Cosa lascia dunque Kinetta, pellicola greca del 2005 firmata da Yorgos, o Giorgos a vostro piacere, Lanthimos? Al di là della noia, compagna spesso presente durante le visioni di questo calibro, e al di là della curiosità che precede sempre, per poi scemare successivamente, in tutta sincerità poco, se non niente.
Siamo di fronte ad un chiaro esercizio stilistico che pone un ragionamento su se stesso fin dal titolo. Kinetta è infatti una camera digitale messa in commercio nel 2004 (ma è anche il nome di un hotel ad Attica e potrebbe non essere un caso), ed è possibile che il film sia stato girato proprio con questo mezzo. Mettendo così in evidenza il metodo attraverso cui si è giunti al risultato, un po’ come se un libro venisse chiamato Tastiera o Biro, è intuibile l’importanza che il regista dà alle tempere con le quali realizza il suo quadro piuttosto che il soggetto ritratto. E l’opera – di non-arte – ha delle affinità estetiche, e forse anche etiche, con il Trier più dogmatico. Da una parte le riprese francobollano gli attori secondo un principio caotico per cui la resa visiva si fa a volte estremamente concitata per poi dilatarsi repentinamente, dall’altra filtra un senso di compiacenza premeditata che sembra gridare “io so cosa sto dicendo” anche se allo spettatore rischia di interessare poco tale discorso, qualunque esso sia.
Ovviamente chi esce inesorabilmente sconfitta è la narrazione, totalmente assente o se volete presente sottoforma di pedanti e pesanti frammenti nei quali, tra l’altro, si innesta un sottile, ma neanche troppo, suggerimento sulla finzione nel e del cinema, sulle divergenze fra la vita reale e quella davanti alla mdp, ed anche sulle convergenze tra le due dimensioni, perché sinceramente ho ravvisato vuoti incolmabili sia nell’esigua esistenza dei tre protagonisti, che nelle frigide scenette drammatiche da loro riprodotte nelle quali la gestualità eccessivamente ostentata unita ad un voluto didascalismo e al piacere tutto proprio di fare ‘ste cose li rendono terribilmente ridicoli, cosiccome è appunto la loro vita. Probabilmente questo è l’unico piano di lettura soddisfacente i miei gusti, tutto il resto mi è pesato da morire.
Qui vi segnalo un commento quasi opposto al mio di un entusiasta robydick; il bello del cinema e di intenderlo è anche come il mio collega blogger giustamente dice:
Siamo di fronte ad un chiaro esercizio stilistico che pone un ragionamento su se stesso fin dal titolo. Kinetta è infatti una camera digitale messa in commercio nel 2004 (ma è anche il nome di un hotel ad Attica e potrebbe non essere un caso), ed è possibile che il film sia stato girato proprio con questo mezzo. Mettendo così in evidenza il metodo attraverso cui si è giunti al risultato, un po’ come se un libro venisse chiamato Tastiera o Biro, è intuibile l’importanza che il regista dà alle tempere con le quali realizza il suo quadro piuttosto che il soggetto ritratto. E l’opera – di non-arte – ha delle affinità estetiche, e forse anche etiche, con il Trier più dogmatico. Da una parte le riprese francobollano gli attori secondo un principio caotico per cui la resa visiva si fa a volte estremamente concitata per poi dilatarsi repentinamente, dall’altra filtra un senso di compiacenza premeditata che sembra gridare “io so cosa sto dicendo” anche se allo spettatore rischia di interessare poco tale discorso, qualunque esso sia.
Ovviamente chi esce inesorabilmente sconfitta è la narrazione, totalmente assente o se volete presente sottoforma di pedanti e pesanti frammenti nei quali, tra l’altro, si innesta un sottile, ma neanche troppo, suggerimento sulla finzione nel e del cinema, sulle divergenze fra la vita reale e quella davanti alla mdp, ed anche sulle convergenze tra le due dimensioni, perché sinceramente ho ravvisato vuoti incolmabili sia nell’esigua esistenza dei tre protagonisti, che nelle frigide scenette drammatiche da loro riprodotte nelle quali la gestualità eccessivamente ostentata unita ad un voluto didascalismo e al piacere tutto proprio di fare ‘ste cose li rendono terribilmente ridicoli, cosiccome è appunto la loro vita. Probabilmente questo è l’unico piano di lettura soddisfacente i miei gusti, tutto il resto mi è pesato da morire.
Qui vi segnalo un commento quasi opposto al mio di un entusiasta robydick; il bello del cinema e di intenderlo è anche come il mio collega blogger giustamente dice:
è possibile un coinvolgimento più personale se nei fatti si ritrova qualcosa della propria esperienza; si "possono" tante cose così come si può, com’è capitato a me con questo film, entrare fisicamente nella storia, vivere un’esperienza di Cinema intensa, anche corporalmente.
Io non ho provato niente di tutto questo guardando Kinetta, non mi ha lasciato nulla. Adesso la palla passa a voi.
Dogtooth (2009) è ben più alt(r)a roba.
scrivi davvero bellissime recensioni..sei bravissimo amico carissimo..
RispondiEliminati rendo l'onore delle armi per essere riuscito a vederlo! :D
RispondiEliminadogtooth per me è un capolavoro. ma questo mi sembra una visione alquanto pesantuccia...
RispondiEliminaLascia stare i superlativi assoluti brazzz :), io non riesco a chiamarle nemmeno recensioni, al massimo impressioni.
RispondiEliminaGrazie roby, è stata dura arrivare alla fine.
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
RispondiEliminaè cmq un film interessante, originale sicuramente troppo personale, esercizio di stile e autocompiaciuto.......
EliminaHo sempre pensato che il Nostro porti il suo cinema a un livello molto profondo dove il senso delle parole governa il mondo, il pensiero, lo status quo delle persone.
In Kinetta sono il motore dell'azione (senza una volonta precisa infatti sembrano moversi in scene quasi ridicole) cosi come in Kynodontas addirittura le parole cambiano di significato creando un mondo a parte.