La struttura di Commodity City (2017) è semplice, Jessica Kingdon, regista americana che ha iniziato la sua carriera come executive producer del pessimo Mea Maxima Culpa (2012), mette in sequenza una serie di quadri fissi dove abbiamo sempre due elementi costanti: i venditori ed i prodotti. Quest’ultimi sono oggetti di scarso valore (fiori finti, penne, orologi di plastica, semi di girasole, led, Barbie taroccate, e un sacco di altra roba) ma che hanno mercato perché sono quelli che poi vengono rivenduti nei dollar store di tutto il mondo, compresa, ovviamente, l’Italia. È indubbio che l’attenzione della Kingdon è rivolta alle persone che lavorano nei loro box stracolmi di merce, in tale ottica il corto riesce ad avere anche una sua estetica visto che nel caos ordinato (perdonatemi, dopo “silenzio assordante” è il peggior ossimoro della nostra lingua) emerge una strana geometria fatta di colori e linee che non dispiacerebbe al Wes Anderson di turno, è chiaro però che in uno spazio di dieci minuti non c’era la possibilità di un approfondimento umano (cosa che invece si sarebbe potuta fare, un Geyrhalter qualunque avrebbe portato a casa almeno i canonici novanta minuti), di sicuro però i commercianti che vediamo, anche se annoiati, sonnacchiosi o impegnati a stare dietro ai figli che si sono portati appresso, sanno fare il proprio mestiere e nonostante ci sembrino così lontani è plausibile che tutti noi abbiamo in casa degli oggetti che provengono esattamente da là.
La connessione tra Est ed Ovest che viaggia su una Via della seta diventata mondiale è il tema più interessante di un lavoro che non ha assi nella manica. Tuttavia osservando i negozi traboccanti di articoli sarà facile, per chi è stato in Asia, soprattutto nel sud-est asiatico, fare un parallelo anche con le vendite al dettaglio, in quei luoghi ci sono esercizi (di qualunque natura: dall’abbigliamento agli alimentari) così pieni di ciò che vogliono vendere da chiedersi se ci sia davvero una domanda per l’offerta che propongono. Banchetti all’angolo della strada che friggono e cuociono non si sa per chi, bugigattoli imbottiti di carabattole che non comprerebbe nessuno, banchi dove si stratificano maglie e magliette che per cercare una taglia bisogna chiamare uno speleologo. Eppure nell’immenso ricircolo dell’economia anche loro hanno una parte, proprio come i colleghi che esportano oltre i confini nazionali, la globalizzazione ha molte facce, Commodity City ce ne fa vedere una e ricordare un’altra che forse non rientra nemmeno nella categoria ma che per associazione quasi nostalgica di chi ha vissuto e sentito gli odori di quei posti, la confusione, la pioggia, lo smog ed il caldo tropicale viene a galla. Che meraviglia l’Oriente.
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