sabato 26 febbraio 2011

Bad Boy Bubby

La delineazione della non-personalità di Bubby è quanto mai racchiusa negli ottimi 30 minuti iniziali in cui si è spettatori di un aberrante quadretto famigliare nel quale la giunonica madre dalle tette felliniane sottomette il figlio novello Kaspar Hauser in senso figurato e non – essa esercita un potere su di lui tramite il crocefisso che di fronte a tanta miseria è piccolo piccolo, ed allo stesso tempo nei rapporti incestuosi è sempre sopra sovrastandolo –, arrivando ad essere una presenza angosciante à la Bigas Luna che assoggetta totalmente Bubby al punto che egli non parla se non per ripetere le stesse parole che capta come se fosse un pappagallo. Il regista Rolf de Heer si presenta in questa mezz’ora come un piccolo Lanthimos di Dogtooth (2009), e inoltre fotografa allucinatamente l’appartamento riempiendo di assoluto silenzio la deformante educazione di Bubby.

Ma le cose belle qui iniziano e qui finiscono perché una volta che il protagonista fugge dalla casa-prigione il film crolla drasticamente in un discorso sterile. Dell’aria malsana nell’incipit non rimane niente (Wikipedia dice che durante la lavorazione si sono avvicendati 32 direttori della fotografia differenti!), anzi, visivamente la pellicola si assesta su territori strabattuti adagiandosi sulla banalità.
La scrittura della storia si svincola da qualunque struttura e mette Bubby in balia di alcune disavventure di una noia indicibile. A poco servono i costanti rimandi religiosi che appaiono ogni tanto come fantasmi, al pari dei tentativi sbilenchi di suscitare una pietà spettatoriale con le morti dei gattini, troppo facile così, o riprendendo persone diversamente abili, così è veramente troppo facile. Scontata poi la scelta di applicare l’usurato complesso edipico alla situazione rappresentata, in fondo che Bubby preferisca seni grandi a quelli piccoli non ci interessa granché.

L’australiano Rolf de Heer, autore eclettico e premiato nel corso degli anni in importanti kermesse, avrebbe dovuto troncare l’opera nel momento in cui il suo protagonista mette piede fuori dalla casa; l’ora abbondante che rimane si trasforma in una favoletta stile Disney con tanto di finale idilliaco a cui non basta qualche nudo e una spruzzata di blasfemia per risultare seriamente cattivo.

venerdì 25 febbraio 2011

Guilty Pleasure # 1


Pare che il singolo Something in the Water sia uscito in Nuova Zelanda nell’agosto 2010. Pare che sia arrivato in Europa solo adesso. Pare che Brooke Fraser sia una ragazza della porta accanto ma io di vicine così non ne ho mai avute. Pare che faccia canzonette del genere, già.

giovedì 24 febbraio 2011

La bouche de Jean-Pierre

Madre depressa ingolla tot pillole davanti alla figlioletta Mimi e viene ricoverata in ospedale. Gli zii decidono di prendersi cura della marmocchia, ma la bimba sembra attirare le attenzioni dello zio Jean-Pierre.

Lucile Hadžihalilović è un nome che vi dirà poco o nulla, e perciò sarà necessario che qualcosa ve la dica io: la Hadžihalilović è la moglie di Gaspar Noé; non solo, è anche sua collaboratrice praticamente da sempre avendogli prodotto quel gioiellino che è I Stand Alone (1998) e aiutandolo in fase di scrittura per alcuni dei suoi film tra cui il recente Enter the Void (2009).

La bouche de Jean-Pierre (1996) risale cronologicamente alle origini della produzione di queste due brillanti menti cinematografiche, ma si avverte già il tentativo di avvolgere un tema scabroso in un vestito autorialmente cucito.
Il film dura 50 minuti scarsi nei quali non ci allontaniamo praticamente mai dagli ambienti casalinghi. Ciò che è esterno filtra soltanto dalla tv (quale condanna per chi uccide un bambino?), dai giornali (la Turchia chiede di entrare nella comunità europea), dai vicini (la petizione contro l’inquilino arabo). L’atmosfera tesa in cui girovaga un certo malessere fa da contenitore al mondo-Mimi, una bambina senza cameretta che ha visto in diretta il quasi suicidio della madre.

La regista pecca nel voler “imboccare” lo spettatore per renderlo conscio del fatto che Jean-Pierre è attratto dalla nipotina. I piccoli segnali di forzatura come lo zio che guarda un film porno o la sua entrata accidentale in bagno mentre Mimi fa la doccia, sono piccoli indirizzamenti di una sceneggiatura che nel voler osare troppo diventa pressoché scontata. E allora si capisce che quando zio e nipote rimarranno da soli in casa qualcosa dovrà accadere. Ma sviata la potenziale morbosità che per fortuna non si concretizza, è interessante notare quali sono le conseguenze dovute alle avance di Jean-Pierre unite a una negazione della libertà (“non toccare le bambole”, “non stringere amicizie coi vicini”), e per Mimi tali conseguenze risultano devastanti.

Superate più o meno le pruriginose trappole da cinema di genere (reminiscenze de L’immoralità, 1978), la pellicola mantiene un trend da cinema d’autore grazie a scelte stilistiche di pregio come l’insistere in dettaglio sulle bocche che diventano l’ipocentro della storia - prima: le pillole passano da lì, durante: il bacio negato, dopo: altre pillole passano di nuovo da lì – la quale pur sottendendo margini di predizione è presentata con una discreta qualità di fondo.

Locandina da applausi.

mercoledì 23 febbraio 2011

Herzog, il costruttore di ponti

Qualcuno diceva che uno dei mestieri più nobili è quello di costruire ponti. Herzog non è di certo un ingegnere, ma con la sua ultima fatica è riuscito a collegare due ere lontanissime (il Paleolitico e il mondo contemporaneo) attraverso l’arte, ovvero il suo cinema. Ma soprattutto allaccia saldamente un’atavica espressione artistica come le pitture rupestri all’interno della grotta con la recente tecnologia cinematografica: il 3D. Magnifico.

Caves of Forgotten Dreams, speriamo al più presto sui nostri schermi.

lunedì 21 febbraio 2011

Il cigno nero

AVVI(S)TAMENTI

A 12 anni di distanza dal suo esordio connotati dalla presenza di 5 film, si evince in maniera più o meno chiara quanto il credo registico di Darren Aronofsky sia profondamente eterogeneo. Nelle suddette 5 pellicole appare difficile rintracciare una qualsiasi continuità, sia nello stile (pensiamo alla fulminante opera prima!) che nei contenuti (con Black Swan l’autore affronta un tema sì inflazionato, ma che “tocca” grazie – anche – alla particolare ambientazione), dimostrandosi film dopo film uno degli autori più interessa(n)ti, e capaci, nel panorama americano.
Ad ogni buon conto, ne Il cigno nero si possono rintracciare (/avvistare) un paio di segni distintivi:

– il taglio soggettivo che ritorna dopo The Wrestler (2008). L’inquadratura segue pedissequamente la Portman dalle spalle, creando perciò un canale visivo strettamente personale come d’altronde, al di là di pirouette, echappé e fouetté, il film è. E sempre dal lungometraggio con Rourke, Aronofsky ripropone la spettacolarità di un’esibizione al centro della scena, prima con un incontro di wrestling (l’ultimo, probabilmente) e dopo con il famoso balletto Il lago dei cigni (idem come prima, ancora probabilmente).

– Clint Mansell. Da sempre spalla musicale del regista, riprende le sonate di Tchaikovsky facendole riecheggiare ossessivamente anche al di fuori delle prove. La convincente progressione onirico-tensiogena che caratterizza la storia deve la sua compattazione anche e soprattutto alle musiche di questo compositore.

– infine qualche particolare. Lily in un frangente della vicenda offre a Nina della droga, e ciò rimanda all’adolescenza turbolenta tratteggiata in Requiem for a Dream (2000).
Potremmo vedere inoltre nello sdoppiamento d’identità un rimando, seppur debole, a The Fountain (2006) dove il protagonista veniva scisso in tre ruoli. E giusto per citare anche π (1998), è ravvisabile un percorso di auto-espiazione (il trapano e la scheggia di vetro) che conduce a un’estasi di similare e malinconica portata per il matematico e la ballerina a conclusione delle loro travagliate vicende.

DEBOL-MENTE

Ma non abbiamo ancora parlato di Black Swan.
Mettendo da parte la cornice del balletto, inconsueto scenario per un thriller, mi preme sottolineare innanzi tutto il senso psicologico dato alla persona-Nina. È un senso che a mio avviso non ha grandi doti di originalità perché va a rimestare la solita minestrina del dramma genitoriale, nello specifico una madre padrona che recinta la vita della figlia in una cameretta per bambole. L’eziologia di una mente debole viene perciò proposta in maniera altrettanto debole, risultando succube di alcune dinamiche freudiane (la frigidità sessuale mi ha ricordato il celeberrimo caso di Anna O.) non proprio all’ordine del giorno.
Se dunque il rapporto con la madre è la causa del difficile rapporto con se stessa, vediamo come Aronofsky inquadra il decorso patologico di questa prima ballerina.

(N)DOPPIAMENTI

Se nel paragrafo qua sopra mettevo in luce un aspetto non propriamente positivo, c’è da dire che esso resta l’unica voce nella lista nera. Già perché tutto il resto è un crescendo sonoro e visivo capace di allontanare qualsiasi tipo di distrazione. Il regista aumenta esponenzialmente il concetto del doppio ponendo ovunque, ma proprio ovunque, miriadi di specchi (Hitchcock sarebbe andato in brodo di giuggiole); le superfici riflettenti segnano ogni sequenza: nella casa, durante le prove nello studio, in camera di Nina e nel camerino. L’identità di Nina è costantemente raddoppiata, o forse costantemente “suddivisa” in un processo che debilita progressivamente la sua sanità mentale. Ma la duplicazione non avviene solo tramite riflessi poiché la tribolata esistenza della protagonista è più volte segnata dalla scissione o dal confronto con un’altra sé.
Lo stesso personaggio che interpreta nello spettacolo è diviso in due (cigno nero e cigno bianco), senza dimenticare che Nina prende il posto, sul palco e nel cuore di un grandioso Cassel, della prima ballerina Beth, in una comparazione con una donna più esperta che contribuisce al suo irrimediabile disintegrarsi.
È indubbio però che il punto apicale di questo discorso lo si raggiunge con la figura di Lily che merita un approfondimento.

LILY(TH)

La mano di Aronofsky suggerisce fin dalla prima scena sulla metropolitana l’importanza di Lily (una conturbante Mila Kunis) che è, senza mezzi termini, la vera Metà di Nina, l’Es costantemente represso da un Super-Io che come abbiamo visto ha impronta materna. Utilizzata con parsimonia per i primi 30-40 minuti, Lily diviene la goccia tracimante dopo l’uscita in discoteca. Ammantato da un velo di necessaria ambiguità (c’è stato o no questo cunnilingus?), l’incontro fisico, passionale e, lasciatemelo dire, bollente fra le due ragazze, attua il definitivo processo destabilizzante della già precaria mente di Nina. La presa coscienza di un’assopita parte di sé permette alla ballerina di potersi finalmente lasciare andare durante la rappresentazione artistica, ma questo provoca delle dolorose conseguenze.

ULTIMO ATTO

Il punto di non ritorno può essere visto (e rivisto) nell’atelier della sarta dove la ragazza prova un abito di scena. La sua esile silhouette è decuplicata dalla profondità degli specchi che danno prova tangibile di una frammentazione individuale irreparabile; da questo momento in avanti il montaggio si fa serrato e le musiche fuoriescono dal teatro per concertare la superlativa mezz’ora conclusiva in cui, a proposito di cigni, ne viene rappresentato il canto di uno di essi nel quale si eleva l’energia nervosa e sincronica di una creatura amorevolmente fragile, minuta ma sinuosa, timida ma anche umana, umana ma anche ferita come un animale. Nina si mostra statuaria in un equilibrio apparente sotto le luci della ribalta, spiegando le ali nere di fronte a un pubblico in delirio.
Poi un applauso scrosciante, e la consapevolezza di aver assistito ad un’opera in grado di essere quasi perfetta.

domenica 20 febbraio 2011

New Yorke


Non so se essere più contento per il nuovo album dei Radiohead o più preoccupato dalla vitalità di Thom Yorke che dopo questa prova danzereccia non vorrei finisse ad una puntata di Amici.

sabato 19 febbraio 2011

Tierra

Il vino sa di terra a causa di un insetto chiamato cocciniglia. Angel, malato mentale e ora disinfestatore, si reca nel paesino per fare pulizia, ma presto incontra l’amore, anzi due…

Il terzo Medem è all’incirca lo stesso che conosciamo oggidì. Con Tierra (1996) esprime ancora una volta tutta la sua voglia di raccontare e di fare cinema attraverso un’esasperazione delle componenti filmiche che trasporta la pellicola in un territorio di surreale mitizzazione dove tutto può accadere. Punto centrale nella sua filmografia è lo sdoppiamento della personalità o più in generale la possibilità di risemantizzare un elemento tramite una nuova lettura e un nuovo sguardo dato dalla messa in serie che spesso si rincorre, si supera e si riavvolge. A tal proposito è impossibile non citare Gli amanti del Circolo Polare (1998), lavoro appena successivo a questo e ritenuto probabilmente a ragione il miglior film del regista spagnolo tanto da venire citato in Mr.Nobody (2009) di Jaco Van Dormael.

In Tierra è evidente l’incubazione della poetica medemiana poiché dobbiamo muoverci in una diegesi che si stratifica mano a mano che la narrazione procede e nella quale si palesano i soliti fantasmi di Medem. Si ha un protagonista che perseguitato dal suo doppio (la sua coscienza?) è diviso fra due donne, in più sullo fondo vediamo uno scenario in cui anche la natura si mette al servizio della storia: la terra divide infatti due mondi, quello degli insetti e quello degli umani, mondi pregni, comunque, di inesplicabili misteri tutti riconducibili alla dicotomia definitiva vita/morte.

Essendo però un’opera ancora seminale si avverte una debolezza del racconto smagrito da trovate carine ma non entusiasmanti - d’altronde il filo conduttore di stampo sentimentale è l’inflazione portata ad esempio - e da una caratterizzazione dei personaggi che crea figure dalla singola caratura, e per questo vedremo un soldato che sarà sempre e solo UN uomo in uniforme, una ninfomane che sarà sempre e solo UNA donna aggressiva, un cacciatore scontroso che sarà sempre e solo UNA persona cattiva. La loro delineazione è troppo netta, e seppur inserita in un conteso molto caricaturizzato risulta poco interessante.

Il che è in antitesi con l’auto-moltiplicarsi dell’opera che similmente a Lucía y el sexo (2001) trova di continuo nuovi stimoli dentro se stessa per continuare a essere una storia. Della scarsa amalgama tra gli interpreti e la cornice in cui si muovono restano sprazzi di un buon cinema che lasciano la sensazione di potenzialità inespresse, un po’ il leit-motiv della carriera di Julio Medem.

giovedì 17 febbraio 2011

Wild Side

L’impareggiabile voce di un platinato e diegetico Antony Hegarty che canta I Fell in Love with a Dead Boy in mezzo ad un gruppo di ammirate prostitute, alza il sipario su un triangolo fatto di carnalità (un corpo nudo viene alternato al cantante nell’incipit), di passione, now you’re my one, only one, di ambiguità, i’m asking are you a boy or a girl, ma probabilmente non di vero Amore: ci si può innamorare di un ragazzo morto?

Attraverso Hegarty il regista parigino Sébastien Lifshitz delinea quelli che saranno i temi di Wild Side (2004); una storia torbida con piacevoli impressioni di sincerità in cui il transessuale Stéphanie si reca al capezzale della madre morente nella casetta di campagna insieme ai due fidanzati: un bestione russo ex pugile e un ragazzo immigrato che si vende nei cessi della stazione.
Il passaggio dalla metropoli parigina ai verdi campi sovrastati dall’azzurro cielo mette a nudo le situazioni problematiche dei tre individui. Se fino a quel momento la città li aveva come protetti – all’inizio sono così allegri nel loro appartamento – la nuova location, sempre anticipata dall’ottima ripresa di una strada lunga e deserta a mo’ di anticamera (forse una citazione a L’età inquieta, 1997), evoca fantasmi dormienti.
L’incombente ed anche ingombrante presenza della morte sottoforma della madre moribonda scuote le fragilissime fondamenta di un triplice legame basato su un sentimento sfuggente, laddove i protagonisti pur dichiarandosi amore infinito vanno a letto con altri uomini per soldi.

Ecco che il difficile rapporto tra Stéphanie e sua madre arriva ad una resa dei conti, e a cascata anche il russo e il ragazzetto dovranno vedersela con diversi affari lasciati in sospeso riguardanti le rispettive famiglie. Tuttavia in questo percorso di “autoanalisi” il trans e il ragazzo continueranno a vivere la loro precaria esistenza fatta di grigi rapporti sessuali in cambio di denaro mentre il pugile proseguirà ad accettare la situazione a testimonianza del fatto che il trio ha imboccato una strada dalla quale non pare possa esserci ritorno, tanto che alla fine saranno ancora abbracciati (/aggrappati) tra loro sopra un treno per chissà quale destinazione.

A fare da contraltare, senza però destabilizzare troppo il risultato globale, vi è la natura della pellicola che è ben lungi dall’essere programmatica. Non si ha una costruzione o una relativa distruzione del legame fra gli interpreti, tutto è congelato, immobile, tanto che questo triangolo è essenzialmente invariato dall’inizio alla fine del film. E procedendo più per strappi che attraverso un flusso continuo, Lifshitz pecca in alcune ripetizioni al confine della compiacenza con le numerose avventure erotiche dei personaggi sullo schermo, arrivando, infine, con un po’ di ironia, a idealizzare il suo cinema con il tizio che paga per vedere Stéphanie fare sesso.

L’impegno dei due attori maschili è apprezzabile, e come detto sono in grado di trasmettere spontanea veridicità sul loro essere così, permane solo qualche interrogativo riguardante la freddezza di Stéphanie Michelini dalle squadrate mascelle.
In definitiva Wild Side è un film dal tocco interessante che seppur con qualche imperfezione tratta il non facile tema dell’omosessualità grazie ad un gusto estetico ed anche contenutistico.
Distribuito da noi in dvd.

martedì 15 febbraio 2011

Invidia, tremenda invidia!

In questo preciso istante (ore 22:00 del 15/02/2011) più di un migliaio di persone sedute comodamente all’interno del Berlinale Palast stanno per intraprendere un viaggio che molto probabilmente segnerà la loro vi(s)ta per molto, moltissimo tempo. Va da sé che la mia invidia nei confronti di questi fortunati che vedranno in anteprima mondiale The Turin Horse non è nemmeno quantificabile, soprattutto perché a noi poveretti non restano che le briciole, ovvero questa foto, l’unica finora trapelata in pubblico. Ma nonostante sia solo un piccolo frame posso già evincere due cose: la prima è che il film sarà un Capolavoro, e la seconda è che ho trovato la prossima immagine da mettere qui sul blog.

Sbavo come un cane, hype a millemila.

E il giorno dopo arriva subito una bella intervista: eccola.

lunedì 14 febbraio 2011

Settantatre

Il taxi con a bordo i coniugi Mazzarino si arrampicava su per la piccola stradina asfaltata del monte fra l’incredulità del tassista che si domandava senza trovare risposta che cosa ci facessero nel cuore della notte due vecchietti in un luogo così disabitato, e il buio impenetrabile del bosco circostante che inghiottiva voracemente la luce degli abbaglianti.
La fatica del motore riempì il silenzio fra le tre persone nell’automobile fino a quando Walter Mazzarino non proferì educatamente: “Si fermi pure qui, grazie”. Pagarono il tassista che si allontanò con un certo sollievo, e i due rimasero fermi in un fluttuante mare di pece abitato da sfuggenti scricchiolii. Clara Mazzarino prese una torcia elettrica dalla sua borsa e la puntò sul bordo della strada.
“Un po’ più a destra – la accompagnò con la voce suo marito – ecco proprio lì!”
L’alone ricadeva su un angusto sentiero che si perdeva nella boscaglia oscura, la donna prese sottobraccio l’uomo e insieme si inoltrarono in quel nulla.

A mano a mano che procedevano, il sentiero si faceva sempre più impercettibile fino a quando non scomparve del tutto in una piccola piana ricoperta da felci alte anche un metro. Il signor Mazzarino fece alcuni passi tra gli arbusti avvolgenti e chiese alla moglie di puntare la pila verso di lui.
“Dovrebbe essere qui…”
“Sei sicuro caro? Hai contato i passi?”
“Sì, spero solo di ricordami bene.” Il bubbolio di un gufo sottolineò quest’ultima frase.
Allora l’uomo cominciò a strappare via le placide felci dalle radici sottili ma tenaci. Quando si liberò uno spazio sufficiente, la signora Mazzarino rischiarò il cerchio di terra sgombro; a quel punto l’uomo sospirò con tutti i suoi novant’anni e affondò le dita nel terriccio umido che svelava miriadi di impazziti vermiciattoli bianchi. E più gettava via manciate di terra, più ritornava indietro nel tempo, fino alle caverne della memoria dove 73 anni prima albergava il ricordo di una giornata primaverile dove Walter e Clara persero entrambi la verginità in quel posto che all’epoca era ancora una soleggiata radura.
La torcia iniziò a tossire, Clara Mazzarino negli istanti di luce vedeva suo marito affannarsi a gettare via pugni di terra nel vuoto.
“Ancora niente?”
“Forse…” La pila smise di funzionare in quell’istante. Calò l’oscurità più fitta che amplificava ogni rumore: un grillo camminava su una foglia secca, sembrava un gigante. Il vento smosse distratto le innumerevoli felci che in una danza sincronica ondeggiarono noncuranti verso sinistra.
“Forse… sento qualcosa…”
“Dio mio!” Si tappò la bocca Clara.

Walter Mazzarino si rimise in piedi con la fatica dei vecchi, restò immobile e poi chiese alla moglie se sentiva anche lei. Rispose di no, e così l’uomo portò all’orecchio della donna la sua mano sporca di terra che tratteneva qualcosa.
“Sembra, sembra un respiro, un battito, forse.” Fece Clara.
“Un battito.” Ripetè Walter.
“E ora cosa ne vuoi fare?”
“Lo sotterro di nuovo, è stato lì per 75 anni.”
“73.” Lo corresse lei.
Lui sorrise.
La torcia elettrica riprese magicamente a funzionare e i due si incamminarono di nuovo lungo il sentiero. Una volta giunti sulla strada videro le luci tremolanti della città in fondo alla valle e il signor Mazzarino disse: “Hai visto? Avevo ragione io, siamo ancora innamorati.”
La signora lo baciò sulla guancia e, ancora una volta insieme, cominciarono a discendere il monte.

venerdì 11 febbraio 2011

mercoledì 9 febbraio 2011

Antares

Parlando di Import/Export (2007) non avevo potuto fare a meno di lodare il cinema austriaco che da un paio di anni a questa parte si sta guadagnando un posto di primo piano nel panorama europeo e sembra essere l’unico a poter perlomeno infastidire lo strapotere francese. Ai nomi che avevo fatto in quel commento va aggiunto anche quello di Götz Spielmann che in Italia è conosciuto per il recente Revanche (2008), mentre Antares risale al 2004, due opere che non sono le uniche della sua carriera ma che probabilmente sono le più importanti.

La ricerca testuale e visiva di Spielmann è prossima all’Haneke dei Fragments o a tutta la filmografia di Ulrich Seidl. Vienna, sbiadita parente della meta turistica che conosciamo, è una muraglia di palazzoni tutti uguali che fanno da scenario ad un intrecciarsi di eventi intrisi di casualità, gelosia e passione. Anche qui si vanno a svelare ingombranti scheletri nell’armadio degli austriaci “tanto per bene”, ed ecco per esempio che una madre di famiglia tradisce il marito con un quasi sconosciuto; tuttavia il pericolo di arenarsi su blande schermaglie sentimentali viene ovviato da una visione trasversale di Spielmann che fa del suo cinema una pesante pietra che pian pianino ci mostra come affonda: dalla famiglia middle-class si scende agli isterismi di una giovane coppia per toccare il punto più basso con l’insofferenza dell’agente immobiliare, in un percorso netto che delinea drammi personali e sociali attraverso un’azione triplamente rappresentata.

Se l’artificiosità del montaggio che ricompone gli eventi avvenuti in contemporanea e li ripropone in un ordine cronologico-circolare non è una grande novità nel mondo di celluloide (per fare un esempio vicino mi viene in mente Polytechnique, 2009), è però giusto per il sottoscritto far notare di come le tre visioni NON siano una semplicistica riduzione di tre storie raccontate da tre angolazioni differenti accomunate da piccoli e insignificanti particolari, poiché si ha:

1) Una donna che tradisce il marito --> Primo passo per l’incrinazione del rapporto.

2) Una donna che scopre il tradimento --> Secondo passo per la distruzione del rapporto.

3) Una donna che rifiuta il marito --> Terzo passo per la negazione definitiva del rapporto.

A prescindere dal sesso dei personaggi coinvolti, la storia solo esteriormente spezzettata risulta a livello concettuale intrinsecamente connessa e capace di dare vita ad un unicum narrante nient’altro che d’una spasmodica ricerca, austriacamente filtrata, di formare quello che Platone definì un tutto, come piccoli satelliti che ruotano intorno ad una gigantesca ed incomprensibile stella: l’amore.

lunedì 7 febbraio 2011

Angel Dust

Un assassino seriale uccide a caso alle sei in punto di ogni lunedì pomeriggio tramite un’iniezione letale nei pressi dell’affollata metropolitana.
La polizia di Tokyo si mette sulle sue tracce.

La spavalderia di un killer che va a colpire indisturbato laddove può essere potenzialmente visto da centinaia di persone ma che paradossalmente viene protetto proprio dall’anonima massa, è un bell’affronto alle autorità che però abbiamo già visto in ambito cinematografico. E appare lontano dall’originalità anche il fatto che per dipanare l’intricata matassa venga chiamata in causa una persona esterna al team operativo dalle non definite competenze (psicologa, psichiatra, criminologa?) meglio se donna, evidentemente Il silenzio degli innocenti (1991) ha creato un vero e proprio work-profile con Jodie Foster, e puntuale il regista Sogo Ishii introduce il personaggio di Setsuko Suma nei panni di affermata investigatrice che avrà un ruolo intrinseco alla storia cucita su misura addosso a lei.

Le premesse non hanno in sé particolari innovazioni nonostante, è bene ricordarlo, Angel Dust sia un film del ’94. Lo sviluppo della vicenda si discosta dal think big americano che spesso dà risalto alle gesta dell’assassino, per inoltrarsi maggiormente nei risvolti personali dei protagonisti intrecciati tra loro più di quanto si possa pensare. A prescindere dalla validità o meno dell’operazione che sulla carta poteva essere interessante, nella pratica lo è molto meno.
Si tratta più che altro di una scelta narrativa che taglia le gambe al ritmo dilatando di molto e di troppo il raccontato. Ishii sembra propendere per lunghe sequenze d’anestetizzata atmosfera orientale, intervallate da rapidi fotogrammi che aggrediscono lo schermo. Ne risulta complessivamente che la curiosità per sapere chi sia l’assassino cala a picco ben prima della fine a causa del decentramento d’attenzione sul killer in favore delle implicazioni tra eroina e villain che sono sì soggiacenti all’indagine ma che non ne catturano l’interesse a causa, fra le altre cose, di personaggi anonimi senza appeal.

Lasciate perdere il disclaimer sulla locandina perché si sa di come la pubblicità sia l’anima del commercio, tuttavia prendete le mie parole come una semplice opinione, in giro questo film è piaciuto a molti.

venerdì 4 febbraio 2011

Tiresia

Complesso, angosciante, contraddittorio, torbido, sfuggente, provocatorio.
Parole e ancora parole attribuibili a Tiresia (2003) film diretto da Bertrand Bonello, francese che a quanto pare ama andarci giù pesante arrivando perfino a infischiarsene della coerenza del testo per favorirne il messaggio/i di fondo. Vi è subito da dire che sulla completezza di tali messaggi non c’è da metterci la mano sul fuoco poiché le tesi di Bonello si riconducono a sfuocate ipotesi per lo spettatore obbligato a destreggiarsi in un racconto che si spezza a metà per poi ricominciare da capo attraverso un procedimento avvicinabile, almeno formalmente, a quello de L’insaziabile (1999) di Antonia Bird.

Nella prima parte, anticipata da un quarto d’ora tecnicamente impressionante in cui la fanno da padrone delle lente carrellate laterali che riprendono un gran numero di prostitute su uno stradone buio a ridosso di un bosco, assistiamo alla segregazione del transessuale brasiliano Tiresia da parte di un – forse – uomo squilibrato di nome Terranova (Laurent Lucas) in cerca di rose non vere, poiché la copia è quella perfetta. Non vuole una donna, gli va bene qualcosa che le si avvicina, tuttavia in seguito alla mancata assunzione dei giusti ormoni, l’aspetto di Tiresia si fa sempre più mascolino fino a provocare un rifiuto nell’uomo che la acceca con delle forbici per gettarla poi sul ciglio di una strada.
Il tempo che venga giorno e la storia cambia ambientazione; ci troviamo in una chiesa dove un prete, impersonato dallo stesso Lucas, battezza un neonato. Contemporaneamente la figlia muta del factotum trova Tiresia moribonda, la prende con sé e la cura. L’ex trans ora è diventato un uomo (c’è stato proprio un cambio d’attore) che seppur cieco riesce a vedere il futuro.
Perdonate il dilungamento con relativi spoiler sulla trama, ma mi era necessario per iniziare a sezionare la pellicola e a supporre innanzitutto che Tiresia è un film sullo sguardo e di conseguenza anche una storia sulla cecità. La scenografia si accompagna al tema della visione: la prima frazione è estremamente cupa e non solo per gli esterni boschivi ma anche per la prigione di Terranova, spartana e confinata sullo schermo da un alone di buio; l’uomo spia il travestito dal buco della serratura in una forma di coercizione per cui Tiresia è soltanto una “cosa da guardare”, quasi un freak a causa della sua innaturalezza fisica. La seconda parte è raccontata attraverso tonalità fatte di colori chiari e brandelli di luce (ma la componente drammatica non viene meno), e qui Tiresia per merito o per colpa di un martirio che ha potenti rimandi cristiani, acquisisce un dono che le/gli permette di vedere e non solo di essere vista, sebbene agli occhi delle persone questa capacità la faccia vedere sempre e comunque come un mostro.

Ad ogni modo non vi è un tentativo di denuncia sociale. Assolutamente no; il film lavora sull’ astrazione senza affondare il coltello nel tema del “diverso” perché poco sembra importargli. Anche la chiave di lettura sullo sguardo mi appare riduttiva e non sufficiente per dare un’interpretazione globale alla storia. L’enig-magma-tica essenza delle pellicola è di non facile decifrabilità, il che potrebbe essere un limite di chi scrive ma anche di Bonello stesso che ad onta di un talento evidente in linea con la grande scuola francese, immerge la storia di Tiresia in un mare di incertezze.
Ciò che è certo invece è l’operazione coraggiosa e non semplice da accettare di cambiare attore protagonista tra una parte e l’altra del film. Ed è un’azione affiancata ad un similare ribaltamento dei ruoli per Laurent Lucas che nelle vesti di prete non pare essere la stessa persona che prima aveva imprigionato il transessuale.

Tiresia, dunque, prosegue e finisce come un film dal doppio volto al pari dell’essenza uomo-donna del personaggio principale, e come Lucas, al contempo folle maniaco e prete di campagna. Non c’è coerenza narrativa tra questi doppelgänger, e questo è l’aspetto che ad uno spettatore razionale potrebbe pesare insostenibilmente. Mettendo da parte l’aderenza ad una veridicità interna, resta un film affascinante, per una volta, forse, più da vedere che da capire.
Addendum.
La storia di questo film si rifà verosimilmente alla figura mitologica greca di Tiresia (link).
Si ringrazia AlmaCattleya per la segnalazione.

giovedì 3 febbraio 2011

iPark


È da un po’ di tempo che gira nei siti appositi il teaser del nuovo lavoro di Park Chan-wook che si intitolerà Paranmanjang (Night Fishing) è verrà proposto alla 61° berlinale nella sezione dedicata ai cortometraggi. Tutto normale se non fosse che quest’opera è stata interamente girata con l’iPhone 4.
Ormai anche il digitale è già roba vecchia.

mercoledì 2 febbraio 2011

L'età inquieta

Bruno Dumont.
Il nome di un regista francese nato a Bailleul, nord della Francia, nel 1958. Il nome di un autore che può vantarsi di aver vinto due Grand Prix nella sua carriera numericamente contenuta, cosa che in passato era successa solo a Tarkovskij. Il nome, anche, di un insegnante di filosofia. Ma il nome, soprattutto, che riempirà le colonne di questo blog nei mesi a venire.

Dopo due cortometraggi denominati rispettivamente Paris (1993) e Marie et Freddy (1994, opera che presumo abbia molto a che fare con questa avendo come titolo i nomi dei due protagonisti), Dumont esordisce sul grande schermo con La vie de Jésus (1997), pellicola ambientata nel piccolo paese natale che riprende lo scorrere quotidiano di un gruppo di ragazzini alle prese con la vita agra della provincia.
Quella di sondare il perturbante mondo dell’adolescenza problematica è un’operazione effettuata decine e decine di volte nel mondo di celluloide. Abbiamo visto giovini farne di ogni, farsi le mamme dei vicini (Ken Park, 2002), e sfarsi spesso e volentieri di svariate sostanze stupefacenti. I ragazzi di Dumont, invece, sfuggono a questo identikit, o almeno ci provano: non si drogano, non bevono, non rubano, non commettono niente di così peccaminoso da poter entrare in un film di Clark o Araki, eppure la loro raffigurazione è egualmente, anzi, è molto più lesiva rispetto a quella dei parietà d’oltreoceano. E le motivazioni possono essere ricondotte a due riflessioni di sotto esposte.

BAILLEUL, LA PERIFERIA DEL MONDO

Il contesto in cui si svolge la storia è, come sottolineato, una cittadina situata nella regione Nord-Passo di Calais. In questa comunità sembra, ma sicuramente è così, che non ci sia niente di interessante. Una lunga strada fiancheggiata da basse palazzine tutte uguali, un bar, un cimitero, una piazza, non c’è nient’altro. In un quadro del genere l’adolescenza di 5 ragazzini si assoggetta alla noia, essa diventa succube delle cose futili e mira alla materialità; non è importante il lavoro, per Freddy basta e avanza il sussidio da orfano per andare avanti, non è importante la relazione sentimentale, piuttosto succhiare il nettare della giovinezza da una coetanea, e qui l’esibizione quasi pornografica dell’atto sessuale non va visto come furbata registica ma come evidenziazione di un amore acerbo, irresponsabile; non è importante il tradimento in sé ma piuttosto l’onta di venir sfrattati dal pube dell’amata da uno sbarbatello arabo. E il mondo esterno? Praticamente non esiste. In tv passano solo immagini di guerra, di sofferenza, i film ci sono ma iniziano sempre in ritardo e non ne vengono ricordati i titoli. Lille è una città così vicina eppure distante chilometri non percorribili.
Bailleul è quindi una specie di recinto che imprigiona questi 5 giovani i quali non avendo nulla intorno, a loro volta non credono in nulla, non hanno speranze, per uno di essi, infatti, Gesù è solo quel tizio che è resuscitato.

DUMONT, IL CINEMA AL CENTRO

Ma Dumont fa cinema d’autore. Anche se è all’esordio si evince già una precisa impronta che vuol dare spessore intellettuale alla storia. E ci riesce benissimo poiché a differenza di molti film adolescenziali che puntano all’impatto visivo/emotivo con un certo maledettismo sullo spettatore, Dumont appaia a questa vigoria estetica – d’altronde le scene di sesso ci sono, inutile negarlo – ad un lavoro fatto di prospettive metaforiche che forniscono angoli di visuale differenti ma convergenti su uno stesso punto: il nichilismo proteiforme che forgia i protagonisti.
Ancora prima che visivamente, il film offre a livello acustico un parallelo convincente. La realtà del gruppo è contrassegnata da un sottofondo costantemente disarmonico, i motorini producono infatti un ronzio continuo e imperterrito che solo in apparenza riempie le loro giornate. Il fringuello di Freddy, giust’appunto, non canterà mai, nemmeno in seguito alle sollecitazioni del suo padrone, ed anche le prove con la banda del paese sono solo occasioni buttate al vento, momenti per deridere la cicciona del gruppo. Non c’è musica, non c’è arte, in una parola non c’è vita.
E all’occhio attento non sfuggirà che le strade del borgo sono completamente deserte [1], mai si vedrà qualcuno percorrerle, ciò rafforza il concetto di isolamento in cui sono calati i giovani protagonisti ognuno alle prese con una solitaria via crucis fatta di fratelli morti per AIDS, razzismo, epilessia, cieli rannuvolati e lontanissimi uccellini che cinguettano.

Un solito film sulla primavera della vita? Assolutamente no.
Un film diverso sulle pene della pubertà? Nì.
Un film che ad ogni modo merita la visione? Eccome.
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[1] È incredibile come il campo lungo della strada principale sia pressoché identico alla via-anticamera dell’ottimo Wild Side (2004) di Lifshitz. E, altra coincidenza, in entrambe le opere si registra la presenza di Yasmine Belmadi, attore franco-algerino morto nel 2009 a causa di un incidente stradale.

martedì 1 febbraio 2011

From ears to the heart


Mica voglio mettermi a consigliarvi anche la musica adesso. Primo non riesco mai a scriverci niente sopra, secondo lo faccio già indebitamente col cinema e mi pare abbastanza. Perciò, lascio la voce di James Blake, in uscita fra pochi giorni col suo primo disco, a riempire il silenzio di questo blog; che poi al di là della canzone in sé (per me splendida), al minuto 5 e 17 secondi ho provato un’empatia tale che boh, non saprei manco come descriverla, fatto sta che per poco non abbracciavo lo schermo, e di conseguenza concordo pienamente con un commento sotto il video: at the very end of the clip you see what love is.
Dalle orecchie al cuore, davvero.