Ne
croyez surtout pas que je hurle
(2019 – letteralmente: Non
pensare che io stia urlando)
rientra in quella amata famiglia dei film di montaggio, il regista
Frank Beauvais, ovviamente mai sentito nominare e quindi già messo
nella lunga lista dei desideri che non riuscirò ad esaudire in
questa vita, si apre a noi come un libro, anzi come un diario che va
alle radici di un’intimità dove l’uomo Frank si trova in un
momento complesso della propria esistenza: mollato dal compagno dopo
anni di relazione, isolato nella casa di un paesino dell’Alsazia,
senza lavoro fisso, costretto a vendere la collezione di libri e DVD
per campare e desideroso di tornare a Parigi dagli amici. Beauvais
costruisce un film che è innanzitutto un percorso terapeutico, un
fluire di parole e pensieri adagiato su un magma di immagini tagliate
e incollate da centinaia di film che il Nostro ha visto durante i bui
mesi casalinghi. I ragionamenti da lui condotti riescono ad essere
profondamente intrinseci alla persona che fu e che quindi ora è, e
al contempo esulano dalla sfera famigliare per attecchire, ad
esempio, su meri fatti di cronaca. È una caratteristica insita in
proposte del genere, il trovare un equilibrio tra una dimensione
interna e l’antitesi esterna è uno di quei piccoli miracoli per
cui vale la pena sedersi di fronte ad uno schermo, qui abbiamo uno
splendido e sofferto ricordo del padre che al pari di tanti altri
padri non è stato all’altezza del suo ruolo, e poi, in un continuo
inserirsi di eventi, ecco profilarsi gli attentati dell’ISIS del
2016, il terremoto in Italia, un viaggio in Portogallo con due
colleghi di nome João (saranno Pedro
Rodrigues e Rui Guerra da Mata?), l’autobiografia orale tradotta in
un’estetica vorticosa (penso che non ci sarà un frame che duri
oltre i cinque secondi) è un moto aspirante, una lavatrice, un
turbine emotivo-riflessivo da serie A.
E
tutto ciò va ad assembrarsi sotto la grande cupola che ogni cosa
contiene: il cinema. Non apprezzo granché il termine “cinefilo”
perché fatico a comprendere i gradi che si necessitano per potersene
insignire, uno che guarda miriadi di film è un cinefilo? Se sì, di
quali tipologie di film parliamo? Blockbuster? Cinema d’essai?
Sperimentale? Se no, è sufficiente vedere un numero contenuto di
opere ma studiarle a fondo con la disciplina di un filologo? Beauvais
fornisce la sua versione: tra aprile e ottobre 2016 ha visionato
oltre quattrocento pellicole per un solo ed unico motivo: perché
stava male. Ecco allora che si schiude il tratto maggiormente fertile
di Just Don’t Think... perché
scocca un interrogativo verso un nucleo fondante, il punto è che
Beauvais potrebbe essere tranquillamente io che scrivo o tu che stai
leggendo, pur con le differenze del caso, chi non ha trovato nel
cinema un caldo rifugio dove poter ripulirsi dalle impurità che ci
circondano? Chi non ha sognato, pianto, patito e via dicendo al
cospetto di una qualche sequenza da pelle d’oca così bella da
sentirla parte di sé e di nessun altro? Chi non ha studiato, chi non
si è formato, chi non è cresciuto approfondendo un autore o un
movimento? A domande di tal fatta viene automatico rispondere che il
cinema è La cura, e stop. Però il titolo in questione è abile a
suggerire la nemesi, perché la settima arte è anche una malattia,
una dipendenza patologica, un bisogno insensato di abbuffarsi di
visioni rinchiudendosi in un mondo illusorio perdendo di vista il
bene quotidiano. Dove sia la cosiddetta retta via non lo so, forse la
scelta finale di Beauvais è il modo migliore per ricominciare,
lasciarsi alle spalle un limbo di ossessioni, di download, di
solitudine, di masturbazioni, e aprire un nuovo capitolo.
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