domenica 31 gennaio 2010

7 racconti in 7 giorni

A partire da domani, ogni giorno intorno alle 14:00, su Oltre il fondo.

venerdì 29 gennaio 2010

Thirst

Come e più di I'm a Cyborg, But That's OK (2006) sono in seria difficoltà nell’esternare le mie impressioni sull’ultima fatica di Park Chan-wook. Non sono sicuro se il disorientamento scaturito sia un bene o un male (ma penso un bene), fatto sta che Thirst mi è piaciuto. Almeno credo.

La colpa che attesto all’incolpevole Park è di aver girato nel 2003 un film che ha ridotto il mio tenero cuoricino ad un frullato di tendini e ventricoli, che non so bene cosa siano ma ci stanno bene. Sì: Oldboy, è lui il film incriminato. Mi ha fatto ridere col mondo e piangere da solo, lasciandomi senza parole come se mi avessero tagliato la lingua. E l’organo all’interno della cavità toracica non è riuscito a reggere un tale tourbillon di sensazioni, frantumandosi. Ma il piacere sotteso al dolore superò di brutto l’afflizione diegeticamente scaturitesi facendomi godere come mai prima di quell’occasione. Così, al pari di una vergine toccata per la primissima volta, ho cercato un’altra pellicola che riuscisse ad asfaltarmi nello stesso modo. L’ho cercata dappertutto, restando in Sud Corea o nel vicino Giappone, passando per le fredde terre tedesche e nelle desolate campagne ungheresi, giungendo poi su al nord, in Danimarca. Ma finora niente, non l’ho trovata. Per questo, al solo sentire di un nuovo film di Chan-wook, il mio cuore – ridotto a brandelli dallo stesso, ma si sa di quanto gli innamorati siano masochisti – inizia sempre a picchiettare forte sotto le costole ricordandosi di quanto era stato vivo fino a morire in quell’occasione.

C’è però un ragionamento lapalissiano che ammorba ogni innamorato nostalgico: quello di ricercare nel “nuovo” ciò che gli era piaciuto del “vecchio”, commettendo l’errore madornale di discriminare il “nuovo” solo perché non ha alcune qualità del “vecchio”, bendandosi così in un giudizio cieco che non riconosce altri pregi, o difetti. Come se il finale di Thirst fosse brutto perché non c’è un colpo di scena che ribalta la storia. In verità gli ultimi venti minuti sono un miracolo di tecnica meritevoli di mille applausi, l’importante è che non copriate i vostri occhi.

Ma prima del finale c’è comunque un racconto, e per di più parkiano come è nel suo stile, quindi sciroccato tanto quanto ironico. Inoltre la componente “horror” – dimenticavo: è la vicenda di un prete che diventa vampiro – è una libera interpretazione del tema che non snatura di troppo la figura del vampiro attenendosi ad alcune regole classiche come l’eliofobia, ma che comunque s’inerpica in territori più umani, e automaticamente più spaventosi. Operazione, quella di sondare l’animo umano tramite il mito dei succhiasangue, non troppo originale ma pur sempre utile per stimolare il pensiero.
Ad aggiungere pathos ci si mettono le costrizioni etiche che il ruolo sacerdotale impone. Il povero Sang-hyeon si trova a dover nutrirsi del sangue degli altri prendendone e bevendone da tutti. Il peso della tunica si fa però insopportabile con la rinuncia alla castità, consapevole del rischio di finire per l’eternità nel girone dei lussuriosi decide di correrlo per amore. Grosso errore perché la splendida Tae-joo (interpretata dall’attrice-modella Kim Ok-bin) preferisce la riabilitazione della sua esistenza da cane di casa a vampiro quasi immortale, che l’amore eterno dell’ex prete.

“Io volevo vivere con te per sempre, saremo di nuovo insieme all’inferno allora.”

Nelle parole di Sang-hyeon c’è tutta la disillusione del mondo ed un ri-allacciamento alla propria fede probabilmente mai abbandonata. Devo ancora capire se la ri-conversione dei minuti finali (e quindi l’accettare la morte in quanto giusta punizione per la cattiva condotta), sottolineata dalla ragazza che lo chiama “Padre”, pesi di più sulla bilancia dei pro, praticamente piena, o dei contro, praticamente vuota, in ogni caso l’assenza di redenzione sembra essere una costante nel cinema di Park Chan-wook come ricordato da Lenny Nero (recensione), con tutte le riflessioni da qui fruibili.

Di tutte le sfaccettature non colte ad una singola visione non ne potrò ovviamente parlare, resta la sensazione però, che pur dopo un solo sguardo si sia comunque assistito a qualcosa di grande. Ed anche se il mio cuore non è stato trafitto e ridotto in frantumi, sento che è stato toccato. Eccome.

Due curiosità.

L’abito indossato da Kim Ok-bin in alcune scene del film è simile a quello di Isabelle Adjani in Possession (1981). Infatti il regista koreano ha suggerito alla sua attrice di ispirarsi alla protagonista di Zulawski per il ruolo di Tae-joo. Questa è la locandina originale. C'è qualche differenza, non trovate?

mercoledì 27 gennaio 2010

Il grande silenzio

Giusto qualche riga per segnalarvi un documentario atipico, e perciò degno di abitare questi lidi, diretto dal tedesco Philip Gröning il quale si stabilì per sei mesi nel monastero certosino de La Grande Chartreuse vicino a Grenoble sulle Alpi francesi, con lo scopo di vivere come e con i monaci del luogo, riprendendo tutto, o il niente, che c’era da riprendere. Il risultato finale estrapolato da metri e metri di pellicola, è costituito da 169 minuti in cui si assiste ad un dialogo (silenzioso) tra l’uomo e la natura, e quindi, forse, soprattutto indubbiamente, anche tra l’uomo e dio.

Non un film religioso, non un film sulla religione. Piuttosto una visione (e)statica di questo piccolo mondo lontano infinite galassie dal nostro. Gröning assorbe tutto quello che può, dalle cerimonie ai rari momenti di svago, e ce lo mostra senza alcun artifizio se si escludono un paio di immagini sgranate leggermente fuori fuoco.
A mio avviso oltre il bello o il brutto. Per il solo fatto che questo documentario abbia visto la luce invece di rimanere per sempre nel cassetto del regista, si può già parlare di una piccola vittoria.
Noioso? Bof, potrebbe anche essere, eppure quando verso la fine ho sentito quella litania ipnotica mi sono sentito sollevare, intuendo che l’essenza de Il grande il silenzio sublima in qualcosa che non si può afferrare, come la fiamma di un cero nel buio.

lunedì 25 gennaio 2010

In a Glass Cage

Un ragazzino è appeso per i polsi ad una catena che penzola dal soffitto. La cantina è in disordine, sporca, sembra abbandonata. Il bambino è nudo con evidenti escoriazioni sul corpo. C’è un uomo insieme a lui, lo fotografa, lo sfiora e poi lo uccide. Poco dopo l’uomo si getta giù dal tetto di un palazzo. Il suo nome è Klaus, è un ex nazista e dopo aver tolto la vita a centinaia di bambini in guerra, non è riuscito a levarsi la sua. E potrebbe sembrare una condanna quella di passare il resto dei suoi giorni immobile in un polmone di acciaio, mentre in realtà il vero dazio da pagare si presenta sottoforma di Angelo, finto infermiere che si prenderà “cura” di lui.

Primo lungometraggio di Agustí Villaronga, Tras el cristal (1987) è un film che mette in difficoltà non solo durante la visione, ma anche nel buttare giù queste quattro righe. Inizialmente avevo avuto idea di sottolineare una certa avventatezza nel presentare i personaggi con la precipitosa entrata in scena di Angelo nella casa. Inoltre notavo un taglio visivo da cinema di genere che sinceramente non entusiasmava il mio lato estetico. Poi con il dispiegarsi della trama mi sono dovuto rimangiare le mie osservazioni in un sol boccone perché, primo: Angelo legittima la sua entrata spettrale in scena avendo pedinato Klaus fin dai tempi della violenza subita, e, secondo: la fotografia che dapprima mi era sembrata dozzinale e poco curata, con l’intorbidirsi della situazione si plasma come il vetro (!) soffiato, divenendo un riflesso bluastro che risucchia i protagonisti, e le loro anime.

E poi? E poi c’è tutto un substrato psicologico terrorizzante, ripeto: TERRORIZZANTE, che riguarda l’identificazione della vittima con l’aggressore. La questione è delicata.
Recentemente sono stati girati due film che toccano in qualche modo il tema qui affrontato: Hard Candy (2005) e La ragazza della porta accanto (2007). Quello che li accomuna all’opera di Villaronga è che dietro alle efferatezze proposte ci sono processi psichici meno diretti ma più sconvolgenti delle brutalità stesse. E il fatto che In a Glass Cage anticipi di qualche anno i sopraccitati film non può che giocargli a favore.
L’orrore che disturba di più non è una siringa riempita di benzina piantata nel petto di un bimbo (tra l’altro ripreso in Dettaglio, unico fotogramma fuori posto di tutto il film), ma il fatto che un bimbo come quello violentato in passato, invece di aborrire la violenza, il dolore inflittogli e la disperazione tatuata dentro, se ne appropria. Fa sua la violenza, fa suo il dolore e la disperazione. Ovvio, a leggere direte che un ago infilzato nel gracile petto di un ragazzetto è ben più disturbante dell’interiorizzazione assoluta di modelli disumani. Tuttavia il meccanismo che porta Angelo a riconoscersi nel suo seviziatore Klaus fa rabbrividire perché al di là di quanti litri di sangue e sbudellamenti vari possano essere inscenati in un film, ciò che mette sempre e comunque una paura ancestrale è l’abissalità della mente, l’assenza di luce e l’inevitabile oscuramento della coscienza.

Se non bastasse questa visione nichilista, il regista giustifica il titolo della sua opera calando i protagonisti in una prigione trasparente in cui il male sembra trasmigrare da un corpo all’altro come una malattia. Il finale con la piccola Rena che ringrazia Angelo dopo averle ucciso i genitori sembra confutare questo, il “morbo” partorito durante la guerra è sopravvissuto fortificandosi negli anni successivi per continuare ad assoggettare le sue vittime.

In a Glass Cage viene considerata una delle pellicole più estreme di tutta la storia del cinema. A ragione o a torto questo film ha significati soggiacenti che superano in quanto a “shock” l’exploitation sulla scena, e se nel complesso fosse stato più stilisticamente elegante sarebbe stata un’opera ancora più grande di quel che già è.

giovedì 21 gennaio 2010

Almanac of Fall

La vita in un fatiscente appartamento prismatico. Cinque persone, cinque esseri umani soffocati dalle mura di questa casa buia. Mobili pesanti e ombre. Sotterfugi e tradimenti. Speranze di amori e amori senza speranza. Cinque persone: Hédi la padrona di casa, János il figlio, Anna l’infermiera, Tibor un insegnante squattrinato, e Miklós, l’uomo di Anna. Cinque vite che tentano di essere tali.

L’aspetto quasi rivoluzionario che colpirà anche lo spettatore meno attento, è la portentosa varietà di immagini, inquadrature e luci proposte da Tarr. Il salto in avanti rispetto al suo precedente lavoro The Prefab People (1982, ma si potrebbe tranquillamente erigere ad esempio ognuno dei suoi film passati), è notevole, in particolare per tutto ciò che riguarda la fotografia.
A prima vista la mano che dirige questo Öszi almanach potrebbe sembrare un’altra in confronto alle altre pellicole tarriane antecedenti al 1985. Potrebbe. Nella sostanza il regista riprende ancora una volta da vicino (o meglio da vicinissimo) le miserie esistenziali di donne e uomini in conflitto coi loro simili e con se stessi. Ma la novità più consistente è dovuta al fatto che i vari protagonisti invece di venir raccontati con taglio documentaristico nella concreta realtà quotidiana, in Almanac of Fall accade l'inverso poiché vengono calati in un’atmosfera totalmente astratta, surreale, immaginifica.
Il grosso appartamento è illuminato magistralmente da luci fluorescenti che spezzano la monotonia del buio esaltando i lineamenti degli attori. Fate attenzione ai loro visi durante i dialoghi: Tarr dosa i colori in modo da amplificare il mood dei suoi interpreti. Affascinante.
In alcuni film si dice esagerando che la mdp di un regista è come un occhio indiscreto che spia, in questo caso è proprio così. Tarr è ovunque: dietro, davanti, sopra e sotto (ma proprio sotto) i protagonisti. Tuttavia non è mai invadente o chiassoso, si limita a guardare di sbieco da dietro una porta oppure a filmare il riflesso di uno specchio. Scivola fra gli innumerevoli soprammobili, sembra far parte del buio per soffermarsi soltanto nei volti espressivamente dipinti dalle luci. Qui lo dico e qui lo nego: è uno dei film stilisticamente più raffinati che abbia mai visto.

Però, c’è un però. Il lato oscuro di quest’opera si costituisce nella verbosità tipica del primo Tarr. Dialoghi/monologhi lunghissimi e a volte poco frizzanti non catturano l’attenzione di chi guarda. La mancanza di uno stacco, di un altro spazio che non sia quello della casa, trasmette sì la sensazione di claustrofobia ma al contempo è difficile non fermarsi per orientare un attimo la ragione nel fiume impetuoso di parole riversate sullo schermo. Poi vabbè, se siete ungheresi o comunque conoscete molto bene l’inglese il problema non si pone più di tanto. Ma se come me non sapete nemmeno dove si trovi esattamente l’Ungheria, e la lingua dei Beatles la masticate in maniera canino peniforme, sappiate che questo è un film prima di tutto parlato, e solo in seguito fa ricorso alle immagini, anche se ovviamente le due cose sono correlate. Però, CHE immagini! È il caso di dirlo: bisogna veder(l)e.

martedì 19 gennaio 2010

Songs from the Second Floor

Strani eventi in una città: macchine imbottigliate in un traffico infernale, un imprenditore che dà fuoco alla sua ditta, funzionari pallidi come cenci, case che si muovono, fantasmi che tornano alla vita, e una bambina sacrificata per il bene della popolazione.

Curiosissima visione, opera per certi tratti apocalittica firmata dallo svedese Roy Andersson che suggerisce attraverso la sua declinazione sarcastica della realtà un percettibile stato di malsana inquietudine. Questo Andersson, per cui penso valga la pena recuperare altri suoi lavori, adotta un metodo registico rigoroso: zero movimenti di macchina, assenza totale di campi e controcampi, uso ridotto ai minimi termini del sonoro. La forma del film si sostanzia così in tanti quadri sequenziali dove la mdp è letteralmente immobile e gli attori si muovono (di)sgraziatamente sulla scena che si espande in profondità fin dove l’obiettivo riesce ad arrivare.
Lo dico: la pellicola è lenta, frammentata. Inevitabilmente poco coinvolgente. Di fatto, però, le riflessioni da essa scaturite mi hanno “preso”, e reso così consapevole di aver visto un film perlomeno intelligente.

L’acuminata ricerca del regista mette a nudo il potere tout court. Da qui si mostra l’impotenza dell’uomo davanti ad eventi fuori dal suo controllo. Nessuno sa perché si sia formata quella coda chilometrica di automobili, come nessuno sa il motivo per cui non ci sia più lavoro. E mentre un pazzo dentro ad un manicomio riflette sul fatto che Gesù sia stato crocifisso perché era buono e gentile, un venditore cerca di rendere la religione un business vendendo croci. Gli uomini del film sono allo sbando, non capiscono il mondo intorno a loro e non riescono a capire sé stessi. Il potere burocratico spera di trovare la soluzione dentro una palla di cristallo, l’etica religiosa (con qualunque significato personale attribuibile) è smarrita. Si profila perciò una paura ancestrale per cui la benevolenza di un qualche dio dovrebbe accettare il sacrificio di una bambina in cambio di rimettere le cose a posto. Magistrale la sequenza in cui un vecchio e pallido bacucco pieno di onorificenze si chiede cosa avrebbero dovuto fare di più per migliorare la situazione, mentre affianco a lui una giovane ragazza non riesce a salire sullo sgabello. L’umanità è in ginocchio.
E poi i fantasmi, di un vecchio debitore, di un ragazzino impiccato che perseguitano il povero Kalle il quale non riesce (non può!) darsi pace per il figlio diventato pazzo perché poeta. Anche l’ultimo briciolo di humanitas è svanito, il mondo si appresta alla fine. Impotente.
La scena conclusiva è folgorante, mi ha lasciato di stucco, cosa che ormai accade sempre più di rado.

Ma è un film ostico, lo ripeto, decisamente non per tutti. Fate un tentativo.

sabato 16 gennaio 2010

Taxidermia

C’è qualcos’altro che devo dire, che fa parte della creazione di qualcosa che mi è superiore e anche di molto. Ma se non fosse per me, nessuno ne avrebbe saputo niente, perché, semplicemente non esisterebbe. Nessuno saprebbe chi era realmente Lajoska Balatony: da dove era venuto, dove andava, chi erano suo padre o suo nonno. Forse solo questo è significativo, perché noi qui assistiamo alla fine di qualcosa, e quando qualcosa arriva alla fine allora anche il suo inizio diventa importante.Appena quattro anni dopo l’indecifrabile Hukkle (2002), György Pálfi torna alla carica con un film semplicemente e squisitamente assurdo. Appurato il fatto che in Ungheria ci sanno fare di brutto dietro la mdp, Pálfi questa volta vira nelle torbide acque del grottesco raccontando le gesta di una famiglia partendo dal nonno arrivando al nipote.
Inizio:
si comincia col soldato Morosgoványi. Frustrato tirapiedi che si masturba ponendo il membro nel buco di uno steccato, riscaldato nella notte dalla flebile e inafferrabile luce di una candela, metterà incinta la moglie panzona del suo tenente consumando l’amplesso sopra la carcassa di un maiale scotennato. Da questo strambo accoppiamento nascerà un bimbo con la coda, Kálmán, obeso campione nazionale di mangiate nell’Ungheria socialista, che si sposerà con Gizi, donna della sua stessa stazza che lo farà diventare padre (con qualche dubbio) di Lajoska, emaciato e cadaverico ragazzo, impagliatore di mestiere, il quale si occuperà del padre mostro gigantesco ormai immobile sulla poltrona. Dopo una litigata deciderà di non andare più a trovarlo, al suo ritorno però uno degli enormi gatti della casa ha scambiato l’intestino di Kálmán per un gomitolo di lana. Tornato nel suo laboratorio, Lajoska, imbalsamerà il padre e… se stesso.
Fine. La filigrana sottile – ma per stomaci forti – che costituisce l’opera è un meccanismo continuo di trovate stupefacenti, folli. Per dirla banalmente: pazze. Le soluzioni visive adottate da Pálfi, rese ancora più ghiotte dall’uso del computer, vanno ricordate una per una. In certi casi si tratta di stupidaggini, come uno schizzo di sperma che diventa la stella promessa alla piccola fiammiferaia, in altri di pregevoli licenze cinematografiche come quella vasca che gira su un piano di 360 gradi al pari della figa che fa ruotare il mondo, così come si dice.
La vena surreale si esplicita soprattutto nel primo segmento, vera gemma confezionata ad arte. Nei susseguenti due si riduce l’alone fiabesco in favore di una visione più realistica (ma anche no) della storia. Tra feste matrimoniali molto alla Tarr, abbuffate e vomitate, si giunge al disturbato, e disturbante, finale. Le ragioni per cui Lajoska deciderà di fare quel che fa sono velate e svelate allo stesso tempo nel dna della sua famiglia. Di spiegazioni non mi va di darne, anche perché non mi sono adoperato a cercarle, se ne potranno trovare mille differenti e tutte condivisibili. Non affannatevi a capire, godete come porci (mai similitudine fu più azzeccata) di tutto il resto.
E se Pálfi riuscirà a trovare il perfetto equilibrio fra senso e non-senso allora sarà da tenere d’occhio come e più di Mundruczó.

Esistono cose che non si possono conservare, in alcuna soluzione. È possibile impagliare il proprio padre, come simbolo di tutta la famiglia. Ma non ciò che si prova nel vedere la lama avvicinarsi alla propria testa. È una sensazione che non si può impagliare, questo fa parte dell’autentica storia di Lajoska Balatony, e ne è l’essenza, credo.
Ovviamente ognuno ha le proprie idee su ciò che è importante o meno. Per alcuni è lo spazio, per altri, il tempo.

giovedì 14 gennaio 2010

Nothing

Andrew e Dave sono amici fin da piccoli. Condividono la stessa vita in una disordinata casa situata fra due autostrade. Un giorno Dave decide di andarsene per trasferirsi dalla sua ragazza, nel frattempo Andrew, insicuro agorafobico, riceve la visita di una piccola boy scout. Com’è come non è, la bimba torna a casa dalla mamma dicendole che lui l’ha baciata. Dave, dal canto suo, viene a scoprire che la fidanzata lo ha fregato come un pollo rubandogli l’account del lavoro per impossessarsi di ingenti somme di denaro. Poco tempo dopo la polizia circonda la casa dei due per i presunti reati da loro commessi, e quando i fumogeni lanciati dentro l’abitazione sembrano segnare la fine, ecco che Andrew e Dave riaprendo gli occhi troveranno fuori dalla loro porta una sconfinata distesa di… niente. Vincenzo Natali è quel geniaccio che qualche anno fa diresse un piccolo grande gioiellino rispondente al nome di Cube (1997). Sei anni dopo abbandona le atmosfere angoscianti e psichedeliche del Cubo per dedicarsi ad un’opera più leggera sceneggiata da Andrew Miller, qui nei panni dell’omonimo co-protagonista.
La pregevole introduzione animata che presenta i protagonisti, dà fin dall’inizio un tono palesemente surreale (ma leale) alla storia, avvalorato dalla rappresentazione langhiana di Toronto. Per non parlare della casa stessa, troncata di lato e dalla goffa silhouette, che sembra uscita dalla mente contorta di Gilliam.
Dunque, Natali nella prima mezz’ora sembra saperci fare anche con le atmosfere più giocose, il gioco, però, diventa difficile quando cala i protagonisti nel niente assoluto: un bianco infinito senza inizio né fine limitato soltanto da un pavimento gommoso, e dove la casa diventa l’unico appiglio nel vuoto. Capirete che qui il film deve saper tenere desta l’attenzione poiché l’idea di due uomini letteralmente isolati dal resto del mondo potrebbe rappresentare l’harakiri perfetto di un regista. Natali non si “suicida” e riesce a reggere il peso della solitaria coppia in maniera più che accettabile.

Una volta compresa la sostanza della nuova realtà, era inevitabile contrapporre la comprensione di sé stessi attraverso il confronto tra Dave ed Andrew: in pratica il fulcro della storia è la loro amicizia che viene già messa in discussione nell’incipit, questa nuova “dimensione” li mette a nudo per riuscire ad incontrarsi nuovamente, o forse per la prima volta. Pur rimanendo in terreni comici, il film saltella qua e là nel mini dramma esistenziale con rovescio della medaglia, unito ad una spruzzatina (ina ina) di splatter in CGI, il tutto in maniera piacevole, almeno abbastanza.

Tenuto conto della sfida non da poco in cui si è cimentato il regista, direi che questo Nothing può andare benissimo per una classica domenica pomeriggio di cazzeggio. E occhio ai titoli di coda, alla fine c’è una piccola sorpresa.

martedì 12 gennaio 2010

Intimacy - Nell'intimità

Jay e Claire si incontrano ogni mercoledì pomeriggio a casa di lui. Non si conoscono, non si parlano, l’uno non sa niente dell’altra e viceversa. Fanno solo sesso.
Ma a Jay non basta, frustrato dal divorzio, un mercoledì come tanti pedina la donna per scoprire che recita in un piccolo teatro. Qui fa conoscenza con Andy, il marito di Claire, del quale diventa “amico”. Nel frattempo la relazione con lei va a rotoli.

Patrice Chéreau ha il merito di aver fatto cominciare la storia in un periodo temporale successivo all’ordine cronologico degli eventi. Mi spiego: nei film a tinte rosa, che siano o meno infarciti di scene erotiche, c’è uno scheletro speculare per ognuna delle opere. Di solito si parte con una breve presentazione di lui e di lei, poi si passa al momento dell’incontro, per proseguire nel magic moment della coppia che si concluderà con un evento nefasto spaiatore. Dopodiché si presenta un di solito breve periodo di separazione e infine si giunge alla conclusione, più o meno felice a seconda dei casi. Intimacy per fortuna svia gli inutili preamboli e va subito al sodo: un uomo e una donna fanno sesso. Punto. Questo permette al regista di “spalmare” le personalità dei due protagonisti lungo la narrazione senza essersele bruciate in una banale introduzione che avrebbe rischiato di smussare le molteplici sfaccettature. Il riempimento della trama con le vicende personali di Jay e Claire permette al regista di non precipitare nel pruriginoso, ciò è significativo poiché come non ho mancato di rimarcare qui nel blog, accade troppo di frequente che in questi erotici gli autori finiscano per ostentare autocompiacimento da tutti i pori.
Con Intimacy viene data al sesso un’essenza adulta… come dire: non libidinosa. Nella loro nevrosi gli amplessi non sono né lussuriosi né piacevoli alla vista a causa dei corpi poco attraenti coinvolti. L’erotismo è la parola muta, un silenzio urlato di Jay e Claire, il mezzo di comunicazione fra questi due sconosciuti. Una volta interrotto il collegamento la coppia non riesce più a rapportarsi.

E da qui iniziano le dolenti note. Dal momento in cui Jay vuole scoprire cosa c’è dietro la donna Claire, il film perde qualcosa. Il fascino della vicenda accumulato nella prima parte si sgonfia nella seconda che denota una certa ripetitività scenica condita da dialoghi lontani dalla realtà: difficile che due persone sul precipizio legate da un filo così sottile si mettano a discutere in siffatta maniera.
E Claire insegnante di teatro lo sa bene: “Nessuno vi crederà mai”, dice bacchettando due studenti durante le prove. E cosa trascina con sé l’innaturalezza della situazione? Scarsa immedesimazione, e dunque mancata partecipazione a livello emotivo.
Qui ci sarebbe da discutere se un film va ragionato nell’ottica di quel che È o di quel che FA. Il dubbio è amletico e l’unica via d’uscita pare essere un diplomatico in medio stat virtus.
Per cui Intimacy sarà anche un buon film, ma non ha saputo toccarmi dentro, intimamente.

sabato 9 gennaio 2010

Il cattivo tenente - Ultima chiamata New Orleans

Premessa: io il Tenente di Ferrara non l’ho visto. In tutte o quasi le recensioni lette la pietra di paragone posta è il film del ’92. Ogni commento riporta all’incirca le stesse similitudini: “Ma Herzog in confronto a Ferrara…” oppure: “Ma Keitel in confronto a Cage…” E così via.
Uno dei grandi dubbi che mi pervade ogniqualvolta scrivo di un film, è la legittimità del confronto: è giusto, o meglio, è conveniente valutare un’opera comparandola ad un’altra? Nell’attesa di trovare una risposta esprimo di seguito le mie impressioni su Il cattivo tenente.

Strano film. Poco herzoghiano, ma in una qualche maniera herzoghiano. Molto hollywoodiano, eppure per certi versi lontano dal cinema americano. Mi è piaciuto, e molto.
L’ambiguità propria del film nasce probabilmente da alcune imposizioni poste dai produttori, vedi il titolo che per il regista avrebbe dovuto chiamarsi semplicemente Ultima chiamata New Orleans, le quali hanno costretto Herzog a dover sgusciare come un serpente tra i cliché dei noir a stelle e strisce.
Il film è solido di per sé, dalla sceneggiatura con dialoghi acidi e divertenti, alla fotografia degradante (anche cromaticamente) come solo l’atmosfera dopo un uragano sa essere, certo che quelle piccole visioni che Herzog inserisce sono un surplus graditissimo che rompe gli schemi narrativi da crime-movie. La presenza delle iguane fitzcarraldesche è l’impronta che il regista ha voluto dare per venare di misticismo una storia realistica, o come Cage l’ha definita: una storia dalla dimensione fisica. I contatti di Herzog con l’America non sono mai stati troppi, a parte il dimenticabile L’alba della libertà (2006), Werner non ha mai impiegato troppe energie in terra Yankee. Nel ’77, però, girò nel Wisconsin uno dei suoi film più belli: La ballata di Stroszek. Trentadue anni dopo si balla ancora, e con la stessa musica. La medesima armonica che scandiva la danza frenetica del pollo, qui viene riproposta nella scena capolavoro in cui il tenente McDonagh strafatto di crack esclama dinanzi al cadavere del ricattatore: “Sparagli di nuovo… La sua anima balla ancora.” E noi vediamo davvero un tizio che tra i morti ammazzati si dimena in un improbabile balletto mentre il tenente lo guarda con espressione estatica. Grandioso.
Le visioni lisergiche del poliziotto cattivo, ma quasi adorabile, declinano il film in un mondo che sarà anche noir ma che contiene dentro e fuori sfaccettature allucinate: un coccodrillo tramortito da un camioncino su una super strada? Due iguane immobili su un tavolino dall’aria stranita? Un tenente che decide di infrangere ogni regola e nonostante questo viene promosso di grado? La miscela tra possibile e impossibile è una vera bomba. A dire il vero le gesta del tenente immorale spostano l’ago della bilancia nel mondo del possibile. Il fatto che il suo comportamento gli consente di guadagnarsi la nomina di capitano, è una semplice traslazione di ciò che accade nella vita vera.
Il finale, che molti sbagliando hanno visto come un happy end, è in realtà la concretizzazione dell’ingiustizia, dell’iniquità. Al grido de “il crimine paga” quella vissuta da McDonagh è stata giustamente definita un’estasi del Male. Anche dopo aver risolto il caso e pagato i suoi debiti, il tenente continuerà a sottrarre droga indebitamente e a sfarsi di essa. D’altronde Herzog c’è sempre andato a nozze con personaggi al limite in cerca di una propria verità: Kinski-Nosferatu sfidò la luce per mordere il collo di una donzella, Tim Treadwell sfidò la Natura per stare in mezzo agli orsi, Cage-McDonagh sfida se stesso per vivere, balla come i polli di Stroszek. Chissà quanti cattivi tenenti ci sono nella realtà…
Capitolo Cage. Non potendo definirmi un vero e proprio mainstreamer, molti, o quasi tutti i film in cui è apparso non li ho visti. Per questo mi paiono strane le critiche ricevute al suo passato. Qui è nella parte alla grande (forse perché diretto da un grande regista?), basta guardare la postura – perennemente ingobbito – per lasciare un segno. Inoltre il suo personaggio, pur compiendo azioni deprecabili, è meravigliosamente buffo, assurdo, un vero cialtrone. Per dire: la scena della vecchietta a cui toglie la cannetta del respiratore è un vero e proprio momento caustico, eppure non si può fare a meno di sorridere.
La Mendes è un personaggio su cui andrebbe scritto un articolo a parte. Inizialmente sembrerebbe solo la spalla del protagonista con il quale condivide le stesse cattive abitudini, ma alla fine riesce a diventare “autonoma” legittimando la presenza sulla scena, divenendo luce e portatrice di speranza, mentre il povero tenente continua a pippare coca nella stanza di un hotel.

Al primo vero esame hollywoodiano lo studente fuori corso Werner Herzog, nel senso che non seguirà mai la strada imposta, supera ogni perplessità riuscendo con classe a raggirare gli stilemi americani del genere. E se questa è la strada intrapresa ben venga, raccontaci ancora di altre anime danzanti, Werner!

giovedì 7 gennaio 2010

Alien Autopsy - Una storia vera

Non è semplice raccontare la storia “vera” su cui si basa questo film perché dal 1995 a oggi di cose sul filmato di Santilli ne sono state dette, e, puntualmente contraddette, a bizzeffe. Una spinta fondamentale l’ha data internet che ha espanso la questione fino all’inverosimile dando vita ad eserciti di sostenitori contrapposti a detrattori non meno agguerriti pronti a smontare ogni singolo fotogramma del video.
Per chi non sapesse a cosa mi riferisco, sto parlando dell’ormai mitico filmato che Ray Santilli acquistò negli Stati Uniti da un ex cineoperatore militare, riguardante l’autopsia un essere alieno prelevato nel sedicente ufo crash di Roswell. In realtà oltre all’autopsia dell’umanoide, si dice che Santilli abbia comprato ventidue bobine da tre minuti ciascuna comprendenti delle riprese effettuate sul luogo dell’incidente, e il cosiddetto “video della tenda”. Ma anche in questo caso, come in tutto il resto della vicenda, ci sono informazioni contraddittorie in quanto si parla di ben 25 bobine. E confusa è pure la figura dell’ex militare, tale Jack Barnett, che pare essere stato sì nell’esercito ma fino al ’45. Per non parlare delle analisi effettuate sulla pellicola originale: alcuni affermano che la Kodak non abbia mai ricevuto frammenti della bobina, altri che non solo li avrebbe ricevuti ma che avrebbe confermato una datazione vicina a quella riferita.
Insomma, un gran bel casino. Questo film, girato nel 2006, è una godibile ricostruzione dei fatti presentata come il racconto di Santilli (impersonato da Declan Donnelly) e il socio Gary ad un regista interessato alla loro storia. Non so se il vero Santilli abbia partecipato alla stesura completa del plot, ma penso di sì dato che viene accreditato come produttore ed appare in coda al film, in ogni caso ciò che emerge è presto detto: un filmato, reale o finto non si sa, c’era. E solo Santilli l’ha visto. Quello che invece ha visto il resto del mondo è un tarocco con la T maiuscola. Sì perché secondo la ricostruzione una volta che Santilli acquistò la bobina da Barnett (che qui si chiama Harvey ed è interpretato dal grande caratterista Harry Dean Stanton), al suo ritorno in Inghilterra la pellicola si era ormai irrimediabilmente – o forse no – danneggiata. Così per sfuggire dalle mani di un perfido riccastro a cui aveva promesso di vendere il filmato, decise di ricostruire il set dell’autopsia in casa della sorella di Gary, di farsi dare un manichino dall’amico della nonna e di assoldare il suo kebabbaro di fiducia come regista. Il tutto devo ammettere che è parecchio divertente, soprattutto le continue incursioni della nonna che irrompe più volte durante le riprese per offrire biscottini agli “attori”.
Il tono della pellicola, molto british humor, è sempre leggero e piacevole. L’ora e mezza vola via che è un attimo, vuoi per interessi miei personali, vuoi perché la storia è costruita bene ed ha un colpo di scena finale molto romanzato ma che mi piace credere corrisponda alla realtà: ovvero che un proiezionista sia riuscito a recuperare parte del filmato originale in cui si vede l’essere alieno su una barella circondato da alcuni militari.
La sensazione è che la verità non la sapremo mai, soprattutto per bocca di Santilli che con questo filmato ci ha guadagnato una barcata di soldi vendendolo alle tv di mezzo mondo e di far luce sulla vicenda penso sia l’ultima cosa che desidera.
Quello di infettare con fantomatiche prove false lo scenario ufologico, si dice sia una delle manovre più diffuse da parte dei governi per coprire la verità. E una delle tante ipotesi sul Santilli Footage sosterrebbe che questo filmato è sì finto, ma creato appositamente dalle forze americane per sviare l’attenzione su qualcos’altro, anche se rimangono mille e più dubbi.
Comunque, alla fine della fiera, quel che sembra sicuro è che Ray Santilli è diventato ricco riempiendo un manichino con budella e frattaglie varie, se non ci credete guardate questo film, che al di là dell’interesse che si può avere sul tema trattato è fatto discretamente bene.

martedì 5 gennaio 2010

The Roe's Room

Lech Majewski è un regista, poeta, compositore e pittore nato in Polonia nel 1953 ma residente negli Stati Uniti dal 1981. Autore sperimentale, ama fondere diverse discipline nelle sue produzioni, tra le quali si può ricordare Basquiat (1996, nelle vesti di soggettista), oppure Life Hurts (1999) che racconta la vita del controverso poeta polacco Rafał Wojaczek, senza dimenticare Glass Lips (2007) opera composta da 33 video sull’infanzia di un giovane poeta che furono presentati alla 52 ° Biennale di Venezia con il titolo Blood of a Poet. Per questo Pokój saren (titolo originale, 1998), Majewski compone tutte le musiche che sono la colonna portante del film poiché ci troviamo dinanzi ad un’opera, definita autobiografica dallo stesso autore, che può essere considerata sotto certi punti di vista una vera e propria opera lirica tanto poetica e bella da vedere quanto indecifrabile nella sua sostanza.
Ciò che noi vediamo è una famiglia composta da un padre anziano, una madre e il loro figlio, vivere la quotidianità della vita all’interno del proprio appartamento, mentre in sottofondo scorrono le carambole musicali dell’orchestra sinfonica accompagnate dalle potenti voci che descrivono (più o meno, molto meno che più) ciò che accade.
L’impostazione registica è molto particolare, sfruttando il fatto di aver costruito una sorta di opera lirica, Majewski filma il tutto con occhio teatrale; quasi tutte le scene sono riprese attraverso carrellate che si muovono in orizzontale proprio come se si stesse assistendo ad uno spettacolo in teatro e il nostro sguardo si muovesse da un punto all’altro del palco. Gli unici momenti di stacco sono costituiti dal primo piano del figlio sovrapposto ad una inquadratura in movimento sullo sfondo che fa molto Medea (1988) trieriana.
Il film si costituisce in quattro parti corrispondenti alle rispettive stagioni dell’anno. Partendo dalla primavera il regista pone un parallelo tra la vita e la natura, con il procedere del tempo all’interno della casa nasce della fitta vegetazione che verrà estirpata dal padre con una falce che si tramuta in sinistro presagio di morte. Morte che inevitabilmente arriva con il gelo dell’inverno.

Questa è una mia superficiale interpretazione in quanto in un film come The Roe’s Room ognuno ci vede un po’ quello che vuole grazie alla sua costruzione suggestiva, al pari dell’ungherese Hukkle (2002) che con il film di Majewski ha forse più di un punto in comune. Tuttavia all’innegabile bellezza visionaria di alcune situazioni, non posso non rimarcare quello che per me è un difetto macroscopico: non c’è una storia, non c’è il racconto. Sono solo tanti quadri, anche belli per carità, messi in sequenza. In altre parole non esiste una trama, e senza una logica nell’intreccio degli eventi accade che un autore possa sbizzarrirsi nell’inserire le stranezze più strane che gli vengono in mente, come chessò… mettere dei cerbiatti che brucano l’erba nella casa.
Purtroppo se manca il tessuto narrativo è difficile che riesca a digerire un’opera, anche se ammaliante come questa. Preferisco una storia banale ma raccontata bene, che una storia originale raccontata male. Questo è quanto.

domenica 3 gennaio 2010

Il vento fa il suo giro

Ambientato interamente a Ussolo, piccolo paesino disperso nelle splendide valli occitane della provincia di Cuneo, Il vento fa il suo giro (2005) è il primo lungometraggio di Giorgio Diritti, regista classe ’59 e una gavetta al fianco di grandi autori come Lizzani e Avati. L’opera, parlata in tre lingue (italiano, francese e occitano), è interpretata quasi esclusivamente da abitanti del luogo che per una volta hanno vestito i panni degli attori.
E l'aura fai son vir (questo è il titolo in lingua d’oc che riprende un detto popolare) racconta la storia di Philippe, ex professore francese stufo della burocrazia scolastica ed ora dedito alla pastorizia, che rientrando dalla Svizzera si imbatte per caso nel paesino di Chersogno. Affascinato dal luogo cerca una casa per vivere insieme a sua moglie Chris e i tre piccoli figli. La comunità si mostra diffidente nei suoi confronti, ma grazie all’aiuto del sindaco Costanzo che “promuove” l’arrivo del francese ai suoi concittadini, Philippe riesce a mettere su casa e stabilirsi nel piccolo borgo. Il suo arrivo, però, mina inevitabilmente l’equilibrio del paese.

Bello, veramente. Con tutti i limiti che un prodotto del genere può avere, ma davvero bello, sincero, genuino, diretto. Il ritratto rustico del paesino di montagna che si fa micromondo è lo specchio della nostra società che dis-integra le coscienze adagiandosi su stereotipi triti e ritriti che non portano a niente, anzi, che portano AL niente.
La premessa della storia ha in sé elementi di prevedibilità significativi: l’arrivo di un corpo estraneo; l’impatto con la comunità; gli effetti da esso derivanti. Tuttavia il suo svolgimento è di un’intima armonia tale che si traduce in poesia rurale: nella saggezza contadina della semina, nei racconti intorno ad un caminetto, nella spossante fatica del raccolto.
La morale del film (o meglio, una delle tante a seconda dei piani di lettura) sulla diversità risulta toccante nella sua estrema semplicità. Nessuna enfatizzazione né ricerca di una solennità lirica, tutto accade per ordine naturale (come da titolo), in una sequenzialità fatta di piccole abitudine incastrate nella ciclicità del tempo (il pensiero va a Beş Vakit, 2006), di inconsapevoli orrori quotidiani.

Disarma la bellezza di alcuni paesaggi, colpisce l’accanimento, sottile ma inesorabile, nei confronti di Philippe da parte degli altri abitanti: gesti intimidatori (un barattolo di vermi lanciato nella stalla del francese); false accuse (la vecchia Emma disposta a fracassarsi due dita con una bastonata per incolpare il pastore); azioni violente (le capre uccise e appese per le zampe).
La sensazione è che un paesino immerso in un paradiso cova il male, anche inconsapevolmente. Perché nell’ottica dei suoi abitanti difendersi con qualunque mezzo da ciò che è altro, conserverebbe - per essi - intatta l’identità culturale e morale del paese, senza capire che così facendo si alimenta solo l’odio verso propri simili. Ed il bello è che, nel caso dei vermi e delle capre, non verremo a sapere chi ha commesso tali brutalità perché, come d’altronde ci ha fatto vedere Haneke ne Il nastro bianco (2009), è più importante cercare di comprendere i motivi piuttosto che i colpevoli.
E risuona come una beffa il fatto che alla fine a rimetterci di più sia forse l’unico innocente di Chersogno, lo scemo del paese che correva a braccia tese per i campi, sfiorando quel vento che tutto fa ritornare. Anche la fiducia nel nostro cinema.