È la biopic che non vuole esserlo tratta dalla vita di Mark “Chopper” Read, criminale numero 1 in Australia, un tempo sadico assassino e ora scrittore di successo (il film è tratto dalla sua autobiografia) impegnato nel sociale.
Verso la fine Chopper, di fronte alla telecamera dell’emittente televisiva che lo sta intervistando, chiede a gran voce di essere ripreso, di venire inquadrato. Sarà così per tutta la durata del film.
Il centro visivo è indubbiamente tutto per questo spassoso e tatuato omaccione matto come un cavallo. C’è di più, però, perché anche la cornice che lo attornia è egualmente spassosa nonché ottimamente designata, caricaturizzata, certo, con quelle personalità alla Tarantino, ma proprio per questo invece di scadere nel macchiettismo tali caricature vengono accettate dallo spettatore come persone e non come personaggi, che c’è sempre una corposa differenza.
Ma parliamo di Chopper, e quindi della sostanza del film.
È ovviamente il fulcro narrativo dell’opera poiché tutto ruota intorno e contro di lui. Seppur con qualche sfilacciamento che disperde l’intrigo progettato alle sue spalle fin dai tempi della prigione, seguire le gesta di questo assassino è, lasciatamelo dire, dannatamente divertente.
L’aura da “maledetto”, il senso di vivere al limite, sul filo della droga o sulla scia di una pallottola, contribuiscono a fare di Chopper un “animale umano” che tutti vorremmo tenere in casa (o nel giardino?). Un aspetto su cui per me c’è da riflettere è che un uomo che uccide senza motivo o per motivi futili, che assume droghe (falso, pare che il vero Chopper non ne abbia mai fatto uso) e che picchia una donna come se fosse un pungiball, si fa, tra virgolette, voler bene, si fa il tifo per lui!
Certo, c’è in questi casi la mano di chi FA il film che veicola attraverso il suo modo il senso dell’opera e dei suoi personaggi, però giusto per dire, nella realtà Mark Read è diventato una star: scrittore, cantante, conduttore, e chissà che altro. Insomma, la predisposizione verso ciò che è illecito sembra attirare sempre, che si tratti di finzione o meno.
A ciò non voglio togliere assolutissimamente nulla all’interpretazione di Eric Bana che è grandiosa in ogni frangente. Una performance trasformista degna di Christian Bale.
E a proposito di regista, spendo due parole su Andrew Dominik (non ho visto L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford, 2007).
Bene bravo mi è piaciuto molto. Dalla prigione straniante con i suoi muri azzurrini ai colori sbiaditi della piccola cittadina. Deliziose sequenze in forward – strabella l’immagine del turco morto a terra con la polizia sullo sfondo –, dialoghi calzanti e credibili nel contesto, gusto fotografico per gli ambienti interni – la casa di Chopper dà una sensazione di focolare mentre quella di Jimmy, filtrata smeraldo, di alienazione –. E poi un bel po’ di pallottole con relativo sangue, fuck yeah!
Per me è ok.
Verso la fine Chopper, di fronte alla telecamera dell’emittente televisiva che lo sta intervistando, chiede a gran voce di essere ripreso, di venire inquadrato. Sarà così per tutta la durata del film.
Il centro visivo è indubbiamente tutto per questo spassoso e tatuato omaccione matto come un cavallo. C’è di più, però, perché anche la cornice che lo attornia è egualmente spassosa nonché ottimamente designata, caricaturizzata, certo, con quelle personalità alla Tarantino, ma proprio per questo invece di scadere nel macchiettismo tali caricature vengono accettate dallo spettatore come persone e non come personaggi, che c’è sempre una corposa differenza.
Ma parliamo di Chopper, e quindi della sostanza del film.
È ovviamente il fulcro narrativo dell’opera poiché tutto ruota intorno e contro di lui. Seppur con qualche sfilacciamento che disperde l’intrigo progettato alle sue spalle fin dai tempi della prigione, seguire le gesta di questo assassino è, lasciatamelo dire, dannatamente divertente.
L’aura da “maledetto”, il senso di vivere al limite, sul filo della droga o sulla scia di una pallottola, contribuiscono a fare di Chopper un “animale umano” che tutti vorremmo tenere in casa (o nel giardino?). Un aspetto su cui per me c’è da riflettere è che un uomo che uccide senza motivo o per motivi futili, che assume droghe (falso, pare che il vero Chopper non ne abbia mai fatto uso) e che picchia una donna come se fosse un pungiball, si fa, tra virgolette, voler bene, si fa il tifo per lui!
Certo, c’è in questi casi la mano di chi FA il film che veicola attraverso il suo modo il senso dell’opera e dei suoi personaggi, però giusto per dire, nella realtà Mark Read è diventato una star: scrittore, cantante, conduttore, e chissà che altro. Insomma, la predisposizione verso ciò che è illecito sembra attirare sempre, che si tratti di finzione o meno.
A ciò non voglio togliere assolutissimamente nulla all’interpretazione di Eric Bana che è grandiosa in ogni frangente. Una performance trasformista degna di Christian Bale.
E a proposito di regista, spendo due parole su Andrew Dominik (non ho visto L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford, 2007).
Bene bravo mi è piaciuto molto. Dalla prigione straniante con i suoi muri azzurrini ai colori sbiaditi della piccola cittadina. Deliziose sequenze in forward – strabella l’immagine del turco morto a terra con la polizia sullo sfondo –, dialoghi calzanti e credibili nel contesto, gusto fotografico per gli ambienti interni – la casa di Chopper dà una sensazione di focolare mentre quella di Jimmy, filtrata smeraldo, di alienazione –. E poi un bel po’ di pallottole con relativo sangue, fuck yeah!
Per me è ok.
sembra proprio che me lo debba vedere!
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