L’evento centrale sembrerebbe essere un attentato terroristico che è stato, che non è stato, che forse sarà. Nel mezzo, da qualche parte, anche la ricorsiva assenza di una bambina di nome Elena, e al contempo: Michel e Lili, coppia gravitazionale un po’ in crisi (del resto parlano due lingue diverse) un po’ no, ammantati da un velo di falsificazione, obbligati a ricoprire ruoli decisi dai due demiurghi, tritati dall’irregolare flusso di eventi che li vede effettuare un nuovo primo incontro. Vista l’importanza che i fidanzati hanno nel film mi sono chiesto chi fossero, se dei terroristi rivoluzionari o semplicemente un uomo e una donna che all’interno del sistema artificiale piazzano un ulteriore strato di fiction, e, con dispiacere, non ho trovato una risposta. A naso intuisco che la figura di Masao Adachi va ben oltre l’aspetto realizzativo, potrebbe esserci della biografia (d’altronde Baudelaire lo ammira oltremodo avendogli dedicato anche il lavoro preparatorio The Anabasis of May and Fusako Shigenobu, Masao Adachi and 27 Years Without Images, 2011), come c’è, con ben pochi dubbi, una riflessione sull’attuale situazione politica libanese (la sequenza della cena è in tal senso esplicativa) per la quale ben poco mi sento di aggiungere a causa della crassa ignoranza che ho in materia. Sommando tutti i vari elementi continuo a percepire, a distanza di qualche ora dalla visione, una sensazione di inefficacia dovuta ad un’elaborazione troppo celebrale, mi piace quando si spinge a livello teorico a patto però che vi siano benefici tangibili. Rimane la profonda incompetenza del sottoscritto sull’argomento, sicché non vi conviene prendere per oro colato le mie parole.
sabato 9 settembre 2023
The Ugly One
Una
certezza, almeno una, ce l’abbiamo: che The Ugly One (2013)
è un film molto diverso da Letters to Max (2014), lo è nel
suo principio essenziale dove vibra una finzionalità sui generis,
così lontana dagli schemi che solitamente caratterizzano la
categoria, così vicina a impostazioni autoriali che fanno leva su
concetti come memoria e Storia con impepata sentimentale. Per dire
subito una cosa banale, l’opera di Éric Baudelaire non è
esattamente semplice ed immediata, la sua genesi si deve alla
conoscenza tra il regista francese (ma nato in America) ed il collega
giapponese Masao Adachi che qui ricopre il ruolo di narratore e
sceneggiatore. Adachi, a seguito della sua militanza presso
un’organizzazione di estrema sinistra nipponica, visse per parecchi
anni in Libano dove sostenne attivamente la rivoluzione palestinese,
da questo periodo espresso sotto forma di immagini erranti tra i
vicoli di Beirut nel bel prologo, germoglia una pellicola che,
cercando di diradare le nuvole delle perplessità, si sviluppa su due
piani: il primo è un’azione pseudo-meta, un qualcosa che esplicita
allo spettatore la costruzione progressiva delle battute, delle scene
e quindi del film stesso, il “tipico” disvelamento dei meccanismi
che stanno dietro al racconto sullo schermo, il secondo piano è il
concreto evolversi degli sforzi concettuali, ossia il modellarsi in
pratica della storia. Qui bisogna tenere gli occhi aperti perché
si sceglie di non essere diretti ma di mischiare la cronologia
temporale (passato / presente) e la natura categoriale (verità /
finzione), lo si ripete: l’accessibilità manca, al pari, forse,
della voglia di sforzarsi nel levigare gli spigoli con la nostra
comprensione.
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