mercoledì 20 settembre 2023

Just Don't Think I'll Scream

Ne croyez surtout pas que je hurle (2019 – letteralmente: Non pensare che io stia urlando) rientra in quella amata famiglia dei film di montaggio, il regista Frank Beauvais, ovviamente mai sentito nominare e quindi già messo nella lunga lista dei desideri che non riuscirò ad esaudire in questa vita, si apre a noi come un libro, anzi come un diario che va alle radici di un’intimità dove l’uomo Frank si trova in un momento complesso della propria esistenza: mollato dal compagno dopo anni di relazione, isolato nella casa di un paesino dell’Alsazia, senza lavoro fisso, costretto a vendere la collezione di libri e DVD per campare e desideroso di tornare a Parigi dagli amici. Beauvais costruisce un film che è innanzitutto un percorso terapeutico, un fluire di parole e pensieri adagiato su un magma di immagini tagliate e incollate da centinaia di film che il Nostro ha visto durante i bui mesi casalinghi. I ragionamenti da lui condotti riescono ad essere profondamente intrinseci alla persona che fu e che quindi ora è, e al contempo esulano dalla sfera famigliare per attecchire, ad esempio, su meri fatti di cronaca. È una caratteristica insita in proposte del genere, il trovare un equilibrio tra una dimensione interna e l’antitesi esterna è uno di quei piccoli miracoli per cui vale la pena sedersi di fronte ad uno schermo, qui abbiamo uno splendido e sofferto ricordo del padre che al pari di tanti altri padri non è stato all’altezza del suo ruolo, e poi, in un continuo inserirsi di eventi, ecco profilarsi gli attentati dell’ISIS del 2016, il terremoto in Italia, un viaggio in Portogallo con due colleghi di nome João (saranno Pedro Rodrigues e Rui Guerra da Mata?), l’autobiografia orale tradotta in un’estetica vorticosa (penso che non ci sarà un frame che duri oltre i cinque secondi) è un moto aspirante, una lavatrice, un turbine emotivo-riflessivo da serie A.

E tutto ciò va ad assembrarsi sotto la grande cupola che ogni cosa contiene: il cinema. Non apprezzo granché il termine “cinefilo” perché fatico a comprendere i gradi che si necessitano per potersene insignire, uno che guarda miriadi di film è un cinefilo? Se sì, di quali tipologie di film parliamo? Blockbuster? Cinema d’essai? Sperimentale? Se no, è sufficiente vedere un numero contenuto di opere ma studiarle a fondo con la disciplina di un filologo? Beauvais fornisce la sua versione: tra aprile e ottobre 2016 ha visionato oltre quattrocento pellicole per un solo ed unico motivo: perché stava male. Ecco allora che si schiude il tratto maggiormente fertile di Just Don’t Think... perché scocca un interrogativo verso un nucleo fondante, il punto è che Beauvais potrebbe essere tranquillamente io che scrivo o tu che stai leggendo, pur con le differenze del caso, chi non ha trovato nel cinema un caldo rifugio dove poter ripulirsi dalle impurità che ci circondano? Chi non ha sognato, pianto, patito e via dicendo al cospetto di una qualche sequenza da pelle d’oca così bella da sentirla parte di sé e di nessun altro? Chi non ha studiato, chi non si è formato, chi non è cresciuto approfondendo un autore o un movimento? A domande di tal fatta viene automatico rispondere che il cinema è La cura, e stop. Però il titolo in questione è abile a suggerire la nemesi, perché la settima arte è anche una malattia, una dipendenza patologica, un bisogno insensato di abbuffarsi di visioni rinchiudendosi in un mondo illusorio perdendo di vista il bene quotidiano. Dove sia la cosiddetta retta via non lo so, forse la scelta finale di Beauvais è il modo migliore per ricominciare, lasciarsi alle spalle un limbo di ossessioni, di download, di solitudine, di masturbazioni, e aprire un nuovo capitolo.

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