lunedì 31 agosto 2020
Moskva
sabato 29 agosto 2020
DAU. String Theory
C’è un folle che si aggira per la Russia, questo folle si chiama Ilya Khrzhanovskiy.
giovedì 27 agosto 2020
Green Screen Gringo
martedì 25 agosto 2020
A Espada e a Rosa
domenica 23 agosto 2020
Varesesaare venelased
venerdì 21 agosto 2020
8 balles
mercoledì 19 agosto 2020
El lugar más pequeño
lunedì 17 agosto 2020
Guest
sabato 15 agosto 2020
iBhokhwe
giovedì 13 agosto 2020
The Icebreaker
martedì 11 agosto 2020
DAU. Nikita Tanya
Tra il 2009 (ma alcuni siti riportano il 2008) ed il 2011 allestisce in Ucraina, presso la città di Charkiv, una gigantesca struttura che ricrea in maniera certosina un fantomatico Istituto sovietico (è la riproduzione di un centro di ricerca segreto ubicato a Mosca che fu attivo dal 1938 al 1968), in un’area di riprese da oltre dodicimila metri quadrati che pare si sia guadagnata la nomea di set più grande d’Europa (e si presume anche del mondo) dove, attraverso un poderoso sforzo produttivo tra Europa e Russia, ha costruito una specie di realtà parallela perfettamente abitabile, vivibile, si dice infatti che centinaia e centinaia di “attori”, divenuti tali poiché parte concreta del progetto ma entrati dentro ad esso come tecnici, scienziati, filosofi e via dicendo, abbiano vissuto per davvero all’interno di questa ciclopica Synecdoche, New York in salsa stalinista (e quindi abbiano indossato gli abiti d’epoca e mangiato e bevuto cibi di quel periodo) facendo sì che la distanza tra ciò che erano ed il ruolo che interpretavano si assottigliasse fino a svanire. Non è chiaro con quali modalità ma ci sono molti nomi di celebrità anche al di là dell’universo cinema che hanno fatto parte di DAU: Gerard Depardieu, Marina Abramović, Willem Dafoe, Charlotte Rampling, Brian Eno, perfino il nostro Carlo Rovelli che, insieme a Gianluigi Ricuperati (lo scrittore dall’esperienza ne ha tratto il romanzo Est edito da Tunué nel 2018), rappresenta la quota italica. Il titolo di questo esperimento cine-sociale prende il nome dal fisico Lev Davidovič Landau perché nell’idea iniziale Khrzhanovskiy voleva semplicemente (?) fare un biopic su di lui, ma il risultato che ne è conseguito parla di circa settecento ore complessive di girato tanto che sul sito ufficiale (link) si contano tredici film (ma sarà corretto definirli film?) che plausibilmente verranno pian piano resi disponibili. Facendo un passo indietro, il primo contatto tra DAU ed il resto del mondo avviene, dopo numerosi annunci e altrettante smentite, a Parigi il 24 gennaio 2019 con una mega video-installazione che coinvolge il Centro Pompidou insieme a due teatri parigini, qui Khrzhanovskiy proietta a ciclo continuo il suo ciclopico blob in un diorama sovietico che a sua volta rimanda a quello dell’Istituto, un articolo apparso sul Sole 24 ore ne parla come di un “flop colossale”. Un anno dopo le prime due parti di DAU vengono presentate a Berlino ’20. Qualunque cosa sia DAU, se un film, un’opera d’arte contemporanea o una mastodontica baggianata, sarà comunque una pietra angolare con cui si dovrà fare i conti, probabilmente la sfida cinefila più esaltante degli anni venti.
domenica 9 agosto 2020
Permanências
venerdì 7 agosto 2020
Oblivion Verses
mercoledì 5 agosto 2020
Demning
Ed il viaggio personale di cui parliamo non può che essere un viaggio sentimentale. Lo è per i due protagonisti di cui pian piano scopriamo qualcosa delle loro vite e delle loro emozioni, sia del passato che del presente, ma lo è anche, e se vogliamo credere nel film è il momento di farlo qua, accogliendo ciò che sto per affermare, in caso contrario Demning risulterà uno dei tanti onanismi autoriali che popolano la scena mondiale, dicevo: lo è anche per tutti gli altri, innamorati e disinnamorati, in uno slancio che si fa universale. Perché la vicenda sullo schermo, un amorazzo scandinavo che ha bruciato la passione nel giro di qualche notte, è la metaforizzazione di una qualsiasi storia d’amore con i suoi step definiti a partire dall’inizio quando l’altro subisce il processo di idealizzazione e diventa ciò che si vuole diventi e non ciò che in realtà è (scena nel tunnel con l’attribuzione reciproca di qualità che nessuno dei due conosce per davvero), e poi si prosegue con dei “normali” eventi di criticità che crepano il rapporto fino a provocare una ferita incurabile, e Tunge è bravo nel dosare gli elementi di rottura, mai esplicito, si colgono più che altro gli effetti: l’insofferenza che si traduce in masturbazione solitaria, l’invasione della privacy con la lettura del diario. Tutto ciò è la deduzione di un impianto antiletterale che vive in una dimensione sospesa, quasi onirica (del resto Tunge è un gran tessitore di atmosfere, si veda il successivo Ad Astra, 2016), dove ralenti da videoclip e sequenze contemplative dettano un ritmo alieno e disorientante, eppure, se lo si vuole, è appagante estrapolare un senso d’insieme unificante, oltre la materia trattata la congiunzione è anche nello spettatore che rivive quel freddo risveglio slavato dove lui o lei non sono chi avevamo pensato e sperato fossero, e allora la percezione muta e una vetta si profila, di rabbia, gestita abilmente dal regista che sfasa l’ordine temporale ricollegandosi al primo fotogramma, ma con quel consapevole amaro in bocca di una separazione.
lunedì 3 agosto 2020
Commodity City
La struttura di Commodity City (2017) è semplice, Jessica Kingdon, regista americana che ha iniziato la sua carriera come executive producer del pessimo Mea Maxima Culpa (2012), mette in sequenza una serie di quadri fissi dove abbiamo sempre due elementi costanti: i venditori ed i prodotti. Quest’ultimi sono oggetti di scarso valore (fiori finti, penne, orologi di plastica, semi di girasole, led, Barbie taroccate, e un sacco di altra roba) ma che hanno mercato perché sono quelli che poi vengono rivenduti nei dollar store di tutto il mondo, compresa, ovviamente, l’Italia. È indubbio che l’attenzione della Kingdon è rivolta alle persone che lavorano nei loro box stracolmi di merce, in tale ottica il corto riesce ad avere anche una sua estetica visto che nel caos ordinato (perdonatemi, dopo “silenzio assordante” è il peggior ossimoro della nostra lingua) emerge una strana geometria fatta di colori e linee che non dispiacerebbe al Wes Anderson di turno, è chiaro però che in uno spazio di dieci minuti non c’era la possibilità di un approfondimento umano (cosa che invece si sarebbe potuta fare, un Geyrhalter qualunque avrebbe portato a casa almeno i canonici novanta minuti), di sicuro però i commercianti che vediamo, anche se annoiati, sonnacchiosi o impegnati a stare dietro ai figli che si sono portati appresso, sanno fare il proprio mestiere e nonostante ci sembrino così lontani è plausibile che tutti noi abbiamo in casa degli oggetti che provengono esattamente da là.
La connessione tra Est ed Ovest che viaggia su una Via della seta diventata mondiale è il tema più interessante di un lavoro che non ha assi nella manica. Tuttavia osservando i negozi traboccanti di articoli sarà facile, per chi è stato in Asia, soprattutto nel sud-est asiatico, fare un parallelo anche con le vendite al dettaglio, in quei luoghi ci sono esercizi (di qualunque natura: dall’abbigliamento agli alimentari) così pieni di ciò che vogliono vendere da chiedersi se ci sia davvero una domanda per l’offerta che propongono. Banchetti all’angolo della strada che friggono e cuociono non si sa per chi, bugigattoli imbottiti di carabattole che non comprerebbe nessuno, banchi dove si stratificano maglie e magliette che per cercare una taglia bisogna chiamare uno speleologo. Eppure nell’immenso ricircolo dell’economia anche loro hanno una parte, proprio come i colleghi che esportano oltre i confini nazionali, la globalizzazione ha molte facce, Commodity City ce ne fa vedere una e ricordare un’altra che forse non rientra nemmeno nella categoria ma che per associazione quasi nostalgica di chi ha vissuto e sentito gli odori di quei posti, la confusione, la pioggia, lo smog ed il caldo tropicale viene a galla. Che meraviglia l’Oriente.
sabato 1 agosto 2020
L'accademia delle muse
La scelta è dunque quella di seguire un corso tenuto da Pinto in cui ci si confronta sulla figura della Musa nella letteratura classica, a rimorchio si introducono una serie di questioni esistenziali che si riflettono nel vissuto degli alunni, nelle loro relazioni (anche platoniche) e nei loro desideri, il sottoscritto ritiene che se il film si fosse fermato a questo step sarebbe risultato troppo freddo, troppo didattico, paradossalmente la costruzione che si apporta (laddove solitamente il “costruire” è un’azione che rigetto) è linfa vitale per implementare il pensiero dell’autore, e proprio di assemblamento si tratta, o meglio: di un’intelligente intreccio che si rifà al manuale del melò con blocchi cadenzati ma mimetizzati nel filosofeggiamento generale, abbiamo le porzioni domestiche con la moglie che non guarda mai in faccia il marito e che funge da polo negativo alla sua coscienza formativa e abbiamo situazioni in cui il professore stesso è colto in frangenti che indicano più di quanto mostrano (gli incontri in automobile o il dialogo in casa dell’alunna appena uscita dalla doccia...).
La traccia sentimentale o pseudo-tale che così si dipana non è un banale orpello ravvivante, al contrario risulta una parte realmente integrante dell’impianto teorico di cui diventa, in sostanza, la sua trasposizione empirica. Il film è uno specchio che discetta di amore e poesia (e del primo nei riguardi della seconda, ovviamente) applicando schemi (ci sarà sempre una componente di gelosia) e inevitabili variabili alla concretezza (che non sarà tale ma che comunque accettiamo) dell’esistenza. Sicché Pinto che ragiona su Dante e Beatrice diviene a sua volta un poeta in cerca della somma ispirazione muliebre, ma il gioco (che non è un gioco) delle emozioni, di ciò che si prova, di ciò che si sente, è un complesso ginepraio da dove non è facile uscire. Si parla di desiderio, possessione e passione partendo da un’ideale, da una cattedra se vogliamo mettere la cosa in modo asettico, e si trasla ciò nelle connettività umane del contemporaneo implicando nella ragnatela emotiva proprio i protagonisti delle lezioni, sempre con garbo e senza particolari esplicitazioni (nemmeno il finale cesellato ad arte dice una parola di più, la moglie sa chi è l’amante, noi no). Un film elegante nonostante non brilli per la forma e davvero fertile nel proprio nucleo intellettuale.