Mai come questa volta sono con le spalle al muro. No, non c’è nessuno che vuole farmi il carretto, è che non so come classificare questo film: è una commedia? Fantascienza? Oppure è un film drammatico? Forse è tutto questo amalgamato, con l’aggiunta di un qualcosa che a visione ultimata mi sfugge. Stavolta Park Chan-wook mi ha tirato un brutto scherzo, dopo la trilogia della vendetta attendevo con impazienza di vedere questa sua ultima fatica, ma dopo quasi due ore sono rimasto un po’ deluso. Deluso e spaesato. Non sono riuscito a capire il senso, il messaggio; il regista non ha creato quel ponte che mi trascina nella storia rendendomi partecipe di quello che succede. Non mi ha coinvolto.
Peccato visto che le premesse c’erano tutte: una ragazza viene rinchiusa in un manicomio perché pensa di essere un cyborg, nella clinica incontra un giovane che crede, e fa credere, di poter rubare le qualità altrui. Così quest’ultimo aiuta il “cyborg” a riavvicinarsi al cibo, in quanto lei era convinta che gli alimenti potevano danneggiare i suoi circuiti, e fra i due nasce l’amore, o qualcosa di simile.
Gli altri pazienti del manicomio sono tutti divertentissimi, c’è un tizio che chiede sempre scusa e cammina all’indietro, c’è una grassona che mangia in continuazione, per non parlare dei dottori buffi e squinternati come i pazienti che hanno in cura. Ma ai fini della storia non hanno alcuna implicazione, la loro presenza è solo un contorno, divertente ma inutile.
Il passato dei due protagonisti non è spiegato in maniera limpida, lei ha una nonna che mangiava continuamente rafani (ho imparato oggi che cosa sono) e topi, per questo fu rinchiusa anche lei in un manicomio. La nonna però ha un ruolo importante nella vita della ragazza, grazie alla sua dentiera il “cyborg” riesce a comunicare con tutto ciò che possiede dei circuiti, ed inoltre è profeta sul suo futuro. Per quanto riguarda il ragazzo si sa che è stato abbandonato dalla madre e niente di più.
A ben vedere ci potrebbe essere un sotto-testo che riguarda l’anoressia, il “cyborg” non mangia perché non vuole rovinare i circuiti, e a costo di difendere i suoi ingranaggi rischia la vita, così come molte ragazze affette da disturbi alimentari, però è un argomento spinoso di cui so poco e quindi non mi addentro nella questione.
Resta il fatto però che Park Chan-wook sia un grande regista. E lo si capisce fin dai folli titoli iniziali. Ho notato che utilizza spesso gli specchi creando delle “contro-inquadrature”, in più riutilizza lo stesso elastico del suo episodio intitolato Cut nella serie Three… Extremes (2004), chi l’ha visto sa di cosa parlo. La scena cult, che probabilmente verrà ricordata a lungo, richiama timidamente alla violenza dei suoi precedenti film perché la protagonista, in un suo sogno, ormai completamente “ricaricata” fa una strage nel manicomio sterminando tutti i dottori grazie a dei cannoncini che compaiono in fondo alle dita. L’odio per i camici bianchi, così vengono chiamati, è alimentato dal sentimento di vendetta che la ragazza prova in seguito all’internamento della nonna. Ecco dunque che ritorna anche qui il tema della vendetta evidentemente molto caro al buon Park.
A chi si aspetta un seguito della "vendetta" rimarrà deluso, rimane però un’opera esteticamente pregevole con dei contenuti non facili da recepire.
Peccato visto che le premesse c’erano tutte: una ragazza viene rinchiusa in un manicomio perché pensa di essere un cyborg, nella clinica incontra un giovane che crede, e fa credere, di poter rubare le qualità altrui. Così quest’ultimo aiuta il “cyborg” a riavvicinarsi al cibo, in quanto lei era convinta che gli alimenti potevano danneggiare i suoi circuiti, e fra i due nasce l’amore, o qualcosa di simile.
Gli altri pazienti del manicomio sono tutti divertentissimi, c’è un tizio che chiede sempre scusa e cammina all’indietro, c’è una grassona che mangia in continuazione, per non parlare dei dottori buffi e squinternati come i pazienti che hanno in cura. Ma ai fini della storia non hanno alcuna implicazione, la loro presenza è solo un contorno, divertente ma inutile.
Il passato dei due protagonisti non è spiegato in maniera limpida, lei ha una nonna che mangiava continuamente rafani (ho imparato oggi che cosa sono) e topi, per questo fu rinchiusa anche lei in un manicomio. La nonna però ha un ruolo importante nella vita della ragazza, grazie alla sua dentiera il “cyborg” riesce a comunicare con tutto ciò che possiede dei circuiti, ed inoltre è profeta sul suo futuro. Per quanto riguarda il ragazzo si sa che è stato abbandonato dalla madre e niente di più.
A ben vedere ci potrebbe essere un sotto-testo che riguarda l’anoressia, il “cyborg” non mangia perché non vuole rovinare i circuiti, e a costo di difendere i suoi ingranaggi rischia la vita, così come molte ragazze affette da disturbi alimentari, però è un argomento spinoso di cui so poco e quindi non mi addentro nella questione.
Resta il fatto però che Park Chan-wook sia un grande regista. E lo si capisce fin dai folli titoli iniziali. Ho notato che utilizza spesso gli specchi creando delle “contro-inquadrature”, in più riutilizza lo stesso elastico del suo episodio intitolato Cut nella serie Three… Extremes (2004), chi l’ha visto sa di cosa parlo. La scena cult, che probabilmente verrà ricordata a lungo, richiama timidamente alla violenza dei suoi precedenti film perché la protagonista, in un suo sogno, ormai completamente “ricaricata” fa una strage nel manicomio sterminando tutti i dottori grazie a dei cannoncini che compaiono in fondo alle dita. L’odio per i camici bianchi, così vengono chiamati, è alimentato dal sentimento di vendetta che la ragazza prova in seguito all’internamento della nonna. Ecco dunque che ritorna anche qui il tema della vendetta evidentemente molto caro al buon Park.
A chi si aspetta un seguito della "vendetta" rimarrà deluso, rimane però un’opera esteticamente pregevole con dei contenuti non facili da recepire.
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