martedì 31 ottobre 2023

Free World Pens

Il fratello, senza che siano forniti ulteriori dettagli, viene incarcerato in una prigione texana, la sorella ripercorre il periodo di detenzione durato anni unendo il cinema e la scrittura.

Non è chiaro se i protagonisti di questo Free World Pens (2015) siano effettivamente Nika Khanjani e suo fratello minore, non sappiamo, in sostanza, se la storia narrata dal cortometraggio sia vera o meno, ma in fondo questioni del genere passano in secondo piano se l’esemplare artistico con il quale dobbiamo confrontarci è più che decoroso a prescindere da un’eventuale veridicità dei fatti. Del resto non mi è sembrato che la regista di origine iraniana ma canadese d’adozione puntasse a fare un film di denuncia, il taglio estetico che ha dato alla sua creatura e che subito si fa peculiare, ha un’essenza che si occupa in prima battuta del particolare ma che ad uno sguardo più ampio punta ad una sorta di totalità, di grande abbraccio che accoglie in sé un oltre rispetto al rapporto consanguineo raccontato sullo schermo. Premessa: non c’è davvero niente di nuovo qua, la mossa della Khanjani è risaputa: prendere la forza che risiede nell’intimità di una e mille lettere per srotolarla su un corredo di immagini che non hanno praticamente nulla a che fare con le parole proferite. Formula nota che fa sempre il proprio sporco lavoro. E queste immagini: per spararla grossa pare di rivedere le traiettorie raminghe del Malick 2.0, tutta sospensione e fluttuazione, in dolcezza. Il paragone non può starci, ovvio, però assistere al movimento della videocamera attraverso gli spazi e i tempi di Montréal suscita un po’ di piacevole malia.

La questione è che il contrasto tra le aperture ambientali e il focus sul carcere accende il significato dell’opera, l’ossimoro è specificatamente visivo, l’occhio è libero di girare in una città in cui si avvicendano le stagioni mentre l’orecchio sente una testimonianza di isolamento, di reclusione. Il discorso poi potrebbe pure allargarsi diventando biunivoco. Non sono convinto al 100% che la filmmaker abbia in tal senso centrato il bersaglio, ad ogni modo ciò che emerge è una sofferenza che proviene anche dal versante femminile, da colei che vive un’esistenza normale come tante altre, è un malessere trasversale quindi che dovrebbe farci interrogare su quali siano i confini di quella che chiamiamo libertà, e su come la suddetta libertà venga spesso percepita erroneamente come una gabbia, ma Free World Pens non ha a mio avviso il potere di illuminare riflessioni così profonde, si ferma qualche metro prima. E non gliene faccio una colpa.

lunedì 30 ottobre 2023

The Last of Us

Non credete a ciò che si legge in giro, Akher Wahed Fina (2016), primo lungometraggio di finzione del regista tunisino Ala Eddine Slim passato anche a Venezia ’16, è un film che si comprende piuttosto agilmente perché ha un’evoluzione molto più lineare di quanto in realtà mostra. Il punto di partenza è palesemente un richiamo alla contemporaneità, e, devo ammetterlo, anche io ci sono cascato, nel senso che ipotizzavo uno sviluppo esclusivamente sulla base di tale avvio cronachistico attraverso la presenza di un macro-tema (l’immigrazione in Europa) affrontato con metodo autoriale per l’intera durata dell’opera, sicché la prima mezz’ora introduttiva, oltre a farci capire il mood della storia (i dialoghi sono assenti), si impegna a rappresentare una delle tante odissee che si consumano qualche chilometro più a sud di dove abitiamo noi, e lo fa con discreto piglio scaraventando il protagonista N in un paesaggio che un giorno è lunare e quello dopo, a seguito di una fuga (discreta l’improvvisa aggressione sul furgone) e di un altro viaggio nel viaggio, è urbano in una qualche città del Nordafrica. C’è del mestiere nella mano di Slim, l’attenzione agli scorci paesaggistici, i contrasti diurni/notturni e la varietà degli angoli di visuale fanno di The Last of Us un prodotto di medio-alta fattura, ed io ero pronto ad analizzare la pellicola senza mai scostarmi da una visione che dialogasse in maniera serrata con le notizie dei telegiornali, invece dopo il lungo preambolo N sale su un guscio di noce per compiere una traversata che si preannuncia impossibile. Qui il film cambia pelle, è innegabile, ma superato il disorientamento iniziale, continuo a ritenere che la progressione della vicenda sia piana e altamente accessibile.

L’importanza della sequenza sulla barchetta è sottolineata dall’inserimento di alcune didascalie dall’aperta interpretazione, è condivisibile vedere nel tragitto sull’acqua una traslazione di innumerevoli altri tragitti in chiave astratta. L’arrivo sulla terra non-promessa dà il via ad un mutamento filmico, stop alla tragica epica odierna a beneficio di un racconto che punta alle radici, temperato da un corredo simbolico con vista sulla trascendenza. D’improvviso un ricordo emerge dalle nebbie del tempo: Naufragio (2010) di Pedro Aguilera, pregevole stoccata dalle sembianze dumontiane (quando Dumont faceva un certo tipo di cinema), che ha in comune con The Last of Us un simile movimento dal concreto al metafisico lasciandosi dietro una scia di mistero. Forse Aguilera arriva più in alto, ma anche Slim si stacca dal suolo, il procedimento si accende verso la fine, prima abbiamo una porzione illustrativa che a mio avviso mette in scena la proiezione futuribile di N, ovvero M, il ragazzo è, e sarà, l’eremita barbuto, in questo territorio libero dalle leggi della razionalità è piacevole abbandonarsi a intuizioni esegetiche non constatabili, per cui assistendo alla morte del vecchio potrebbe compiersi un passaggio di testimone (al di là dell’età anagrafica, i due per tratti somatici, capigliatura e vestiario si assomigliano molto), il realizzarsi di un nuovo sé, sempre, però, in una dimensione incerta, quasi purgatoriale. Giunti alla sostituzione dei ruoli sullo schermo, è difficile intendere ancora N come un profugo, la questione pare dissolversi in favore di una discesa o ascesa verso l’originarietà, un precipitato di robe universali e primitive. Mi sta bene, non ho molto da obiettare nei riguardi della piega che la narrazione prende, se pensiamo all’uomo come il fantasma di un corpo sul fondo del Mediterraneo in cerca di una definitiva liberazione terrena il finale con la disgregazione weerasethakuliana riconcilia l’istanza della carne con quella dello spirito.

E quindi, il debutto nella fiction di Ala Eddine Slim merita il nostro sguardo? Credo di sì, tuttavia mi permetto di emettere un’avvertenza: alla sopraccitata chiarezza del film velata da un’enigmaticità che si risolve senza sforzi erculei, aggiungo che questo cinema risulta troppo “pulito”, il motivo è dato dal fatto che comunque trattiamo un registro di totale finzione e la cosa si sente e si vede, se la corrente d’artificio si fosse prosciugata nel canyon del reale ne avrebbe giovato l’intero impianto, allora sì che la prima parte sarebbe risultata maggiormente pregna di disperazione, solitudine e sconforto mentre nella seconda gli slanci surreali (la palla di luce: affascinante) avrebbero fatto decollare il tutto. Con serenità aspettiamo Tlamess (2019), se ne dice sia un gran bene che un gran male, i presupposti sono ottimi.

domenica 29 ottobre 2023

I’ve Seen the Unicorn

The Crying Conch (2017), che arriverà tre anni dopo, pur essendo un cortometraggio presenterà una fattura diversa rispetto a I’ve Seen the Unicorn (2014), non dico migliore o peggiore (sì, presumo migliore, ma non ne faccio una gara), però sicuramente più dentro ad un certo cinema autoriale d’oggidì, festivaliero quanto si vuole ma comunque, a tratti, piacevole. Qui il quadro in cui Vincent Toi si muove è quello del documentario simil-etnografico, il regista gioca in casa occupandosi di una manifestazione sportiva tipica della Repubblica di Mauritius, una corsa equina chiamata Maiden Cup, strascico della colonizzazione britannica terminata nel 1968, e, non a caso, il film si apre su delle immagini d’archivio relative alla cerimonia di indipendenza della nazione insulare. Sulla carta mi aspettavo un approccio sociologico e magari anche storico con qualche licenza contemplativa/astraente, nel concreto l’opera ha delle modalità espositive nonché realizzative abbastanza basiche, il taglio dato dal filmmaker è di tipo riprendo-la-realtà-e-poi-ci-lavoro-sopra, che poi è il metodo di praticamente tutti coloro che campano con la settima arte, ma per I’ve Seen the Unicorn la cosa si vede e si sente in modo forse fin troppo chiaro. Tutto è, diciamo, sotto controllo, nel depliant illustrativo mauriziano si coglie una lieve ricerca di coralità che rimbalza da un ragazzino con il sogno di diventare fantino, un fantino irlandese professionista, un muratore rasta che ama scommettere sui cavalli e altri soggetti connessi in qualche maniera alla competizione, nella sua semplicità questa ragnatela di testimonianze può anche andare, va da sé che non ci si può aspettare di trovare altro che non sia ciò che vediamo.

Che poi le intenzioni di Toi credo di averle carpite, l’obiettivo era di fornire il ritratto di un Paese che, seppur piccolo e sperduto in mezzo al mare, fa parte del nostro tempo e di come tale Paese vive tutt’ora il suo periodo post-colonialista, di come, in sostanza, stanno le cose a Mauritius, e per fare ciò ha deciso di utilizzare la lente di ingrandimento fornita da un evento ippico in apparenza un po’ anomalo su un’isola del genere, e che invece è assolutamente radicato nella cultura del luogo. Le eventuali connessioni con il passato al pari di quelle con il presente non fanno scattare la celeberrima scintilla, il film procede nel proprio solco dall’inizio alla fine senza riservare particolari sorprese, né negative né positive. Considerando che si tratta di un debutto quanto asserito dal sottoscritto va ben ben filtrato, più che interessante lo definirei curioso per l’argomento affrontato perché ci mostra un posto famoso per noi occidentali soltanto in ambito vacanziero, resta che dalla mia posizione di appassionato cinefilo speravo che Toi avesse già un tocco distintivo maggiormente marcato.

sabato 28 ottobre 2023

Notre-Dame-des-Monts

L’immagine di un uomo anziano sdraiato su una roccia apre Notre-Dame-des-Monts (2016), di quest’uomo e del luogo in cui si trova (sebbene ad una rapida ricerca è agevole localizzare l’omonima zona nel Québec) non sappiamo nulla. Una tale assenza di coordinate, geografiche ma anche narrative, è alla base di quel cinema che mi permetto di definire rurale e che conosciamo piuttosto bene, illustri registi hanno operato in siffatta direzione per levare il superfluo e lasciare la nuda radice, o la parvenza di essa, di fronte alla mdp. Anche il canadese Martin Rodolphe Villeneuve nel suo piccolo continua la tradizione contemplativa affidandosi alla carica primigenia contenuta in un ambiente bucolico, per cui, nonostante sia incontrovertibile che non abbiamo informazioni certe su chi sia il signore sullo schermo, che ci faccia lì o perché sia costretto a dormire in un fienile abbandonato, la cornice immortalata dal filmmaker ed il metodo di trasmissione adottato, fanno in modo che comunque si crei una storia anche se una storia, di fatto, non c’è. Certo, ci sono esempi nell’ambito appena descritto che hanno una caratura infinitamente più autorevole, le manifestazione autoriali di un Serra, di un Alonso o di un Dumont quando era ancora un regista intransigente, sono su un altro pianeta rispetto a Villeneuve, diciamo che qui qualcosa si subodora, c’è del buono, c’è della materia prima ben lavorata.

A proposito del caro ex professore di filosofia nato a Bailleul, in Notre-dame-Des-Monts la suggestione che tocca quelle corde non subito visibili è di stampo religioso. Un’eco neanche troppo celata si diffonde nel cortometraggio con la figura centrale e frontale di una statuetta raffigurante la Madonna. Facile pensare a delle possibilità, del tipo che il capannone possa rappresentare un guscio protettivo che dà una notte di pace e conforto al vagabondo, la scena in cui viene sfilato via il chiodo dal petto della scultura ha una sua cifra evocativa, il sottoscritto ci ha visto un avvicinamento sì fisico (il senzatetto la tiene con sé nel suo giaciglio durante il sonno), ma soprattutto spirituale ad uno stato superiore, una richiesta di aiuto e di accettazione verso un’entità in miniatura sporca e dimenticata ma pur sempre divina. Alla fine ciò che emerge è il ritratto di una solitudine che può anche essere astratta, universale, che esula dal particolare per farsi generale: tutti noi, nella nostra vita, abbiamo bisogno di un rifugio dove racimolare briciole di speranza. Io, ad esempio, dal 2007 le cerco e le trovo in questo blog.

venerdì 27 ottobre 2023

Je flotterai sans envie

Tappa conclusiva del progetto tripartito dedicato al giovane Arno, Je flotterai sans envie riporta come data di uscita il 2008 ma a conti fatti potrebbe stare benissimo prima di Compilation,12 instants d’amour non partagé (2007) e Vosges (2006, il più breve e sperimentale del trio). Questo perché qui si consuma l’effettivo distacco tra Frank Beauvais e la sua imberbe fiamma, anzi, più che distacco quello di Arno è un progressivo sottrarsi, sfuggire, scappare via, e in un tale movimento di fuga anche il cinema ne esce con le ossa rotte. L’idea del regista francese era infatti di coinvolgere il ragazzo in un non ben specificato percorso, tuttavia, pur provandoci a più riprese, il film rimane nell’area delle velleità e a Beauvais non resta che constatare di come anche la sua relazione, esattamente come l’opera che ha in mente, è destinata al fallimento. Il parallelo tra la liaison impossibile e il manufatto continuamente interrotto è piuttosto interessante per modi, tempi ed anche a conclusioni a cui si giunge, perché comunque, a prescindere da tutto, qualcosa viene a galla, ovvero I’ll Be Floating..., il mediometraggio in oggetto, così come anche del rapporto tra i due, seppur reciso e addirittura rifiutato da Arno, permane della brace che non riesce a spegnersi completamente.

Mi ripeterò ma queste produzioni giovanili di Beauvais (e anche quella più recente: Just Dont Think Ill Scream, 2019) mi ricordano molto l’approccio di Vincent Dieutre, in aggiunta ci metterei anche un po’ di João Pedro Rodrigues (forse sono influenzato dalla location portoghese) per la capacità di ricamare sulla realtà nonostante l’impianto generale risulti ancora leggermente grezzo. L’aspetto da videodiario che emerge accusa i quasi tre lustri sul groppone, qualche scelta tecnica inoltre appare un filo datata (mi riferisco per esempio al fatto di accelerare alcune sequenze) però credo sussista una coerenza tra le immagini ed il corrispettivo narrativo costituito soltanto da dialoghi fuori campo tra i due protagonisti, cioè c’è un legame tra l’estetica ed il flusso di parole che arriva alle nostre orecchie, e non tanto in termini didascalici quanto nei sentimenti che vengono espressi. Peccato che gli ultimi dieci minuti siano incentrati su un monologo di Arno sull’amore che non mi ha convinto in pieno, povero Frank poi friendzonato da un pischello ma le sue competenze professionali rimangono valide, Beauvais è per me un valido autore che va approfondito.

giovedì 26 ottobre 2023

Red Moon Tide

Era molto atteso e non ha deluso, il secondo lungometraggio di Lois Patiño dopo Costa da Morte (2013) è una ricerca su come possa esistere un raccordo tra intransigenza estetica e filigrana narrativa, e al contempo farsi scenario di un’ulteriore ricerca, ’sta volta interna al cinema del galiziano, in un atto di esplorazione e – forse – trasformazione. Parto da qui: con Lúa vermella (2020) il regista compie un movimento piuttosto inaspettato: si avvicina, proprio fisicamente, agli esseri umani. Sì, già in Noite Sem Distância (2015) erano percepibili delle avvisaglie, però niente di paragonabile a quanto viene mostrato in questo film dove gli abitanti di un villaggio costiero vengono ripresi da breve distanza, addirittura con dei primi piani. Si tratta, comunque, di una constatazione superficiale, le persone sono più vicine a noi spettatori eppure, per paradosso, nella filmografia di Patiño non sono mai state così lontane, sono assenti, vivono in uno stato catatonico dove i loro pensieri, aggiunti a mo’ di commento off, rimandano ad un folklore nebbioso e indefinito. Ecco dunque che subentra la componente “storia”, uno scheletro, una mappa (ce n’è una che apre l’opera) che sprofonda nel mito, nelle credenze popolari, e mi sento di dire che il filmmaker è in grado di trovarsi veramente a suo agio in un contesto del genere, ciò che tira fuori da un tale brodo di superstizioni e suggestioni ha tutta una sua lodevole energia che pesca da esemplari magari minori (per il flirtare con il sibillino mi ha ricordato Sin Dios ni Santa María, 2015) fino a riprendere firme prestigiose del panorama autoriale (c’è del Dumont horssataniano nella resurrezione di Rubio). Sia chiaro: Patiño ha già una sua linea personale, le citazioni di altri colleghi non ne fanno di certo un epigono, anzi mi spingo a dire che se manterrà invariata la qualità dei suoi lavori futuri sarà lui a fare didattica, a fare scuola.

Ribadendo la mortificazione che si procura alle produzioni dello spagnolo nel vederle su piccolo schermo invece che su quello grande, con Red Moon Tide si riesce comunque a godere, e tanto, del pregevole impianto formale elaborato per l’occasione. Che Lois fosse bravo nel comparto naturalistico lo si sapeva, chiaro, fino ad oggi eravamo consci di non avere a che fare con un documentarista classico, ma lo step compiuto per Lúa vermella è davvero notevole e regala scorci e accostamenti da applausi. La forza di un oggetto che non si può negare sia abbastanza ostico, almeno per chi non ha vasta esperienza cinefila nel settore, risiede sicuramente nell’alto tasso di fascinazione che è capace di imprimere, sarà banale sottolinearlo ma la potenza delle immagini, seppur calate in una confezione sedata e quindi contemplativa, esplode sullo schermo in continue detonazioni cristalline, roba che può dialogare senza paura con l’arte visuale di un Matthew Barney meno ossessionato dal simbolo. E in subordine, ma mica tanto perché alla fin fine il nocciolo atomico che arde è proprio qua, si sente (corsivo d’obbligo, siamo ben al di là della razionalità, conta il sentire, e basta, il resto è breviario netflixiano) che le suddette immagini non sono un collage fine a se stesso assemblato per gonfiare l’ego del suo creatore, no, c’è un dialogo importante tra l’uomo e la natura (la diga vs. il mare), c’è un ritmo (ampio merito anche al sonoro), c’è una progressione (il viaggio delle tre streghe), c’è una catarsi (l’impeto acqueo virato in rosso). Racconto per immagini è una frase fatta? Sì, allora invertiamo: immagini (sublimi) di un racconto. Gli unici appunti che mi sento di avanzare sono giusto dei dettagli: 1) non avrei scelto di “freezare” gli esseri umani perché richiamano quelli di Roy Andersson e 2) la scelta dei lenzuoli bianchi per i fantasmi avrebbe il suo impatto se non avessimo visto Finisterrae (2010) o Storia di un fantasma (2017), per il resto inchini a profusione verso Patiño.

martedì 24 ottobre 2023

Photo Jaunie

Vi dico subito che siamo dalle parti di Un’ora sola ti vorrei (2002), Lettre d’un cinéaste à sa fille (2002), Elena (2014), El silencio es un cuerpo que cae (2017) e chissà quanti altri esempi che si posano sul medesimo dispositivo filmico, ovvero quello di ripescare del materiale d’archivio girato direttamente da un proprio famigliare stretto e riproporlo nella contemporaneità del cinema con tutta una serie di possibili riflessioni attirate e/o irradiate dall’oggetto di studio. Nello specifico la mano dietro a Photo Jaunie (2016) è canadese e risponde al nome di Fanie Pelletier (regista che nel 2022 ha esordito nel lungo con Jouvencelles), una donna, una ragazza, ma soprattutto una figlia che per il suo cortometraggio ha deciso di assemblare i tipici filmini casalinghi tenuti in soffitta a prendere polvere con degli stralci diaristici letti da un narratore esterno appartenuti al padre Yvan morto di cancro nel 2000. L’operazione, al pari di tutte le altre che le assomigliano, è, e lo ricorderò fin che campo, markeriana fino al midollo, per cui ciò che ci troviamo davanti è un flusso audiovisivo che mescola la forza del passato, così “emersiva” quando viene adeguatamente trattata, e la residualità del presente, di chi rimane, di chi ricorda. Pelletier, nel costruire il suo lavoro breve, ha voluto far conoscere al mondo esterno un altro mondo, tutto interiore, che dimorava nell’animo del papà, i pensieri dell’uomo, a volte frustrati, altre volte pessimistici ma con schiarenti raggi di luce ad accarezzarli, si prendono la scena e in assoluta sincerità chi sono io per obiettare qualcosa al cospetto di siffatta cifra intima?

Meno di nessuno, però, se mi si permette il giochino comparativo, è vero che Faded photograph ha molto da condividere con i titoli citati all’inizio, impostazione e finalità generali sono praticamente sovrapponibili, tuttavia la cara Fanie non è arrivata in quelle zone ad alta intensità emotiva dove sono giunti i suoi colleghi. Il motivo è per me da rintracciare nella scelta, legittima, per carità, di non aver davvero rivoltato come calzini le immagini di ieri, di non aver creato un ponte multipercorribile con l’oggi. Non c’è una concreta indagine introspettiva su di sé e sul rapporto paterno, né un utilizzo del cinema come tavola ouija, si tratta essenzialmente di una biografia, tenera e accorata, ben realizzata e ricolma di amore, oltre non si va, ma forse, assistendo a quel finale in crescendo, può anche andare bene così. 

Puntate i fari su La Distributrice de Films, una casa di distribuzione quebechiana che ha un catalogo molto, molto accattivante.

lunedì 23 ottobre 2023

See No Evil

Pur riconoscendo alcune sue qualità, devo ammettere che See No Evil (2014) non ha particolarmente acceso il mio entusiasmo cinefilo. Credo che all’olandese Jos de Putter, a quanto leggo un professionista dentro al mondo-cinema da parecchi anni e con titoli sulla carta abbastanza interessanti, sia un po’ sfuggita di mano quell’eticità dello sguardo che deve essere sempre tenuta tra le priorità per chi fa questo mestiere. La triplice veduta offerta a noi spettatori che corrisponde al ritratto di altrettanti primati sulla via del pensionamento (una star del grande schermo, uno scimpanzé super intelligente e un altro vessato da problemi motori), non si scrolla mai di dosso quella retorica del “guardate quanto gli animali sono simili a noi”, come se non fosse un fatto già ampiamente assodato in ogniddove, soprattutto per scimmie e affini. Non è che la questione sia ammorbante, cioè è sempre simpatico osservare delle caratteristiche antropomorfe in animali che non siano gli umani e quindi vedere Cheeta mangiare col cucchiaio o Kanzi interagire con un pannello elettronico fa sorridere, pensare, porre quesiti, ecc., però incastrare l’intero orizzonte tematico di un’opera all’interno di questa nozione l’ho trovato un po’ limitato. Attenzione poi perché una volta constatata la faccenda uomo = scimmia, de Putter con l’ultimo segmento compie il giro completo, quello che prosegue dalla succitata somiglianza fino al “ma quanto fa schifo l’umanità che in nome delle sue teorie calpesta i diritti degli indifesi?”, sì sì, è così, è stato, è e sarà anche se si spera in una progressiva eco-civilizzazione, però, ancora, non ho ritenuto sufficientemente accattivante la chiosa concettuale a cui il film giunge, son cose risapute, suvvia.

Ad onor del regista mi sento comunque di dirgli che l’ultima parte, al di là della mancata presa teorica nei confronti di chi scrive, è quella cinematograficamente più convincente perché rispetto alle altre due si asciuga nel campo della descrizione (e ad ogni modo non abbiamo assistito ad una sciatta illustrazione nemmeno per i primi due capitoli) e lascia che il documentario si adagi sulla realtà di cui si occupa senza sottolineature troppo evidenti, c’è Knuckles, la sua sofferenza, le sue difficoltà nel deambulare e la sua solitudine, che forse è condivisibile per tutto il trio, ma in lei l’ho vista più accentuata. Certo, ci sono degli interventi tecnici di de Putter perché vengono inseriti nel montaggio dei filmati di archivio relativi a vari e crudeli esperimenti del passato oltre a delle brevi soggettive non utilizzate per le precedenti protagoniste che ci suggeriscono uno spaesamento più mentale che fisico, tuttavia questi accorgimenti non li ho trovati invadenti bensì funzionali all’esposizione della storia in oggetto, del resto l’impostazione generale è gradevole e si capisce che chi sta dietro la mdp sa lavorare bene, è stato diciamo il cosiddetto messaggio a non aver toccato quelle corde che vorrei venissero toccate quando ho a che fare con la settima arte.

domenica 22 ottobre 2023

Elon Doesn't Believe in Death

Non ritengo ci siano molte chiacchiere da fare per Elon Não Acredita na Morte (2016), questo debutto nel lungo che ho visto con colpevole ritardo segue la medesima strada dei due lavori brevi che l’hanno preceduto: Permanências (2011) e Tremor (2013), anche qui, anzi, soprattutto qui, il cinema proposto da Ricardo Alves Jr. è una manifestazione autoriale cupa ed austera, non si esce mai da tali connotati, non c’è spazio per null’altro che non sia lo spazio del reale, ovviamente carpito con i “soliti” pedinamenti alle spalle degli attori, luci (?) naturali e dialoghi pressoché azzerati, tutte cose che di norma fanno bene alla visione sebbene mi senta in obbligo di dire che uno spettatore con un minimo di interesse oltre i prodotti da botteghino in Elon… non potrà ritrovare niente capace di smuovergli davvero qualcosa dentro. Ad ogni modo se si accettano le regole di Alves la sua proposta ha, e mi assumo tutte la responsabilità di quanto segue, un’ispirazione mitologica, greca per la precisione, perché fin dai primi fotogrammi con la discesa del protagonista giù per delle scale e la conseguente ricerca dell’amata in una valle urbana pucciata nell’oscurità, ci ho visto una rielaborazione della storia di Orfeo e del suo viaggio nell’Oltretomba. Chiaro, dovete fare un discreto sforzo di contestualizzazione per tenere in piedi codesto parallelo tra la classicità ellenica e la contemporaneità brasiliana, però: perché no? 

È difficile entusiasmarsi per un impianto globale che sfiora il grado zero dell’asciuttezza, sappiamo che la settima arte, in particolare negli ultimi due decenni, ha anche fattezze del genere, e quindi, invece di magari puntare il dito su evidenti ripetizioni (quante riprese da dietro di Elon che cammina ci saranno?) o quella sensazione di vuoto che trasmettono narrazioni di tal fatta è più costruttivo focalizzarsi su un semplice e se vogliamo perfino abusato dettaglio sintattico che però fa il suo dovere, mi riferisco alla parentesi onirica dove appare una lasciva Madalena che, oltre a ingannarci di primo acchito, suggerisce aspetti maggiormente importanti, ovvero come nella testa del ragazzo ci sia un gran bel casino (vedi anche la confusa deposizione con il poliziotto) e che di riflesso tale caos componga sempre in maniera super rigorosa l’ossatura dell’opera. Quello che vediamo è una sorta di POV, la soggettiva di un uomo turbato e scombussolato circondato da un ambiente esterno che è il corrispettivo di ciò che sente all’interno, prova ne è la negazione conclusiva dell’evidenza funebre, lui non crede dentro di sé che sia morta e quindi non la vede nella camera mortuaria. 

Alves è ok, ma dai film più recenti, e ce n’è uno girato a quattro mani con João Salaviza, pretendo un’ulteriore maturazione artistica.  

venerdì 20 ottobre 2023

Que je tombe tout le temps?

Non è una passeggiata di salute esprimere le sensazioni scaturite da Que je tombe tout le temps? (2013), non lo è perché, appunto, parliamo di materia sentibile, sostanza che Eduardo Williams sa modellare sempre con invidiabile maestria. Il punto è che delle aspettative pre-visione molto si sgretola per lasciarci un pugno di qualcosa che è parecchio vicino a della fine sabbia, sembrerebbe che in questo squarcio lungo un quarto d’ora ci siano dei vuoti non riempibili dalle nostre interpretazioni, ad esempio: dove è ambientato il corto? Dalle pochissime informazioni rintracciabili in Rete si parla della Sierra Leone, eppure il protagonista parla francese e la sua abitazione che vediamo verso la fine potrebbe star bene nelle Fiandre, ma di sicuro non in Africa. E poi: cosa fa il ragazzo? Nel film, nella vita, per i pochi minuti con cui abbiamo a che farci? E ancora: quella grotta o passaggio sotterraneo è banalmente una caverna sotto al giardino o è una sorta di corridoio che mette in comunicazione realtà differenti? Ecco, ovviamente domande del genere non possono trovare risposte concrete, del resto il cinema dell’argentino è un continuo sondare zone misteriose e spesso inintelligibili, veri e propri buchi neri che la sua videocamera va a oltrepassare senza avere alcuna certezza di cosa troveremo dall’altra parte (e direi che la tendenza a immergersi dentro spazi oscuri è un po’ un marchio di fabbrica, penso al formicaio di The Human Surge [2016] o al tuffo in mare di Parsi [2019]).

Nella difficoltà di scovare una coesione, un raccoglimento semantico o simili (al sottoscritto è capitato in maniera equiparabile anche per El ruido de las estrellas me aturde, 2012), posso provare io stesso a esprimere ciò che Williams, forse, voleva dirci e che avrà compimento nel successivo El auge del humano. La forza nascosta dell’opera, non tellurica, non devastante, però percepibile, intuibile, in lontananza vibrante, riguarda un’idea di interconnessione globale, ovvero di come la settima arte sia in grado di declinare la contemporaneità che viviamo all’interno di una vicenda che nello spazio infinitesimale tra due frame pare cambiare location, così, dal nulla. Sicché il ragazzetto diventa una specie di pacchetto digitale (cit. Niccolò Contessa) che rimbalza da un mercato affollato dove cerca dei semini rossi e dove, dettaglio importante, parla spagnolo e quindi magari è ancora in un ulteriore luogo che non sappiamo, ad una giungla nella quale parla in inglese di frivolezze con dei coetanei di colore (perciò si suppone sia in terra africana), per ricomparire nell’aia domestica (con tanto di nonna o mamma o vicina che dice “da piccola ho scambiato la parola morire con dormire”, un’allusione all’astrazione?). In una tale mappatura geografica e telematica, l’antro ipogeo funge da router che indirizza i dati (= il giovane) nel Web (= nella cartina del mondo). Non ho riscontri effettivi sul fatto che Que je tombe tout le temps? sia l’Internet di Teddy, ipotizzarlo mi ha divertito e messo sotto una luce diversa l’incomprensibilità di superficie.

giovedì 19 ottobre 2023

The Bottomless Bag

Singolare trasposizione russa del racconto Nel bosco di Ryūnosuke Akutagawa, nient’altro che la fonte di ispirazione per Rashomon (1950), recante la firma di un regista di nome Rustam Usmanovich Khamdamov nato in Uzbekistan nel 1944 che, a fronte di una filmografia piuttosto esigua (ma pare sia anche pittore tanto che alcune sue opere sono esposte all’Ermitage di San Pietroburgo), gode di un certo rispetto, sia oggi che nel passato quando riceveva lodi dai pesi massimi del cinema italiano come Antonioni e Fellini (e qui nei titoli di coda spunta anche Tonino Guerra). A vedere Meshok bez dna (2017) in effetti si può dire che la mano ci sia, il bianco e nero recapitatoci è uno di quelli che un recensore anglofono definirebbe stunning, più che altro sembra appartenere geneticamente al luogo di nascita, come se al di fuori dell’ex Unione Sovietica un’opera con questa cromatura non potesse esistere, che poi non è affatto solo una questione di colori, The Bottomless Bag è infarcito di stranezze (anch’esse, per buona parte e per mio sentire riconducibili alla galassia russa): uomini-fungo, eremiti dalle gambe di legno, principesse, ladruncoli, orsetti XL, l’enciclopedia del fantastico usata da Khamdamov è ampia da sembrare lei stessa senza fondo, proprio che c’è da perdersi, e visto che qui non abbiamo mai il minimo contatto con la realtà il patto a cui dobbiamo sottostare è un susseguirsi di pennellate che richiamano gli ingredienti della fiaba, ma filtrati da un approccio weird, bizzarro, un bel boccone da masticare anche per i palati più avvezzi a certe manifestazioni incontrollabili.

Il sottoscritto sarà sincero: dopo neanche trenta minuti la situazione si è fatta talmente inaccessibile dal farmi desistere in qualsiasi tentativo di decifrazione. Ho preferito quindi scivolare in balia delle immagini, nella loro malia, per registrare, almeno, la duplice dimensione filmica che si esplicita: da un lato la dama di corte che racconta la storia ad Alessandro II e dall’altro la storia medesima che accade sullo schermo e che orbita attorno alla misteriosa morte di un uomo trafitto da una freccia. Le varie ricostruzioni del delitto, narrate dalla donna attraverso la stramba pratica di appoggiare un cono di carta contro la parete o contro un candelabro, non hanno alcun carattere “investigativo”, Khamdamov preferisce diluire la spina dorsale del film (questa trasmissione orale che intrattiene lo Zar) in una rêverie difficilmente domabile. The Bottomless Bag rientra in un insieme di pellicole che dividono a causa di una natura bifronte, estremamente respingente e al contempo sottilmente seducente, un discreta gatta da pelare insomma, però, se messo alle strette e dovessi buttare giù dalla torre Meshok bez dna o un qualunque film che naviga nell’ordinario, salverei senza esitazioni Khamdamov, anche se non è scattato un feeling immediato stile, idea e autorialità sono presenti, e tanto mi basta.

mercoledì 18 ottobre 2023

Compilation, 12 instants d'amour non partagé

L’impressione è che Frank Beauvais si sia servito fin dagli esordi del cinema per mettersi alle spalle certi fantasmi sentimentali, qualcosa si intuiva nel precedente À genoux (2005), qualcosa, di contro, si concretizza in Compilation, 12 instants d’amour non partagé (2007), del resto era pressoché inevitabile data la frontalità della situazione che è spiegata dallo stesso regista nelle sinossi che girano in Rete: Frank si innamora di un giovane ragazzo dagli occhi azzurri di nome Arno che però non ricambia, allora Beauvais gli propone di prendere parte al suo mediometraggio invitandolo a casa propria per ascoltare della musica, la vicenda, che mi ha ricordato un po’ le produzioni di Vincent Dieutre per il suo tendere verso infatuazioni sofferte, è quindi tutta racchiusa in una serie di primi piani stretti su Arno che ascolta in silenzio quella che potremmo considerare a tutti gli effetti una playlist di Spotify ante litteram, diversi i supporti tecnologici ma non il nocciolo della questione: dire alla persona amata attraverso delle canzoni mettendo in campo una sequela di speranze (ovviamente in alta percentuale vane) e di empatia che si auspica possa venire ricambiata. Nella scansione temporale che fa rima con musicale, poco si apprende della figura di Arno, a parte nell’incipit dove per la prima e unica volta sorride sulle note di una versione fanciullesca di Over the Rainbow, in tutti gli altri segmenti rimane indecifrabile, forse accigliato, forse pensieroso, probabilmente lontano da quel momento di agognata connessione con chi sta dall’altra parte della videocamera. Il tentativo di avvicinamento da parte di Beauvais parrebbe quindi non avvenire nella dimensione filmica calando perciò l’opera in una bolla agrodolce, un “videoclip” sfaccettato incanalato in una sola faccia, un solo viso, quello di Arno, la materializzazione del rimpianto.

Il bel impianto teorico non deve distrarci da quello pratico, la struttura di Compilation è... semplice. No, non voglio sminuirne la portata, o almeno non troppo, però il procedimento che viene adottato ripetendosi identico a se stesso senza sussulti, senza cambi di direzione, senza illuminazioni o, perché no, rabbuiamenti, si standardizza sul medesimo piano dall’inizio alla fine. È un cinema che fluisce e che va preso in quanto tale, se fosse stato in grado di dare una zampata inaspettata il sottoscritto avrebbe gradito maggiormente. E poi, ma qui si entra proprio nel gusto personale, i pezzi che si susseguono sullo schermo li ho trovati debolucci, a parte Heaven dei Talking Heads ho idea che si sarebbe potuto spingere sul pedale emozionale con sottofondi più intensi e incisivi (per la cronaca le canzoni si alternano tra inglese e francese e riguardano artisti come The Handsome Family, Tiger Lillies, Anne Sylvestre, Petula Clark e altri che non ho avuto voglia di shazamare). È anche altrettanto vero che questo è un lavoro così intimo e soggettivo che magari allo spettatore i suddetti brani diranno poco ma all’inverso a Beauvais potrebbero aver voluto dire molto, anche da un punto di vista testuale. Comunque, oltre le mie elucubrazioni, un altro passo verso Just Don’t Think I’ll Scream (2019) che vale la pena fare.

martedì 17 ottobre 2023

Sapatos Pretos

I primi venti minuti di Sapatos Pretos (1998) sono molto simili a quello che poi sarà Noite Escura (2004), ovvero un set occluso in un solo ambiente, a sto giro una sala da ballo, dove João Canijo rimbalza in maniera forsennata con la sua mdp da un personaggio all’altro. Poi, una volta usciti dal locale, si entra in un altro spazio parimenti angusto, mentale e non fisico, da cui non si uscirà mai: una relazione avariata tra un gioielliere e sua moglie Dalila. Sembra abbastanza evidente che al regista portoghese interessino fin dagli albori dei rapporti sentimentali in via di disfacimento, amori al capolinea, tradimenti, relazioni troncate, e una tendenza ad impepare le varie situazioni con risvolti (leggermente) dark, il punto è che in questi lavori giovanili tali tematiche di studio vengono approcciate in modo... strano, alla base pare esserci un’impostazione teatrale con un registro recitativo fortemente ostentato (a volte fin troppo), ma la resa che si ottiene ha un che di laterale e non di frontale, pur parlando di oggetti se vogliamo non distanti da uno sceneggiato televisivo il risultato naviga lontano da un possibile piattume così come è lontano da una forma di realismo che si potrà rintracciare in Blood of My Blood (2011) o É o Amor (2013), boh, non semplice farsi un’idea definita, forse qui subentra anche la mancanza di una conoscenza approfondita della scena lusitana 90’s ma se mi chiedessero quanto vale la pena recuperare gli esordi di Canijo risponderei in tutta onestà di indirizzare lo sguardo altrove.

In Sapatos Pretos spicca una lodevole cura della scenografia casalinga con un appartamento coniugale che è sempre inzuppato nell’oscurità e in cui l’incongruenza aleggia (la tv sintonizzata su canali angolofoni), non male inoltre l’applicazione di un protocollo drammatico che ha il picco in una violenza sanguinolenta ai danni della donna. Però, al pari di Ganhar a Vida (2001), ho trovato nella pellicola sotto esame il medesimo macroscopico difetto, ossia una scrittura che in termini di narrazione non va. Cioè, stringi stringi qua parliamo di un banale triangolo amoroso con virata nel nero. C’è dell’altro? A chi scrive è parso di no. Passi la costruzione che porta all’uxoricidio, tuttavia a fatto avvenuto il film si affloscia e tenta, invano, di compiere una giravolta esibendo il ruolo doppiogiochista di Dalila, un’operazione che non rende e aumenta il tasso di stanchezza con cui ci si trascina verso il finale dove, tra l’altro, si vuole ulteriormente rimarcare il ruolo di femme fatale che manipola i suoi uomini (sarà il turno del poliziotto) ma che non riesce a fare altrettanto con noi spettatori. Allora, per riallacciarmi alla domanda che chiudeva il paragrafo soprastante, se proprio si deve, l’unico titolo di Canijo pre-2011 che ha solleticato qualcosa nel sottoscritto è stato Filha da Mãe (1990).

lunedì 16 ottobre 2023

Uns geht es gut

Di una regista così intrigante come Sandra Wollner non vai a ripescarti uno dei primi, se non proprio il primo, titolo della sua carriera? Ovviamente sì, e quindi via ad un’immediata nonché superficiale constatazione: Uns geht es gut (2014) è un cortometraggio che non ha praticamente alcuna similitudine con i due lungometraggi successivi (The Impossible Picture [2016] e The Trouble with Being Born [2020]), i motivi non li so, al massimo li suppongo: vedendo le informazioni produttive è subito appuntabile che si tratta di un lavoro a sei mani (i nomi delle altre due colleghe sono Britta Schoening e Michaela Taschek), quindi è immaginabile che il coinvolgimento all’interno di un progetto dalla variegata paternità (pardon: maternità data la triplice direzione femminile) abbia domato dei plausibili slanci personali, inoltre, banalmente, è pressoché un esordio di neanche sette minuti pertanto non ci si poteva attendere chissà quale complessità cinematografica. Esposto quest’inutile preambolo, addentriamoci, per quel poco che ci è possibile, nel cuore del corto.

Dalle scarse notizie che possono essere rintracciate in Rete, si apprende soltanto che le foto utilizzate nel film sono state trovare in un mercatino delle pulci viennese. Perché sì, l’intera opera è strutturata come un album fotografico a scorrimento su cui le registe hanno apportato delle specifiche modifiche in modo da sottolineare o intensificare alcuni passaggi. Il flusso temporale delle immagini non è lineare, l’intro e l’outro si occupano del dopo mentre la parte centrale è il flashback del prima, l’attenzione verte su una coppia degli anni ’40 di cui vediamo la reciproca conoscenza in un ambiente che definirei alpino, l’escamotage delle foto in movimento accompagnato da inserimenti sonori e da un maquillage visivo che ritocca qui e là i soggetti immortalati (a volte li fa proprio scomparire) ha una cadenza delicata che si adombra con l’entrata in scena della guerra (il vessillo nazista rompe l’idillio montano). Forse lui si arruola e dei parenti / famigliari muoiono (si dissolvono come accennavo prima), però alla fine, dopo vicissitudini che non sapremo mai, i due sono arrivati a vivere una vecchiaia insieme (istantanea natalizia). Ergo: c’è anche un happy end, e non era una cosa così scontata.

domenica 15 ottobre 2023

In the Realms of the Unreal

La storia, la narrazione, la vita, il quotidiano, la clandestinità, la solitudine, l’isolamento, la sofferenza. Leggete quanto segue: nel 1973 Henry Darger ormai ottantenne viene portato dai coniugi Lerner, i suoi proprietari di casa, in un ospedale di Chicago. Sta morendo. Poco prima della dipartita i Lerner decidono di entrare nella piccola stanza per risistemare un po’ il locale e con grande sorpresa scoprono che quel vecchietto anonimo, solitario, forse mezzo matto, durante tutti quegli anni di permanenza ha scritto quello che è considerabile come uno dei, se non il libro più lungo di tutti i tempi, un testo di oltre 15.000 pagine dalle tinte fantasy che racconta l’epopea di sette sorelle in lotta contro un regime tirannico, e oltre al ciclopico manoscritto vengono rinvenuti disegni e dipinti che riprendono le vicende narrate nell’opera. Non so se qualcuno ha mai posato gli occhi su tutte le migliaia e migliaia di parole che compongono The Story of the Vivian Girls, non ho neanche approfondito se sia mai stato pubblicato per intero o magari solo qualche stralcio, e ad essere onesto non mi importa nemmeno, trovo molto più affascinante, quasi commovente, sapere che questo colosso di carta e inchiostro esiste grazie ad un essere umano completamente disinteressato a qualunque riscontro che andasse al di là della sua microscopica bolla casalinga, l’idea di essere scrittori senza saperlo di essere, di fare arte non avendo alcuna concezione del settore, di agire solo per sé, per una necessità, un’urgenza, un esorcismo, be’, sono aspetti che in un mondo mercificato come il nostro rendono Henry Darger un outsider da guardare con affettuoso rispetto.

E quindi, per cercare di placare quella curiosità che ti prende di fronte a misteri del genere, era inevitabile gettare uno sguardo sull’unico esemplare cinematografico esistente che si occupa dell’argomento. Peccato che la forma di In the Realms of the Unreal (2004) non renda giustizia al tema che affronta, il lavoro di Jessica Yu, regista americana che nel 1997 vinse l’Oscar per un cortometraggio, è smaccatamente televisivo, ma non in un’ottica che definirei netflixiana, ovviamente no, siamo in pieno stile catodico anni ’90 primi ’00 dove lo sviluppo del documentario segue essenzialmente due piste principali: una posticcia dove una voce fuori campo legge quella che presumo sia la vera autobiografia di Darger, e un’altra non meno fasulla in cui una bambina (è Dakota Fanning) narra le avventure del libro. Gli incroci delle due tracce evidenziano quanto il complicatissimo vissuto personale dell’autore si sia poi riversato nella creazione dell’opus magnum, la sua ossessione per l’infanzia, per un riscatto dei fanciulli nei confronti degli adulti, si fonda su meccanismi psicologici di cui nessuno può conoscere le vere origini, certo che il metodo con il quale la Yu ce li espone è un po’ banaluccio. Ad integrazione sono presenti delle interviste ai vicini di Henry insieme alla riproduzione animata dei suoi disegni, di nuovo non ho trovato la scelta troppo felice, c’era davvero bisogno di affidarsi ad un tale artificio?

Visione consigliata sì, per una volta il valore artistico non c’entra, ci sono storie troppo belle in giro che, anche se poste in contenitori non all’altezza, meritano sempre di essere conosciute e diffuse

sabato 14 ottobre 2023

Fireball: messaggeri dalle stelle

Herzog approda su Apple TV: vecchio satanasso di un Werner, a quasi ottanta anni ha ancora voglia e forza di girovagare per il mondo, gli basta una scintilla argomentativa ed eccolo lì sul tetto di un palazzetto norvegese a caccia di polveri extraterrestri o ai piedi di un mega-telescopio hawaiano puntato verso il cosmo sconosciuto, per l’occasione il suo compagno di avventure è il vulcanologo britannico Clive Oppenheimer (che figura anche in regia) conosciuto ai tempi di Encounters at the End of the World (2007) e rivisto di recente in Dentro l’inferno (2016) il quale funge da Cicerone scientifico che dialoga con i vari studiosi in continuo avvicendamento sullo schermo. E su cosa vertono le conversazioni di Fireball: Visitors from Darker Worlds (2020)? Meteoriti, ovviamente. Pare al sottoscritto che nell’ultimo decennio il regista tedesco sia interessato ad una branca del documentario parecchio divulgativa, sempre personale e riconoscibile (il suo commento fuori campo, perdonatemi se lo ripeto spesso, è ormai un’istituzione), però eminentemente specialistica, quell’attenzione quasi estatica che rivolgeva alla natura e di riflesso all’umanità è via via stata sostituita da focus settoriali, praticamente delle disamine tecniche con le chiamate in causa di esperti, professori o gente molto informata sui fatti. È chiaro che (e chiedo di nuovo scusa per il mio ennesimo ripetermi) chi è alla ricerca di un cinema votato all’irriducibilità, alla sperimentazione o a qualunque ulteriore attributo in grado di smuovere la melma della settima arte, non può che imboccare strade diverse da quelle herzoghiane, tuttavia, sai com’è, un po’ di affetto misto a semplice curiosità permettono di accostarsi alla visione con la certezza che non riusciremo mai ad innamorarci del film ma che neanche lo odieremo, la classica zona neutra che emerge dal moderno Herzog documentarista, niente a che vedere con i suoi novelli prodotti di fiction, ma quella è una faccenda che al momento è meglio non raccontare.

Contenuto all’interno di due fiammeggianti rituali geograficamente agli antipodi (uno in Messico e uno in un’isola vicino alla Papua Nuova Guinea), Fireball si snoda letteralmente nei quattro angoli della Terra passando in rassegna Paesi quanto mai distanti tra loro riuniti dallo sguardo e dal desiderio di conoscenza dei due autori. L’approssimarsi al tema dei corpi celesti in collisione col nostro pianeta è poliedrico e cerca, probabilmente riuscendoci, di essere trasversale e multidisciplinare. L’intenzione è di farci capire che tali frammenti spaziali hanno avuto un ruolo di rilievo nel corso della storia dell’uomo e che, all’insaputa dei più, ce l’hanno tutt’ora. Nel reportage ci viene ricordato ad esempio della Pietra Nera che si trova a La Mecca (non male le riprese col telefonino nel delirio della folla ad un passo dalla Caaba) e dell’ipotesi che si tratti di un meteorite, oppure vengono presentati degli artisti aborigeni che dipingono opere ispirate da un enorme cratere nel deserto, ma si procede anche verso lidi accademici partendo dal basso, ossia due amatori che hanno scoperto un metodo per ingrandire sul computer le briciole di roccia stellare, salendo di complessità con i quasicristalli o il prezioso deposito di un’università in Arizona, e non manca nemmeno del puro spirito esplorativo messo in atto in una grotta messicana o nell’immensa solitudine dei ghiacciai antartici (miglior segmento per distacco con grandiose immagini panoramiche), toccando, infine, punte di trascendenza nei dialoghi con un sacerdote-astronomo residente in Italia o un anziano saggio sulla spiaggia di un’isoletta vicina all’Australia. E quindi, religione, arte, scienza, tecnologia, Storia (dinosauri + Tunguska), spiritualità e misticismo, le materie messe in relazione con il topic principale sono queste, adesso, tra un coro sardo e l’altro (vero marchio di fabbrica per Herzog che li introdusse, se non erro, la prima volta per L’ignoto spazio profondo, 2005), sapete in caso a cosa andrete incontro.

venerdì 13 ottobre 2023

Voices of Kidnapping

Non ho davvero niente da aggiungere al cospetto della verticalità di Voices of Kidnapping (2017), ma proprio niente. Vedete, la questione è presto detta: il cinema. In quattordici minuti. Punto. Di sofferenze, speranze, illusioni, ecco che cosa attraversa, che cosa essuda dal lavoro del canadese Ryan McKenna, perché qui si viene a sapere che per vent’anni il programma radiofonico Voces del secuestro, ideato e condotto dall’attivista colombiano Herbin Hoyos Medina, ha ricevuto e poi propagato nell’etere i messaggi di famigliari rivolti a persone loro care sequestrate dalle Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia, un’organizzazione guerrigliera di estrema sinistra, e nascoste, se non, ovviamente, uccise, nella fitta giungla. McKenna ha semplicemente attinto dall’archivio della radio estrapolando un paio di queste telefonate senza interlocutori per adagiarle su una base di immagini nemorali, laggiù tra liane e rampicanti, in una nebbia che è bruma, che è materica, e un incessante sinfonia di uccelli, grilli e altri animaletti umidi e misteriosi che ti bevono le gocce di sudore lungo il collo. Nelle voci ovattate della gente dall’altro capo del filo, nel lumicino quasi utopico a cui si aggrappano con tutta la forza che è rimasta, il sottoscritto, in un parallelo forse fin troppo fantasioso ma così è, ci ha visto la medesima sostanza di un segnale lanciato nel cosmo con l’intenzione di raggiungere qualcuno o qualcosa che lo recepisca. Ecco l’altezza, o la profondità, che il corto eguaglia: siderale, artesiana.

È il silenzioso trionfo della non-illustrazione, del rifiuto della didascalia, è un approccio che taglia il mare in due verso la verità, l’essenza, nella radice di ciò che ci caratterizza come esseri umani, entità biologiche di carne e cuore, mnemoniche!, incapaci di lasciar andare via, soprattutto se il distacco è coatto, repentino, magari nel bel mezzo di una notte: puff, sparito. E allora quanto sono lunghe tali notti? E dove sta la luce che ogni tanto sfarfalla tenue? Lo affermo ancora una volta con rinnovata consapevolezza: una settima arte che merita il nostro sguardo non ha bisogno di impostazioni artificiali, di scritture cervellotiche o di recitazioni teatrali, ci sono pletore di film ingabbiati dentro modelli arrugginiti che non valgono nemmeno un secondo di Voices of Kidnapping, lancinante testimonianza di come la realtà è già di per sé una narrazione, peraltro potentissima, e che le storie da essa veicolate si raccontano da sole, si trovano lì in un limbo amniotico e ad un regista, ammesso che possegga i mezzi e il tatto adeguati, basta poco per trasformarsi in cassa di risonanza aumentandone l’intensità, il colore e la temperatura. Non continuo oltre, ritorno alla mia vita, e la stringo forte.

giovedì 12 ottobre 2023

Paris est une fête - Un film en 18 vagues

La verità è che tutti noi, o almeno coloro i quali credono ancora che il cinema possa avere una valenza etica e quindi politica, avremmo bisogno di molti più Sylvain George di quanti ce ne sono in giro, anche se poi, purtroppo o per fortuna, ce n’è soltanto uno. Paris est une fête - Un film en 18 vagues (2017) è il coerente prosieguo di un percorso, anzi di un impegno registico di elevatissima caratura, se esiste un filmmaker, oggi, capace di coniugare una visione brutale della realtà circostante con delle brecce liriche questo è l’autore francese classe ’68, qui il suo occhio, sempre in bianco e nero e sempre materico, granuloso, metallico, naviga per un arco di tempo di circa due anni nel tempestoso mare parigino, come un Ulisse moderno si mette a cantare le storie di chi incontra e rifacendosi alla formidabile coppia Qu’ils reposent en révolte (Des figures de guerre) (2010) + Les éclats (Ma gueule, ma révolte, mon nom) (2011) ecco nuovamente che l’attenzione è riposta sui migranti, non siamo più a Calais ma nel cuore dell’Europa, in una piazza cittadina convertita in un improvvisato campo nomadi, oppure cerchiamo di riscaldarci con un ragazzo guineano dalla pelle impeciata, tenebra, buio profondo, pozzo: racconta di sé e di ciò che ha vissuto, è una narrazione che potrebbe calzare ad ogni rifugiato che sfioriamo, parole dette, scritte in inglese su un diario, la nostalgia di casa, la paura, la morte. Nella Parigi di George non c’è spazio per chiccosi bistro o ragazze in bicicletta dalla sciarpa svolazzante, è territorio di violenta protesta, tre sono le manifestazioni riprese e in ognuna di esse il regista si e ci getta direttamente negli scontri con la polizia, altra vertigine di urla, botte e sirene delle ambulanze, altra concitata apnea, sott’acqua, verso il fondo.

Quello che si rivela tra un pugno allo stomaco e l’altro sono lampi quasi onirici, miraggi che forse ci restituiscono un George vicino alla trascendenza dell’immagine, al superamento di una grammatica già oltremodo personale. C’è un corredo musicale molto presente (sbaglio o è in assoluto il film che presenta tale caratteristica?) e ci sono delle fughe estetiche che muovono l’opera in zone apparentemente lontane da un corteo di studenti o da dei poveri cristi che dormono all’addiaccio. Vorrei citare la sequenza dei girasoli, una penetrazione notturna in un campo di fiori appassiti accompagnata da un sonoro distorto e industriale che si conclude sul corpo di un essere umano nudo rannicchiato sul terreno. È una scena di rara potenza, ok, ed è una scena estemporanea, slacciata dal contesto, e non è la sola!, vado a memoria: delle mani si contorcono nell’oscurità; la testa di un pesce morto è ripresa da varie angolazioni; il tipo della Guinea fa del beatbox. La presenza di queste parentesi semi-indipendenti è funzionale al rafforzamento di un flusso visivo che in certi punti, allora, non ha nemmeno necessità di essere esclusivamente frontale, di mostrare solo quello-che-accade, era una cosa che si verificava già nelle pellicole precedenti di George, ma in Paris est une fête l’ho percepita in maniera davvero efficace, un tentativo, riuscito, di dilatare quei segmenti contemplativi o comunque non indispensabili allo studio principale per stimolare le antenne della suggestione e ampliare lo spettro del vedere. Sì, avremmo bisogno di molti più Sylvain George nel cinema.

mercoledì 11 ottobre 2023

Tales of Two Who Dreamt

Nicolás Pereda è un nome che circola da tempo nel panorama autoriale, da queste parti non è mai stato affrontato ma da quello che ho letto altrove credo proprio sia uno che sa il fatto suo. Io non mi lancerò in una retrospettiva per mancanza di energie mentali, però, giusto per non voltargli completamente le spalle, mi focalizzerò su un satellite del suo cinema, ovvero le produzioni della moglie Andrea Bussmann. Già il video-sortilegio Fausto (2018) girato in solitaria mi aveva oltremodo incantato, ora questo Tales of Two Who Dreamt (2016), co-diretto col marito, si profila come un’ottima premessa che vale assolutamente la pena guardare. Le sinossi che girano in Rete a proposito del film, stringati compendi che penso siano la traduzione di una qualche presentazione festivaliera, pongono l’accento sull’aspetto sociale dell’opera perché ci troviamo in Canada, in un quartiere popolare costituito da quegli enormi palazzoni-alveare che si ergono in tutte le periferie del mondo, dove degli immigrati di etnia rom provenienti dall’Ungheria sono in attesa di ricevere asilo in terra canadese. Sì, è indubbio che vi sia tale elemento, ma è appena uno start, un pretesto, che permette al duo registico di mettere in scena la loro feconda idea di settima arte. La meta preposta, e raggiunta, riguarda la costruzione di una storia, alla quale se ne collegano altre minori, che ha una base orale, quasi una favola che due coniugi si raccontano all’interno dell’appartamento in cui vivono, e, attraverso la magia della cinepresa, la fiaba, a mio parere dai palesi rimandi kafkiani perché si ha una trasformazione dall’umano all’animale con susseguente rifiuto dei genitori bilanciata dalla solidarietà della sorellina, prende vita sullo schermo.

Parliamo di un saggio sulla capienza di ciò che viene comunemente denominato “reale”, concettualmente il campo dove operano Bussmann e Pereda non è nient’altro che una variazione sul tema del film-nel-film, però bisogna riconoscere che il congegno studiato è privo di pesanti arrovellamenti ed anzi si pone a noi spettatori in modo leggero e per nulla invasivo. L’eterna diatriba realtà vs. finzione è un ring dove le due istanze si fronteggiano senza scontrarsi, c’è una specie di infiltrarsi reciproco e impercettibile, una vicendevole iniezione che da una sequenza all’altra rompe, ricostruisce e rirompe i confini dell’artificio. È interessante il procedimento con cui vengono esposte le vicende che riguardano Alex, il bambino uccello, in un atto di smantellamento dell’apparato finzionale gli autori fanno leggere l’ipotetica sceneggiatura a quelli che potremmo considerare le loro rispettive proiezioni nella diegesi (gli sposi gipsy), il verificarsi dei suddetti avvenimenti, diluito in ulteriori trasognanti accenni (un cane abbandonato sul poggiolo; un grosso serpente che si aggira nel condominio), a volte anticipati e a volte posticipati dalla narrazione interna, contribuisce a fortificare una dimensione che flirta con l’onirico, il che, se ci pensate un attimo, è un risultato sorprendente visto che la materia tratta è la quintessenza della concretezza. Quindi, sento di dover elogiare pubblicamente Historias de dos que soñaron, quando una visione che si appoggia su assiomi semplici sa ascendere in verticale fare una riverenza è d’obbligo.

martedì 10 ottobre 2023

Barba

Paulo Abreu, uno dei tanti esponenti della ricchissima scena portoghese, allestisce un cortometraggio che per ambientazione e – si presume – budget (molto risicato) ne ricorda un altro sempre battente bandiera lusitana, mi riferisco a Sangue Frio (2009) dove guarda caso Abreu ricopriva il ruolo di direttore della fotografia. Rispetto però al titolo di Mendes che non pensava mai di abbandonare il mondo astratto in cui navigava, Barba (2011) ha, in un qualche modo che si cercherà di esplicitare sotto, la voglia di farsi allegoria del contemporaneo. Prima va comunque detto di cosa sto per scrivere: è un film che si occupa di tre irsuti cavernicoli (anche se all’inizio sono quattro ma uno sparisce) che vivono all’ombra di un vulcano, il taglio visivo scelto da Abreu è inusuale e ciò fornisce una venatura comica, se non surreale, che caratterizza il lavoro, in pratica il contenitore adottato è da simil-cinema muto, e quindi bianco e nero più un tappeto sonoro onnipresente, ma proprio sulla componente musicale c’è da sottolineare quanto Abreu giochi con la musica attraverso soluzioni sì e no carucce. Sul versante narrativo non possiamo asserire che ci sia una storia canonica con premessa, svolgimento e finale, l’atmosfera piuttosto bislacca mitiga l’ordinarietà di una qualsivoglia struttura, non ci si guadagna niente in fatto di chiarezza, piuttosto si registra un procedere stravagante che potrebbe piacere come no, quindi, come si dice, uomo avvisato...

Ma ragioniamo velocemente sul possibile senso di Barba. L’evidenza che si profila è data dal fatto che i tre trogloditi siano i soggetti di un’evoluzione, o meglio, dell’illustrazione di un’evoluzione. In particolare uno del trio è il principale innovatore in materia tecnica, nel rapido avvicendarsi di situazioni vediamo un affinamento delle strategie di pesca, la scoperta del fuoco, della ruota, della fionda, l’utilizzo di un cannocchiale ante litteram, perfino (forse) il consumo di droga con il culmine in uno strappo dai toni... discotecari. C’è da rimarcare che tali dettagli improntati ad un miglioramento esistenziale non è che hanno una conferma nello spazio filmico, cioè: i tre, nonostante le abilità acquisite, continuano ad essere sempre gli stessi. Tuttavia si percepisce che qua è più importante l’afflato metaforico di un’eventuale veridicità, del resto i continui attacchi per mano di nemici ogni volta differenti (un antico romano, un arabo, un soldato francese) suggeriscono la dimensione sospesa del tutto, come se venissero concentrati secoli di storia su una collinetta brulla abitata da uomini della caverna. Ma Abreu cala il carico da undici soltanto alla fine quando asciuga il suo corto delle svirgolate weird in favore di un alone politico che fornisce un’ulteriore, se non l’unica chiave di lettura. È infatti pensabile che la voce over sia il vero estratto di un discorso proferito da qualche politico portoghese in seguito alla crisi economica, il nesso con la parte precedente è il fulcro di Barba, non è diretto (si vuole mica affermare che a prescindere dagli sforzi fatti una comunità di persone che vive in una democrazia è inevitabilmente soggetta alle imposizioni di chi comanda?), non è limpido, cercarlo, forse, è l’appagante compito che riguarda lo spettatore.

lunedì 9 ottobre 2023

Navajazo

Il perforante digitale dell’esordiente Ricardo Silva si incunea in un mondo al confine: il luogo è Tijuana, città messicana ad un passo dagli Stati Uniti, la dimensione è purgatoriale, ad uno sputo dall’inferno. Navajazo (2014) è un gran film perché esplora la condizione borderline dei soggetti ripresi con ammirabile autorialità, certo “fare notizia” sbattendo sullo schermo un pompino o un tossico che si fa in vena è facile, ma è proprio perché pur facendo dell’esibizione il proprio mantra Silva riesce a lavorarci sopra con arguzia trasformando il profondo degrado che lo circonda in qualcosa di vivo e sgusciante, esempio: la scena della fellatio, piuttosto annichilente per situazione e contesto, assume una colorazione sardonica quando compare una scritta che fa il verso ai video di Crack Whore Confessions. Sì, sgusciante, Navajazo è un’opera priva di un centro narrativo e per questo motivo disorienta, è l’arrivare poco dopo un’esplosione con ancora miriadi di frammenti sospesi nell’aria, e nella devastazione generale è possibile scorgere delle schegge che ci graffiano, arrivano e vanno, feriscono, tagliano, eppure è un dolore che Silva sa rendere piacevole senza gratuito compiacimento, è il costituirsi di un equilibrio fragilissimo, al limite, sicuramente non per tutti, una frontiera della realtà e ciò che viene dopo, una zona indeterminabile che ha una, e una sola sicurezza: l’idea di cinema del regista fatta di concetti che partono dal concreto (insomma, pare che a Tijuana ci sia un bel casino) per impennarsi altrove, nei misteriosi anfratti dell’esperienza visiva.

Sarebbe un peccato inoltre considerare il film soltanto come una carrellata su dei reietti messicani, negli anni di emarginati nella settima arte ne abbiamo visti tanti, dall’America di Dark Days (2000) e Below Sea Level (2008) passando per la cimiteriale coppia post-sovietica Le palme delle mani (1994) – L’ultimo posto sulla Terra (2001) insieme, ovviamente, a decine e decine di altri titoli citabili, le anime perdute di Navajazo non sono così diverse dalle loro colleghe (in ballo abbiamo sempre questioni di droga, violenza, prostituzione, ecc.), ma non estendere lo sguardo oltre un rigattiere di giocattoli polverosi o un pornografo impegnato in un bizzarro progetto significa non cogliere il succulento potenziale della pellicola. I ricami di Silva sul girato ampliano (e non di poco) la capacità polmonare del film, basta un incipit magistrale che parla di una non precisata fine del mondo a mettere in moto dei meccanismi suggestionanti, sensazioni che si ripresentano ad ogni raccordo tra un segmento e l’altro, sono iniezioni stranianti che provocano ulteriore scompiglio, al pari dell’impiego di temi musicali discordanti (si vedano gli amplessi accompagnati da una ninnananna), o all’inserimento di lacerti d’un altro film, probabilmente di bassa lega, che si mimetizzano nel flusso principale. La ricchezza di Navajazo brilla nella sporcizia di cui si occupa e soprattutto nel metodo impiegato per raccontarcela, sfrontato e creativo, è una di quelle frustate inattese che mi invogliano più che mai a cercare nuovi film, nuovi registi, nuovi confini da provare a oltrepassare.

domenica 8 ottobre 2023

Massaker

Hai mai provato paura?

Coloro i quali videro Valzer con Bashir (2008) e concedendo ai suddetti la possibilità che ne conservino anche solo un minimo ricordo, potrebbero saltare le righe successive agli imminenti due punti, al resto dei cari lettori, invece, tocca una breve e inadeguata lezione di Storia: tra il 16 ed il 18 settembre del 1982 in un quartiere di Beirut chiamato Sabra e nel campo nomadi di Shatila vennero sterminati migliaia di civili palestinesi (in maggioranza donne, bambini e anziani) da parte di alcune milizie libanesi di religione cristiana guidate dalla mano nemmeno tanto invisibile del governo israeliano. Fu un vero e proprio eccidio, una di quelle pagine del passato che ci dovrebbero far vergognare di essere umani e che, cosa più terribile, pian piano si dissolverà nella nebbia del tempo salvo poi ricomparire sotto altre forme ma con simile e dirompente orrore. Massaker (2005) si approccia a questo buco nero assemblando le testimonianze di alcuni membri appartenenti ad uno dei gruppi paramilitari che compì in prima persona tali atrocità, la produzione è principalmente tedesca e infatti tra i registi (ben tre/quattro!) ne troviamo due teutonici, uno nato in Libano e una negli Stati Uniti, ovvero Nina Menkes che però in alcuni siti non è accreditata come tale, ad ogni modo, se il sottoscritto ha posato gli occhi sul documentario in oggetto lo deve proprio a lei, ma, l’immediata constatazione, è che qua non sembra di essere in un suo film, gli esperimenti di Magdalena Viraga (1986) o The Bloody Child (1996) sono sostituiti da una realtà allucinata che la Nostra ha curato in termini di fotografia e di riprese, il risultato non era pronosticato in un’ottica menkesiana però l’effetto scaturito è assolutamente meritevole. Perché? Perché si indaga il male e, dentro quegli stanzini con le tapparelle abbassate, tra il sudore, le canottiere, i gatti bianchi, i corpi spigolosi e irsuti, se ne avverte la puzza nauseabonda.

Ah giusto, non ho accennato al fatto che: gli uomini interpellati non si mostrano a viso scoperto e ciò fa di loro degli inquietanti esseri acefali che, immersi in penombre verderosse, al posto della testa hanno una macchia nera. Sono ombre che raccontano del buio dal quale provengono. I più attenti ricorderanno che da queste parti sono passate almeno altre due opere con degli assunti teorici e formali pressoché equiparabili: El Sicario, Room 164 (2010) di Gianfranco Rosi e Terra de ninguém (2012) di Salomé Lamas, per Massaker torna con rinnovata efficacia, al pari dei lavori appena citati, quella capacità che ha il cinema di colpire con potenza e precisione nel non-mostrato, in una zona dove la narrazione di un evento diventa ancora più efficace dell’eventuale esibizione del suddetto evento perché apre a suggestioni e scuote l’immaginazione. Che poi il fulcro dei discorsi sia una roba terrificante, disumana, avvenuta neanche quarant’anni addietro, non fa che aumentare il carico dell’apprezzamento e quindi dello sconvolgimento: non si riesce a dire nulla di vagamente perspicace di fronte ad un uomo che a cuor leggero ricorda di aver assistito allo stupro di una ragazzina e al suo susseguente efferato omicidio, né si sa bene cosa pensare al cospetto di vaghi rimorsi, incubi notturni o pseudo-pentimenti che affiorano timidi, è il caso allora di osservare in silenzio, di farsi a nostra volta testimoni in grado di rispondere alle barbarie con l’unica arma che non uccide nessuno: la memoria. Guardare per non dimenticare, per ricordare.