Il cinema di Seidl è un cinema puntato dentro le persone.
Attraverso una pseudo coralità in cui vengono descritte le inutili esistenze di alcuni cittadini austriaci, egli rimanda ad una angosciosa pluralità che non è la somma dei tanti individui ripresi sullo schermo, bensì un unicum che ha specificità propria, quasi un’universalità che evade i confini geografici in cui è rappresentato; cosicché la solitudine dei viennesi di Canicola (2001) o di Animal Love (1996) diventava anche e soprattutto la nostra solitudine.
Questa estensione concettuale si deve principalmente ad “un effetto sorpresa”: Seidl racconta il lato nascosto di persone che potrebbero essere i nostri vicini di casa, i nostri zii o i nostri genitori. E quindi nel mostrare le loro condotte deplorevoli crea una potenziale mediazione con la realtà efficace come pochi altri registi riescono a fare.
Ebbene, in Models (1999) latita assolutamente questo effetto spiazzante. Se mi chiedessero di elencare così a naso gli aspetti negativi di una modella senza conoscerne una personalmente (ma va?) e generalizzando alla grande, direi senza troppe esitazioni che l’ipotetica modella in questione sarebbe una persona vuota, sottile, e non solo per le attente diete a cui sottopone il suo corpo, disamorata della vita, la sua, sfasciandosi magari di cocaina, e innamorata delle cose, dei vestiti, degli oggetti, in cui sono rintracciabili anche gli esseri umani che tratta come tali.
Immaginando che non tutte le modelle del mondo siano così, le quattro ritratte da Seidl lo sono. Ed è per questo che manca quella sorpresa, quell’andare a svelare laidi altarini coperti dall’apparente benessere socio-economico-culturale.
Viviane, Tanja, Lisa ed Elvyra (tutte attrici debuttanti) sono l’incarnazione di quello che il sapere comune pensa del mondo della moda. Ecco che pippano fino a farsi sanguinare il naso, ecco che si riempiono il corpo di silicone, ecco che vanno a ballare una sera sì e l’altra pure, ecco che sono più preoccupate dal che cosa mettersi per la sera piuttosto che allarmasi per un rapporto sessuale senza protezione, ecco che cambiano uomini come cambiano i loro vestiti.
Non c’è una profondità nella pellicola, non c’è un leggere dietro e oltre le righe. Quello che viene raccontato è un tutto già saputo, privo di urgenza. C’è, ma lo si sapeva già, anche nel ’99.
Poi c’è lo stile apatico di Seidl che comunque resta immutato e d’elevato fascino.
L’attrezzo cinepresa, che ad esempio in Jesus, You Know (2003) assumerà sembianze… divine, in questo film ha come una funzione riflettente, è uno specchio in cui le modelle si guardano. E allora diventa un cinema che non è più puntato dentro le persone ma su di esse, poiché forse sotto i vestiti che indossano, e sotto le cicatrici dei bisturi che segnano la loro pelle, non c’è niente di interessante da vedere, a parte del silicone ovviamente.
Models è la prova meno ficcante di questo autore, la visione è giustificata soltanto per una forma di completezza nei suoi confronti.
Attraverso una pseudo coralità in cui vengono descritte le inutili esistenze di alcuni cittadini austriaci, egli rimanda ad una angosciosa pluralità che non è la somma dei tanti individui ripresi sullo schermo, bensì un unicum che ha specificità propria, quasi un’universalità che evade i confini geografici in cui è rappresentato; cosicché la solitudine dei viennesi di Canicola (2001) o di Animal Love (1996) diventava anche e soprattutto la nostra solitudine.
Questa estensione concettuale si deve principalmente ad “un effetto sorpresa”: Seidl racconta il lato nascosto di persone che potrebbero essere i nostri vicini di casa, i nostri zii o i nostri genitori. E quindi nel mostrare le loro condotte deplorevoli crea una potenziale mediazione con la realtà efficace come pochi altri registi riescono a fare.
Ebbene, in Models (1999) latita assolutamente questo effetto spiazzante. Se mi chiedessero di elencare così a naso gli aspetti negativi di una modella senza conoscerne una personalmente (ma va?) e generalizzando alla grande, direi senza troppe esitazioni che l’ipotetica modella in questione sarebbe una persona vuota, sottile, e non solo per le attente diete a cui sottopone il suo corpo, disamorata della vita, la sua, sfasciandosi magari di cocaina, e innamorata delle cose, dei vestiti, degli oggetti, in cui sono rintracciabili anche gli esseri umani che tratta come tali.
Immaginando che non tutte le modelle del mondo siano così, le quattro ritratte da Seidl lo sono. Ed è per questo che manca quella sorpresa, quell’andare a svelare laidi altarini coperti dall’apparente benessere socio-economico-culturale.
Viviane, Tanja, Lisa ed Elvyra (tutte attrici debuttanti) sono l’incarnazione di quello che il sapere comune pensa del mondo della moda. Ecco che pippano fino a farsi sanguinare il naso, ecco che si riempiono il corpo di silicone, ecco che vanno a ballare una sera sì e l’altra pure, ecco che sono più preoccupate dal che cosa mettersi per la sera piuttosto che allarmasi per un rapporto sessuale senza protezione, ecco che cambiano uomini come cambiano i loro vestiti.
Non c’è una profondità nella pellicola, non c’è un leggere dietro e oltre le righe. Quello che viene raccontato è un tutto già saputo, privo di urgenza. C’è, ma lo si sapeva già, anche nel ’99.
Poi c’è lo stile apatico di Seidl che comunque resta immutato e d’elevato fascino.
L’attrezzo cinepresa, che ad esempio in Jesus, You Know (2003) assumerà sembianze… divine, in questo film ha come una funzione riflettente, è uno specchio in cui le modelle si guardano. E allora diventa un cinema che non è più puntato dentro le persone ma su di esse, poiché forse sotto i vestiti che indossano, e sotto le cicatrici dei bisturi che segnano la loro pelle, non c’è niente di interessante da vedere, a parte del silicone ovviamente.
Models è la prova meno ficcante di questo autore, la visione è giustificata soltanto per una forma di completezza nei suoi confronti.
Qui c’è uno scritto significativo su di lui.
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