Bisogna subito accettare un compromesso nell’opera prima di Tarsem che nel 2000 si firmava ancora con il cognome, Singh: che degli uomini attraverso un macchinario avveneristico siano in grado di entrare nella mente di altri uomini. Accettata la presenza di questo espediente che per un cinefilo poco mainstreamer potrebbe rappresentare un discreto scoglio, The Cell si mostra come un’opera spaccata a metà.
Su un piatto della bilancia abbiamo un’impostazione crime derivativa a schifo con una struttura speculare a molti altri suoi simili (il film a cui ricondurre ogni paragone resta comunque Seven, 1995) nella quale si muovono personaggi-stereotipo: detective in carriera con la classica spalla/aiutante relegata in secondo piano, una figura esterna in grado di sbrogliare l’indagine (in questo caso Jennifer Lopez), e il killer seriale col pallino di sbiancare le sue vittime, e dunque nemico non solo dei “buoni” ma anche dell’arcobalenico Tarsem. Su di lui, soprattutto, si concentrano ahimè una sfilza di usurate ripetizioni. Il modus operandi costituito dall’adescamento + rapimento, l’ossessione verso un preciso di target di ragazze, l’alcova segreta - ma anche no - nel quale torturarle, e la consumata eziologia del disturbo da rintracciarsi nella solita infanzia difficile a causa di genitori che bla e bla e ancora bla. Da ciò ne deriva che l’assassino, a proposito è Vincent “palla di lardo” D’Onofrio, ha una serie di turbe che culminano con delle prese sottocutanee nella schiena (ma perché?) che lo agganciano a delle corde come le torture della Yakuza di Ichi the Killer (2001). Insomma, se il film si fermasse qua si tratterebbe di un prodotto già vecchio al tempo della sua uscita.
Sull’altro piatto della bilancia c’è però tutto il talento visivo di Tarsem, che filma, pardon, dipinge nella dimensione mentale dei protagonisti quadri di elevata beltà estetica. Già l’incipit, verrà ripreso con vigore in The Fall (2006), che vede la zona desertica del Sossusvlei (Namibia) in primo piano, attira su di sé quell’attenzione che si riproporrà solo quando farà capolino il mondo onirico dei personaggi in gioco. Le ricostruzioni delle personalità traslate in luoghi fisici convincono per l’impatto estetico che offrono, il più delle cose sono pressoché inutili nell’economia generale della pellicola, tuttavia si fanno ammirare con piacere. Per dire: della scena col cavallo affettato nessuno sentiva la necessità, ciononostante sono sicuro che mi resterà nella mente più d’ogni altro segmento. Si avverte una spettacolarità fine a se stessa dovuta alla formazione pubblicitaria/videoclippara del regista nato nel Punjab, parimenti è tangibile la commistione fra spirito e corpo (d’altronde si tratta qui di un passaggio materia-spirito) ben radicata nella cultura indiana. Se prendete a caso un film di Deepa Mehta, lontana ovviamente da questo tipo di cinema, si potrà notare un’eguale energia vitale che scuote (e si ripercuote) il (e dentro il) film.
Ordunque, la bilancia a mio modo di vedere alla fine resta in pari perché gli aspetti discendenti sono compensati dall’immaginifico taglio stilistico dove la Lopez, probabilmente non proprio l’attrice per antonomasia, si ritaglia il suo posto dentro la cornice.
Tarsem insieme a Spike Jonze, Michel Gondry e Charlie Kaufmann rappresenta la faccia più estrosa della multiculturalità americana. Avercene qui da noi.
Su un piatto della bilancia abbiamo un’impostazione crime derivativa a schifo con una struttura speculare a molti altri suoi simili (il film a cui ricondurre ogni paragone resta comunque Seven, 1995) nella quale si muovono personaggi-stereotipo: detective in carriera con la classica spalla/aiutante relegata in secondo piano, una figura esterna in grado di sbrogliare l’indagine (in questo caso Jennifer Lopez), e il killer seriale col pallino di sbiancare le sue vittime, e dunque nemico non solo dei “buoni” ma anche dell’arcobalenico Tarsem. Su di lui, soprattutto, si concentrano ahimè una sfilza di usurate ripetizioni. Il modus operandi costituito dall’adescamento + rapimento, l’ossessione verso un preciso di target di ragazze, l’alcova segreta - ma anche no - nel quale torturarle, e la consumata eziologia del disturbo da rintracciarsi nella solita infanzia difficile a causa di genitori che bla e bla e ancora bla. Da ciò ne deriva che l’assassino, a proposito è Vincent “palla di lardo” D’Onofrio, ha una serie di turbe che culminano con delle prese sottocutanee nella schiena (ma perché?) che lo agganciano a delle corde come le torture della Yakuza di Ichi the Killer (2001). Insomma, se il film si fermasse qua si tratterebbe di un prodotto già vecchio al tempo della sua uscita.
Sull’altro piatto della bilancia c’è però tutto il talento visivo di Tarsem, che filma, pardon, dipinge nella dimensione mentale dei protagonisti quadri di elevata beltà estetica. Già l’incipit, verrà ripreso con vigore in The Fall (2006), che vede la zona desertica del Sossusvlei (Namibia) in primo piano, attira su di sé quell’attenzione che si riproporrà solo quando farà capolino il mondo onirico dei personaggi in gioco. Le ricostruzioni delle personalità traslate in luoghi fisici convincono per l’impatto estetico che offrono, il più delle cose sono pressoché inutili nell’economia generale della pellicola, tuttavia si fanno ammirare con piacere. Per dire: della scena col cavallo affettato nessuno sentiva la necessità, ciononostante sono sicuro che mi resterà nella mente più d’ogni altro segmento. Si avverte una spettacolarità fine a se stessa dovuta alla formazione pubblicitaria/videoclippara del regista nato nel Punjab, parimenti è tangibile la commistione fra spirito e corpo (d’altronde si tratta qui di un passaggio materia-spirito) ben radicata nella cultura indiana. Se prendete a caso un film di Deepa Mehta, lontana ovviamente da questo tipo di cinema, si potrà notare un’eguale energia vitale che scuote (e si ripercuote) il (e dentro il) film.
Ordunque, la bilancia a mio modo di vedere alla fine resta in pari perché gli aspetti discendenti sono compensati dall’immaginifico taglio stilistico dove la Lopez, probabilmente non proprio l’attrice per antonomasia, si ritaglia il suo posto dentro la cornice.
Tarsem insieme a Spike Jonze, Michel Gondry e Charlie Kaufmann rappresenta la faccia più estrosa della multiculturalità americana. Avercene qui da noi.
a me questo film piace, nonostante la critica l'abbia stroncato concordo con la tua recensione :)
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