Chissà
dove ci troviamo in Permanências
(2011), probabilmente in una città della regione natia di Ricardo
Alves Jr., Minas Gerais, ma potenzialmente potremmo esse ovunque: a
Napoli, a San Pietroburgo, a Buenos Aires, questo perché lo spazio
fisico catturato dal giovane regista brasiliano è uno spazio senza
connotati geografici a parte l’idioma portoghese biascicato dalle
persone in cui il cinema, per una mezz’oretta, diventa la loro vita
poiché è la vita di essi, noiosa, vuota, triste, irriferibile
davanti alla camera che diventa cinema. Ma, come si usa dire, a volte
le parole non servono e quello che si legge negli occhi lucidi di un
primo piano, nei tiri di una sigaretta di fronte ad uno spiraglio al
di là del cemento o banalmente in un muro scrostato o in una
vecchia foto incartapecorita su uno scaffale, è sufficiente a
colmare una stasi che si prolunga di quadro in quadro, un’inazione
dove non accade niente se non il fluire monotono dell’esistenza. I
lacerti che compongono Permanências si
riconducono, tutti, ad un’impressione generale di profonda
desolazione, è una rassegna di derelitti che con invidiabile
naturalezza si cala nella faglia del reale tra l’emarginazione di
Pedro Costa ed il grigiore urbano di João
Salaviza ma con una cifra contemplativa spiccatamente personale.
Il
corto successivo, Tremor
(2013), sarà forse un oggetto più raffinato rispetto a quello sotto
esame, il quale, comunque, tramite la sua messa in sequenza di piani
esclusivamente fissi racchiusi tra due esibizioni al piano (quella
d’apertura è più dolce e melodica, la chiusura è invece più
synthetica e nervosa), opera con discreta efficacia nel campo
dell’avvertibile, in un certo senso è quasi bello
accedere
in mondi del genere (accedere è un’esagerazione, carpiamo,
intuiamo, intravediamo) pur avendo pochissimi elementi a
disposizione. Un cinema che gira al minimo e che è ridotto all’osso
in ogni componente si dimostra comunque fertile, avvolto da una
ricchezza invisibile ai più, trapelante di emozioni e sentimenti
sebbene pathos ed eros a prima vista non trovino asilo al suo
interno, ma la “prima vista” è spesso fallace: “ho avuto poche
relazioni. Ero disoccupato a quel tempo e pensavo: non le farò
sprecare il suo tempo, lei può fare meglio, non le farò sprecare il
suo tempo. Così l’ho mollata senza dirle il perché. È solo che
ero disoccupato, così ho rotto.”
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