così piccolo, così piccolo...

Oggi il Dottore è venuto con i risultati. È entrato piangendo. Gli ho chiesto se anche a lui era morto il gatto, mi ha risposto che piangeva per me. Dice che ho un tumore come aveva papà, lo stesso uguale! Dice che se vado in una clinica possono diminuirmi il dolore, che mi dà un mano lui che c'ha degli amici lì e mi tratterebbero come un re. Io ho promesso che ci avrei pensato, ma mi sa che stavolta non manterrò la promessa. Non posso mica lasciare la casa vuota io, e poi devo fare la croce col ciliegio. Ho ringraziato il Dottore che mi ha abbracciato, l'ho visto andare via lungo il viale e poi sparire dietro la curva. Sono rimasto un po' sull'uscio. Ormai è inverno, e il sole sembra più pallido attraverso i rami spogli. Inizia a far freddo e ho poca legna per la stufa. Spero che basti.
Vorrei tanto che Gogol fosse qui adesso, mettete dei fiori sulla sua tomba qualche volta.

martedì 7 settembre 2010

Los muertos

Entriamo timidamente nella stanza di Lisandro Alonso. Ad un primo sguardo la camera è spoglia, assolutamente essenziale. Ci sono alcune piante e un sottofondo imprecisato di animali, più in là c’è un fiume giallognolo che scorre lento.
Concettualmente Los muertos (2004) riprende e supera l’opera prima La libertad (2001) poiché sullo schermo si concretizza quell’espressione di libertà che nel film d’esordio era più che altro una chimera visto che il boscaiolo sebbene svincolato da qualsiasi legame era a sua volta imprigionato dal lavoro che svolgeva e dall’occhio di Alonso che non lo abbandonava un attimo.
Qui, con la scarcerazione di Argentino Vargas, vediamo nei fatti ciò che può definirsi un uomo libero. E cosa fa quest’uomo per assaporare la ritrovata condizione? Le cose più semplici ma al contempo necessarie: comprarsi delle caramelle, andare con una prostituta, mangiare un gelato. Azioni riprese senza alcuna sottolineatura dal regista, praticamente in presa diretta, che rimarcano la tendenza di Alonso a sconfinare nel documentaristico, un genere che comunque in Los muertos viene sorpassato dalla fiction grazie alla presenza di un esile storia di fondo.

E la storia mostra in soldoni Vargas muoversi alla ricerca della propria moglie che non vede da molti anni. La vicenda prende una piega diversa quando l’uomo si mette sulla canoa che un compagno di prigione gli aveva fatto preparare, e inizia a discendere il fiume. Lunghi piani sequenza di rara bellezza naturalistica immortalano le remate di Vargas sulla placida superficie dell’acqua. Non c’è musica, non c’è dialogo, non c’è poesia, non accade niente, eppure ha un fascino magnetico, pressoché inspiegabile, o forse spiegabilissimo nel mistero primordiale degli alberi, del vento che li muove accarezzandoli, dell’erba che nasconde enigmatiche presenze.
Già, perché considerando il titolo, un’ombra pesante ci viene mostrata nell’ottimo incipit: due corpi senza vita sul fondo della foresta. Ipotizzabili come la causa che ha portato Vargas in prigione, sono due fantasmi il cui riverbero si affaccia durante l’uccisione della capretta (sarebbe piaciuta molto a gente come Deodato o Lenzi) attraverso cui si può evincere la freddezza con la quale il protagonista sa trattare la morte, anche se sono personalmente combattuto da un’altra interpretazione che potrebbe vedere lo scotennamento dell’animale come un evento inserito nell’ordinarietà di un ambiente carico di morte (la foresta) nel quale comunque sussiste la vita.
L’inquadratura fissa sul pupazzetto di plastica con affianco una specie di ruota gettata a terra è la chiosa finale attraverso cui si potrebbe rintracciare il senso dell’opera: uomini immobili (forse morti) in un ambiente impassibile (le galline che indifferenti camminano affianco). Significazione, questa, puramente soggettiva.

La porta è stata aperta, siamo entrati e abbiamo dato uno sguardo. Nel diroccato condominio di Oltre il fondo ci sono state visioni più interessanti, ma il signor Alonso, a differenza della prima impressione, ha le carte in regola per stupire.

lunedì 6 settembre 2010

Daisy Diamond

Madre e figlia di quattro mesi. Sole e senza soldi. La piccola piange in continuazione, anche durante le audizioni della giovane mamma che non avranno mai esito positivo. E lei continua a piangere, poi smette. Per sempre.

Bum! Filmone.
Non so dove fosse stato fino ad oggi questo giovane regista danese ma ora che l’ho incontrato me lo tengo ben bene stretto. Potrò sbagliarmi, eppure ho visto nella regia di Simon Staho una padronanza tale del mezzo che mi ha trasmesso una sensazione di grande competenza. Come dire: sentivo che il cineasta sapeva quel che faceva. E questa è una cosa che riguarda i grandi, e lui potrebbe esserlo.
Grandi come i punti di riferimento del cinema scandinavo che è impossibile non menzionare. Difatti pare una tendenza più o meno consolidata di questi paesi dare grande risalto ad eroine femminili tra il sacro ed il profano. Non mi riferisco solo alle Grace di Lars von Trier – a proposito, questo film è prodotto dalla Zentropa – ma anche al primigenio La passione di Giovanna d’Arco (1928). E Staho sembra omaggiare Dreyer in lungo e in largo perché costella la pellicola di intensi primi piani sul viso di Noomi Rapace, attrice capace di disintegrare lo schermo solo che con gli occhi.

L’incipit che apre il film è da manuale, e sebbene non originalissimo, c’è chi cita Lynch, solleva il sipario su una storia spietata che ha la meravigliosa capacità di far riflettere mentre riflette su se stessa.
Ci sono due vie parallele percorribili: la prima è quella che vede Anna alle prese con i problemi che una ragazza madre prova a superare. Più o meno tutto ruota come sempre intorno alla mancanza di soldi per riuscire tirare avanti, si noti che alla fine Anna viene umiliata da Jens Albinus (Idioti, 1998) che le riempie la bocca di denaro, e così assistiamo a continui provini in cui sebbene Anna sia bravissima viene respinta per motivi futili tipo la dizione imperfetta, il fatto che non abbia una formazione specifica, o per il seno troppo piccolo. Surplus negativo è la piccola Daisy che con il suo pianto incessante, la piccola ha fame ma la madre non ha latte nel seno e da qui sorge un ulteriore senso di inettitudine, porta all’esaurimento la mamma ed anche lo spettatore perché vi assicuro che gli strilli della piccola urtano davvero i nervi; da ciò scaturisce una forte empatia con la protagonista che lascerà sconcertati (oppure no?) per il suo gesto estremo. Le musiche che accompagnano l’affogamento, le prime che si sentono, suonano a beffarda liberazione di un peso. Cosa che non accadrà visto che il senso di colpa perseguiterà sottoforma di una Daisy adulta (“Io ero speciale. Hai mai pensato a questo?”) la giovane mamma la cui vita collassa inevitabilmente in un processo di autodistruzione senza ritorno. Un martirio fatto di sottomissione, freddezza, lontananza, alienazione.

La seconda via parallela che completa un piatto già molto ricco è quella che riguarda i segmenti in cui Anna recita durante le audizioni. Non si tratta di semplici riempitivi poiché il suo dramma si intreccia con il set cinematografico che diventa il limbo nel quale realtà e finzione si (con)fondono senza possibilità di distinzione. È per questo che è stato tirato in ballo Lynch, ed è sempre per questo che l’opera è in grado di far pensare compiendo una sapiente autoriflessione. Metacinema dicono gli esperti, capacità di ragionare su di sé spiegando e spiegandosi.
Accade questo: i fatti che stravolgono la vita di Anna trovano sempre un corrispettivo incastro nelle sceneggiature delle audizioni per cui molto di ciò che è accaduto ci viene suggerito nelle ambigue pieghe della finzione depositando domande su domande.
Come appare, dunque, il cinema agli occhi dello spettatore? Un àncora di salvataggio nella disastrata esistenza di Anna? Una via di fuga? No. Niente di tutto questo. Il mondo della finzione segue di pari passo quello della realtà, per cui anche qui ci sono individui meschini come la regista lesbica o il regista che vuole farsi Anna promettendole raccomandazioni. È una visione negativa, sicuramente spoglia di sentimenti che sono il mastice dell’arte. Anzi, il sentimento c’è, ed è quello della protagonista, ma Staho è più spietato del boss Trier e in un orizzonte di ghiaccio anche la tremula fiammella di Anna si spegne presto, probabilmente da subito.

Pietra tombale sul finale dove le due vie parallele arrivano a sfiorarsi. Il cinema ripercorre la vita (la morte?) di Anna, e la morte (la vita?) di Anna diventa cinema.

venerdì 3 settembre 2010

Goodbye, Dragon Inn

Fuori diluvia (è un film di Tsai), e dentro al piccolo cinema che sta per chiudere i battenti alcune persone assistono alla visione di Dragon Inn (1967), chambara-movie diretto da King Hu, autore anche de Le implacabili lame di Rondine d’Oro (1966). Nel frattempo la cassiera zoppa si aggira nel labirintico retro del cinema cercando il solito Lee Kang-sheng nelle vesti di proiezionista solitario (d’altronde, è un film di Tsai).

È un film di Tsai, vero, ma ad una prima visione potrebbe essere annoverata nel catalogo delle opere minori per il set imprigionato dentro ad una sala cinematografica, per i temi toccati all’apparenza meno universali del solito, per la durata di ottanta minuti scarsi, e per l’andatura dilatata all’inverosimile, che già il regista nato a Kuching ci aveva abituato ad opere al rallentatore, quindi potete immaginarvi che cosa sia questa pellicola (no, probabilmente non riuscirete ad immaginarvelo).
Tutto ciò ad una lettura distratta, lettura ampiamente comprensibile vista l’attenzione certosina che il film richiede; ad un’analisi più mirata scevra dalla noia offuscatrice, si comprende invece di quanto Goodbye, Dragon Inn sia visceralmente tsaiano: in tutti i non-movimenti della camera, nel silenzio violentato da rumori lontani, e soprattutto nella trasposizione malinconica delle ombre umane rappresentate. Nulla ci viene detto su di loro, perché probabilmente non c’è nulla da sapere. A parte che sono soli e tentano di non esserlo restando vicini più del dovuto nei cessi a muro.
Ciò che al massimo ci viene suggerito è il tarlo che siano dei fantasmi, e i lucciconi di uno di essi di fronte alle scene conclusive del vecchio film ne confuterebbero l’ipotesi. Ma non un fantasma qualsiasi, bensì il fantasma di un attore, un fantasma del cinema.

È qui che il film di Tsai si spiega su di sé. Il regista non è nuovo all’idea di un cinema pensante, già con Il fiume (1997) aveva introdotto l’elemento auto-referente nell’opera, poi con Che ora è laggiù? (2001) aveva utilizzato “il film nel film” come strumento in grado di ridurre le distanze umane. Con Bu san la metariflessione si espande oltremodo, e immediatamente si pone un interrogativo: potrà mai il pensiero di Ming-liang aprire crepe di speranza sul mondo di celluloide alla luce di una filmografia pessimistica come poche altre? Neanche da domandarselo: ovviamente no. Il progressivo svuotamento della sala è una dubbiosa metafora sul futuro della settima arte. Quando l’ultimo spettatore va via, l’inquadratura resta inchiodata sulla platea deserta, file e file di seggiolini vuoti che desolatamente si susseguono. È un’istantanea glaciale che arriva dopo la fine della pellicola ma che ha la stessa efficacia, se non maggiore, del pianto catartico di Vive l’amour (1994).

Poi la saracinesca si abbassa per sempre. Resta una pioggia biblica (ma è un film di Tsai!), e una nostalgica canzone degli anni ’60 che parla di sole e fiori. Cose lontanissime dalla Taipei dell’autore.
Estremo, nella sua forma veramente estremo, nel suo senso, invece, profondissimo (tanto ormai lo sapete chi è il regista).

giovedì 2 settembre 2010

Say do you remember dancing in september

Credo in poche cose, ma in settembre ci credo. Sempre, ogni cazzo di anno.
Credo nelle sue piogge, nelle nuvole del settentrione, nell’aria fredda della notte, nel vento secco del giorno, nel sole ancora caldo, però diverso (sembra più stanco!), di quello estivo.
Settembre riattiva gli ingranaggi dei libri come degli uffici, e della vita, credo. Perché ormai dell’estate, anzi, all’estate non c’è da fare affidamento. Tutto quello che volete, il mare le vacanze e via dicendo, però è fasulla, è un trip che disattende puntualmente le aspettative createsi durante l’inverno.
Non so voi, ma sono anni che la triade giugno-luglio-agosto mi fagocita in una routine anestetizzante: svegliatardimareseraescisvegliatardimareseraescisvegliatardimareseraesci.
No, non aspetto impaziente il freddo, né invoco le corte e deprimenti giornate di un inutile febbraio, voglio solo ricominciare, ripartire, alzarmi presto per seguire delle noiose lezioni, per andare a lavorare quando il Creatore me ne dà la possibilità, e settembre mi ci fa credere sempre, ogni volta.
Che poi a parte il clima non cambi sostanzialmente nulla è un altro discorso, ma lasciatemi sperare un pochetto per favore.

mercoledì 1 settembre 2010

The Human Contract

Julian (Jason Clarke) è un brillante manager in carriera che non riesce ad ottenere gli stessi risultati nella vita privata. Problemi con la moglie sulla via del divorzio, vizietto di alzare le mani quando sarebbe meglio tenerle in tasca. Poi incontra Michael che a dispetto d’un nome maschile è una donna che trasuda sensualità da ogni follicolo pilifero (ci credo, è Paz Vega!), e la sua vita cambia.

Insipido drammone del 2008 che vede per la prima volta alla regia Jada Pinkett Smith, cantante e già attrice americana, moglie della superstar Will Smith con il quale recitò in Alì (2001).
Insipido si diceva, già. Storiella bolsa, patinata fin dal dialogo d’apertura che sembra (giuro!) lo spot di un nuovo alcolico per aperitivi. In successione viene mostrata la lontananza che intercorre fra il binario lavorativo di Julian, e quello della sua sfera personale. Un divario netto ma banale, di una scontatezza che fa sbuffare dove viene posto il classico paletto dell’infanzia difficile come origine del complicato presente. Poco, troppo poco per non evitare l’auto-afflosciamento.

Nemmeno la liaison con quella meraviglia del creato che risponde al nome di Paz Vega (ammiratela in Lucía y el sexo e poi venitemi a dire) conferisce una direzione convincente alla pellicola. Soprassedendo sulla pronuncia inglese della spagnola che è ancora tutta da affinare (ma a lei perdonerei qualunque cosa), si resta un po’ interdetti di fronte ad una figura femminile dall’indefinito spessore. Chi è Michael? Una coscienza, diciamo specchio per far riflettere l’inquieto Julian? Potrebbe. È però deprecabile il suo comportamento in date situazioni; non per dire ma l’accalappiamento di Julian sulla limousine con a bordo un’amica perizomata suona oltremodo ridicolo, sia per le porno moine della Vega che si passa la lingua sulle labbra mentre filma il quadretto erotico, sia per l’amica voyeur che si gusta Julian impegnarsi da ehm… dietro con Michael, e infine perché la bella Paz non si dimostrerà una tale mangia uomini o assetata di sesso, ma alle volte sensibile amante ed altre incomprensibile gatta sfuggente. Ripeto: un personaggio poco chiaro il cui ruolo nel film è molto nebuloso.

Anche il partner non ha goduto della mia stima. Julian è l’ennesima riproposizione stereotipata dell’agiato uomo contemporaneo che pur avendo tutto non riesce ad essere felice. Il problema non sta nel COSA, perché anche l’argomento più usurato può sempre sorprendere, ma nel COME, perché in un’epoca in cui tutto è ormai stato raccontato, i modi si impongono sui contenuti, e nel caso di The Human Contract stare a vedere quel che un manesco bellimbusto combina sa di perdita di tempo poiché già visto con più soddisfazione in altri ambiti.
Alcune scenette con Julian protagonista sono imbarazzanti; oltre alle già citate effusioni sulla limo, il mio dito va a puntarsi dritto come quello di Nelson con relativa risatina di scherno all’immotivata scenata di gelosia scaturita dal bacio fra Michael e marito. Ad un passo dal trash, in conclusione, il ceffone che il protagonista molla alla sua amante che si rovescia all’indietro sul tavolino di cristallo neanche fosse stata investita da un destro di Tyson.

Ma poi, dico io, può uno avere dei problemi se al mattino si risveglia nell’attico di Los Angeles fra lenzuola di seta con affianco Paz Vega mezza nuda mentre l’alba sta sorgendo sull’orizzonte? No dico, si può?