Un evento “nero”, una morte, un omicidio, tre dei quattro film che ho visto di João Canijo, chi più, chi meno, annoverano al loro interno un’accelerazione sanguinosa che diventa fulcro, centro da cui si dirama la narrazione. In Ganhar a Vida (2001) il fattaccio accade subito e quindi in maniera altrettanto rapida si acquisisce consapevolezza sul percorso personale studiato dal regista portoghese per la sua protagonista (ancora una volta Rita Blanco), un tragitto emotivo ma anche sociale che viene ripreso in un modo che non era di Filha da Mãe (1990) e che non sarà di Blood of My Blood (2011) o É o Amor (2013), il taglio è un ibrido tra un’impostazione abbastanza classica e la ricerca di un realismo che si esplicita in asfissianti sequenze con la mdp letteralmente appiccicata al volto degli attori, un procedimento che quasi trasforma il reale in iper ma che, al contempo, delinea un Canijo forse in transizione, non ancora votato ad un prosciugamento delle umidità finzionali in favore di un racconto capace di sgorgare dal concreto, dalla vita che scorre, si rimane un po’ in un limbo autoriale che si accusa per via del processo di precoce invecchiamento che spesso colpisce molti esemplari cinematografici, esteticamente un’opera di vent’anni fa, oggi, ci appare vecchia, questo è, poi sotto la scorza secca e amara si possono rintracciare dei segnali artistici che danno respiro al discorso del lusitano, nuovamente, infatti, spicca un’attenzione appositamente studiata verso i colori e quelli predominanti sono il rosso e il verde, i medesimi della bandiera del Portogallo (e visto che l’azione si svolge in Francia è un dettaglio che piace), vieppiù che un paio di geometrie negli interni abitativi confermano la tendenza a creare una simmetria visiva e divisiva dentro gli appartamenti e tra chi risiede in essi (non a caso, alla fine, la famiglia di Adelino si sgretola).
Sul piano della scrittura, dell’intreccio, delle scelte argomentative, Ganhar a Vida mi è parso altalenante. Il dolore di Cidália è l’asse portante della storia e ok, non si eccede né in patetismo gratuito né in registri bislacchi, è un lutto sommesso e contenuto che non entrerà nell’Olimpo del Cinema ma che risulta vedibile, a cascata le dinamiche famigliari si avvalgono dello stesso basso tenore, trattasi inoltre di nucleo allargato che si assembra in una casa piccola e angusta dove è difficile avere un briciolo di requie. Al di là dei rapporti consanguinei che per il sottoscritto sono sufficientemente oliati, Canijo affronta, alla larga, una sorta di impegno civile perché l’uccisione di Alvaro per mano di un poliziotto diviene una battaglia portata avanti da sua mamma che però manca di sprint, le immagini della protesta fuori dal commissariato hanno molta artificialità e poca veridicità. Sulla medesima lunghezza d’onda metterei il poco incisivo contorno criminale, appena accennato, leggermente confuso (che ruolo ha il tizio con la coppola?), non esplorato (atto voluto? Mah!), in subordine c’è lo snodo che meno mi ha convinto in assoluto, ovvero l’infatuazione tra Cidália e Orlando, una forzatura sceneggiaturiale sbrigata alla veloce che suggerisce a chiare lettere la proiezione affettiva della donna verso un ragazzo coetaneo del figlio scomparso, un escamotage utile solo per far scappare via il padre da Parigi. Neutra, invece, la decisione di inserire uno sguardo (digitale) nella diegesi, non aggiunge granché, se non la speranza di avere giustizia. Tuttavia la conclusione semina il dubbio che a Cidália, arrivata fin lì, non le importi più niente di nulla, tranne che scomparire.
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